
26 Apr Lo sguardo della Sfinge: l’arte di Leonor Fini
di Ivana Margarese
“Ho sempre immaginato che avrei avuto una vita molto diversa da quella che si immaginava per me, ma ho capito fin da subito che per poterla avere mi sarei dovuta ribellare”. Queste parole pronunciate da Leonor Fini nel 1979 in un’intervista a Nina Winter delineano alla perfezione la sua personalità indipendente e creativa, la sfida delle convenzioni coniugata a una sapienza visionaria, capace di proporre modelli di sguardo e pratiche coraggiose, irriverenti, ironiche.
Vitalità espressiva che la mostra Io sono Leonor Fini – titolo che riprende una frase di Leonor Fini, che amava affermare: “Sono una pittrice. Quando mi chiedono come faccia, rispondo: io sono”-visitabile al Palazzo Reale di Milano dal 26 febbraio al 22 giugno 2025, curata da Tere Arcq e Carlos Martín, restituisce invitando i visitatori a percorrere uno spazio denso di opere in cui come all’interno di un labirinto ci si perde e si ritrova il filo partecipando dell’universo simbolico e polimorfo dell’artista, ai giochi di specchi, all’eleganza delle stoffe, alla passione per il teatro e alla molteplicità creativa di rappresentazione del sé. Il percorso espositivo include anche numerosi inediti provenienti da archivi e collezioni private e attraverso nove sezioni tematiche restituisce la complessità di un’artista che ha sempre rifiutato di conformarsi e farsi incasellare.
Nata nel 1907 a Buenos Aires, Fini – che nel corso della sua lunga vita abiterà in diverse città da Milano a Parigi a Roma – cresce a Trieste, città della madre Malvina Braun, immersa in un ambiente colto e stimolante :“La mia è stata un’infanzia ricca e assai fuori dall’ordinario. […] una bambina impelagata in un conflitto tra madre e padre, un padre che cerca di rapire la piccola, spaventose liti tra genitori e un’educazione impartita principalmente da donne: una giovane madre, bella e infantile, quattro nonne (una vera le altre in realtà prozie)”. Leonor Fini non conosce il padre. La madre la porta con sé in Italia all’età di un anno e cerca di sottrarla ai ripetuti tentativi paterni di riaverla travestendo la bambina da marinaretto con un taglio di capelli à la garçonne e cambiandole il nome da Eleonora in Leonor: “ Quindi, in qualche modo, la mia infanzia assomigliava a un film d’avventura, dato che dovevano travestirmi da ragazzo ogni volta che facevamo un viaggio”.
L’artista racconta nelle sue memorie della sua fascinazione adolescenziale per il perturbante e per la morte che la spinge anche a intrufolarsi all’obitorio dell’ospedale principale di Trieste. Nell’edificio per la prima volta vede il cadavere di un uomo nudo, bello, alto e magro, con al piede un’etichetta che indica il suo nome; immagine che le rimane tracciata nella memoria e riemerge nelle sue raffigurazioni di figure maschili addormentate, inermi, che rifiutano, nelle parole di Fini, il sociale e il costruito.
A Trieste negli anni venti durante le riunioni domenicali a casa Veneziani o nel salotto di Elsa Dobra, la giovanissima Leonor ascolta le conversazioni di Italo Svevo, Umberto Saba, Giani Stuparich, sente parlare di letteratura e psicoanalisi. Diventa amica di Roberto (Bobi) Bazlen, uno dei fondatori della casa editrice Adelphi.
Sin da bambina il suo posto preferito è stato accanto alla Sfinge del Castello di Miramare, dove amava montare a cavalcioni: “da bambina, la sfinge sul flangiflutti era il mio posto preferito al mondo”. L’immagine della sfinge permea l’intera opera dell’artista, come una costante controfigura: “Volevo pensare come lei, essere forte ed eterna, essere una sfinge vivente. In seguito ho percepito che la combinazione uomo-animale era uno stato ideale. Mi identificavo con l’ibrido. La sfinge è un essere vivente che domina con calma gli uomini e prova pietà per loro. Ma può anche essere pericolosa”. Apparsa per la prima volta in La Bergères de sphinx (1941), la sfinge diviene motivo ricorrente in tutto il lavoro di Fini ed è una figura dell’altrove, un essere incompreso da cui, come suggerisce Alyce Mahon, irradia sicurezza e potere sessuale femminile capace di scompaginare gli stereotipi di genere da quello della musa a quello della madre. Leonor Fini sperimenta un nuovo linguaggio per rappresentare la sessualità femminile e maschile. Offre al nostro sguardo figure maschili in posizione supina, addormentate, vulnerabili e figure femminili ibride e metamorfiche.
Forme “impreviste” e ambivalenti dove l’artista dichiara di incontrare se stessa sempre con senso del gioco e sorpresa. A questo si unisce la passione per le maschere, i costumi, i travestimenti che le permettono di di fondersi con altre dimensioni, specie e mondi, di trovarsi in sintonia con contesti inediti, di inventare se stessa, tramutare e moltiplicare le identità fino al limite della propria capacità di farlo. “Dipingo quadri che non esistono e che mi piacerebbe vedere” dice Fini e nel suo percorso artistico lascia emergere alchimie di forme che invitano a ripensare i confini senza balaustre.
Elsa Morante, che le fu amica e che con lei e Anna Magnani condivideva la passione per i gatti, così la descrive: «Poi viene Leonor. Le finestre diventano luce, le ragnatele tende preziose di nuvole e stelle, i rami secchi doppieri accesi...».
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