
05 Mag Intorno all’Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia
di Elisabetta Imperato
Non c’è nulla che possa rivelare una mancanza atroce più degli oggetti che restano inerti, perdendo per sempre la loro destinazione d’uso ma conservandone la memoria. Resta la cenere che li copre, mettendo a nudo i ricordi. L’inventario di Michele Roul, pagina dopo pagina, ci accompagna in un itinerario doloroso che squaderna il corso del tempo con inversioni e flashback.
Flashback che ricompongono, attraverso dettagli, il paesaggio fisico di un trauma indicibile. È la forza degli oggetti a parlare per Madre e Padre; sono le stanze vuote che scorrono davanti ai nostri occhi in forma di elenco. È lo spazio a ricomporre le tessere della memoria. Nel tempo che non è più, dopo l’incidente mortale, non conta l’ordine cronologico tra il prima e il poi. I piani temporali si mescolano, alternandosi e intersecandosi, in un memoir restituito ai superstiti dalle cose e dagli spazi un tempo abitati. Dalla prima parte alla seconda, dalla Casa che ha visto crescere Maggiore e Minore all’Automobile, ultima dimora dei loro corpi, tutto parla di ciò che era e che non è più, a partire dalla foto che ritrae i due fratelli nella cornice in argento 15X22 cm, transitata dal tavolino che ancora li ospita alla lapide. Che siano passati diciotto anni o solo poche ore dall’incidente, nulla cambia, perché il dolore “ti abbatte e poi ti aspetta”. La vita quotidiana si incaglia così tra gli oggetti, come una nave che non riesce più a prendere il largo.
In una dolorosa e necessaria detection del lutto, oggetto dopo oggetto, l’autore segue 99 tracce di ciò che resta: dal pentolino del latte che conserva la memoria del primo figlio, all’accendino Bic giallo e alla confezione di olio motore reperita nell’auto. È un viaggio, quello di Roul, dal particolare all’universale e dall’universale al particolare: la stessa scelta di non dare una identità onomastica ai personaggi ma di indicarli con un nome comune (Madre, Padre, Maggiore e Minore) rimanda a una scelta narrativa precisa: quella di concentrare l’attenzione sulle relazioni interne e sui ruoli familiari che ne definiscono l’appartenenza e al tempo stesso trasmettere al lettore un messaggio di fondo: La perdita di un figlio non ha nome perché si tratta di un dolore universale in cui potersi riconoscere. Ed è un dolore che spesso allontana perché ciascuno lo vive a modo proprio. Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia è un libro dalla geometria chirurgica sviluppato intorno a un’idea di fondo: la perfetta simmetria tra l’incendio che ha distrutto i colli limitrofi e la devastazione interiore provocata dalla morte dei figli. È un libro di fratture e di ombre, di luci improvvise. Un libro dove anche le macchie di umido del soffitto prendono vita come fantasmi.
Tra le pagine si alternano scene di vita quotidiana e rimpianti, presenze e assenze, domande assetate di risposte. È la storia di naufraghi. Di oceani e tempeste, di incendi e deserti. La perdita di un figlio è come una foresta che brucia, inaridisce ma prima o poi un’apertura alla speranza: gli alberi, col tempo, torneranno a crescere. Ma è un processo lento e doloroso.
“Il resto della casa era diventato un territorio straniero, Madre un’estranea con cui non era più nemmeno sicuro di parlare la stessa lingua. Erano mesi ormai che non avevano alcun tipo di rapporto: i due spazzolini appoggiati nello stesso bicchiere, la loro maggiore intimità”
Come nel film di Nanni Moretti “La stanza del figlio”, il libro termina con un finale aperto alla speranza. Ne sono segno tangibile i due corbezzoli fissati con delle cinghie ai porta-pacchi, con le radici e la terra chiusi in sacchi di juta che sporgono sul parabrezza; ne è immagine vivida il serpente a china che si morde la coda, ritrovato nel raccoglitore blu di Maggiore, allegoria del tempo che torna su sé stesso in un eterno circolo. È l’immagine della clessidra che ci restituisce un margine di speranza ma anche un sentimento di eterna disperazione perché “la sabbia si sposta, ma non se ne va mai. Basta girare la clessidra e il tempo riprende a scorrere. Alla fine è sempre questione di prospettiva”
E il grande letto matrimoniale (“Lo vedi? gli aveva detto Madre. È un oceano, senza di te, è troppo grande e troppo freddo. E io sono una zattera alla deriva, senza di te”) diventa la spiaggia da cui ripartire, disincagliando la nave del dolore in un luogo di ricomposizione, di faticosa ricostruzione e, forse, di salvezza.
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