“Amén”, di Sergio Daniele Donati

di Anna Rita Merico

Faccio voto di vuoto;

mi muovo lento

verso uno spazio ignoto.

Inizia dal magma la ricostruzione

Apre, in esergo, Paul Celan.

Ogni traccia ha un senso fondo in questo ultimo lavoro di Sergio Donati. Ogni traccia è periodo di un discorso svolto nel tra sé e sé in un compimento dialogico con chi ha dato forgia all’apprendimento della domanda nel cammino dell’Autore.

La domanda, in queste pagine, non ha mai percorso né lineare, né progressivo. La domanda autentica è una postura del pensiero poetante, è un modo attraverso il quale ciò verso cui ci si spinge è l’attraversamento delle soglie, l’affinarsi dell’ascolto, l’acutezza dello sguardo. Daniele Donati rende conto, in questo lavoro, di ciò che linearità non è. Nel fare ciò si colloca, da subito, nell’inciampo e nella balbuzie, nell’afono di un sorriso e nello straniante del sogno. Sono questi i segni di ciò che solca lo spazio dell’umano in ricerca. C’è la consapevolezza di un tattonnement capace di vedere ciò che è alle spalle della creazione. Abisso di silenzio doppio che martella il da venire nell’inconsapevole della genesi della sua stessa forma.

Nulla che possa alludere a forma definita. Il da venire s’alletta d’intramarsi con il vuoto. È potente, nei versi di Daniele Donati, l’andare verso un appuntamento con il vuoto che è dentro la creazione della parola. La luce si mostra e accoglie in sé ogni maroso perché ciò che avanza, con lo stesso gesto, si ritira. Il doppio del sacro che forgia chiama ogni alla sottigliezza di una cruna. Come dirsi incompiuti stando nel dentro di ciò aspira a compimento? È un’intera idea di perfezione a franare. La perfezione, ora, nel testo di Daniele Donati s’annida nel minuto, nell’ancestrale, nel sotterraneo.

Essere otre capace di accogliere parola. Movimento vibratile di ciglia colme. Giunge dai versi lo sciabordio d’acque primordiali intrise, come cera segnata, dal pensiero della parola. La parola possiede un pensiero che la genera? Soffio di genesi condensato nel suono d’antichi cembali e ancor più antiche corde e sonori soffi. Quale il suono vibrante dell’alito sopra le acque gestanti? L’andirivieni di questo andare s’abissa nel sogno e riemerge nell’oblio. Nelle pagine della silloge s’apre un universo d’ombre dialoganti. Sono i personaggi materici che alludono al farsi di quella tela che s’intrama sulle rocce di pareti di antri lì dove s’è aggrumato il pensiero prima di esplodere in segni, in sogni, in lacerti di intenti.

Mi capita di vedere

le cose come sono

dietro il velo

di uno sguardo ebete.

Si tacita sempre allora

il tamburo battente

della parola tiranna.

Lo sguardo è ebete, la parola è balbuziente, perché lo storto, il mancante macera sapienza? E se il perfetto fosse tutto chiuso nel bozzolo dell’imperfezione? Sto, probabilmente, cancellando, con parola poetica, milioni di passi fatti per aggrumarmi nell’origine negando la progressione, lo sviluppo, la linea retta, l’uscita dal caos, la sequenza, l’ordine?

Nulla è nell’incipit se non viene covato dallo sguardo dell’altro. Pelle s’immerge sbriciolandosi nel dentro del nome che svanisce. Secoli di storia hanno nutrito la ricerca del nome, ora dove cadono le briciole di quest’ arguta impresa?

La silloge consta di tre sezioni: Eppure, Essenze, Balbuzie.

Se la prima sezione è sul e intorno al passo a ritroso che riallaccia l’andare in avanti, la seconda sezione apre all’altro e a sé. L’universo si popola di presenze. Apre un testo immensamente bello di Edmond Jabes. È testo sul passare, sull’oltrepassamento, sul tornare. Percorso accidioso in cui affilare gli strumenti dell’attraversamento nel perdersi e nel trovarsi. Il volto non è mai definito, nulla più del volto è soggetto al cambiamento, allo slittamento, al dileguamento dell’umano errare: mentre l’umano slitta il compimento s’invera.

È senza tempo

-o forse solo antico –

il nostro percepire il mondo

diluendone i colori.

Al creato che scolora

il privilegio monolitico

di portare il bello

nel luogo sacro che è prima

d’ogni prima e dirci figli

dei nostri stessi figli.

Gli alberi si baciano in alto,

troppo pudichi per mostrare

al mondo l’intreccio

delle loro radici.

Esplode tutta la pudicizia del mostrare e della luce che anela l’ombra solo per potersi dire. S’aggroviglia un sotto di riverberi prolifici. La seconda sezione chiude con un’asserzione che brama gesto e sostanza di dileguamento e sottrazione in uno sguardo pre-socratico, sguardo di meraviglia che avvolge, con un unico gesto, sé e l’esistente.

Nel passo a ritroso emergono i fossili scoperti dalle vitree sabbie. Fossili che erano stati inghiottiti e che, ora, mostrano le doppie d’ogni interstizio. Negl’interstizi gli attraversamenti, il filiforme che muove l’andare, il nutrimento che dipana la forma. Si apre Balbuzie, il solco sacro nel quale la parola si adagia perché raccolta nel proprio misurarsi con l’alterità fuori da sé.

Un attraversamento è poetico e immaginario quando insegue una rotta il cui orientamento ha a che fare con precisi tratti evolutivi interiori. Qui emergono tratti di avanzamento che hanno a che fare con il prosieguo della propria ricerca in scrittura. Amén ne rende conto.

Scorrono i Grandi con cui Donati dialoga da tempo rendendo senso e direzione di parola. Soffermarsi su temi per l’Autore centrali è un modo per dire quanto e come ogni parola faccia casa in chi la sceglie.

Senza riguardo, pudore, compassione

mi han costruito alte mura tutt’intorno.

E ora sto qui seduto a disperarmi.

Non penso ad altro: mi rode questa sorte;

perché avevo da fare molte cose fuori.

Mentre la costruivano, come non mi accorsi?

In dialogo con Kostantinos Petrou Kavafis.

Un tratto solo, uno. Daniele Donati va al cuore della poetica dell’Autore con cui si pone in dialogo e ne trae dritto e rovescio di senso per dire quale la domanda che gli resta attaccata sulle dita e quale la domanda che lo interroga in contesto di scambio. Il tema della libertà, il tema dello stare dentro le voci da cui nasciamo, il tema dell’attesa della parola che germoglia, il tema duro del perdono, il desiderio, il dialogo con il divino.

Dall’intera silloge emerge il progetto-visione di un’umanità capace di nominare la propria fragilità. Un’umanità tesa nell’antico prosieguo del cammino di attraversamento dell’essere. E importante, in questo periodo storico, riflettere sulla scarsezza di parola capace di intervenire su una visione del mondo fatta di autentico e coraggioso passo di attraversamento del silenzio, del vuoto, del limite. Questa di Sergio Daniele è una poesia che addita ai legami profondi e complessi con la dimensione etica. Traspare in ogni pagina la tensione al desiderio di scoperta del proprio linguaggio. L’Autore giunge ad uno stile capace di fermezza e passione disciplinata per quella provvisorietà a cui la domanda apre mentre la verticalità della Sua lirica resta caratterizzata da un’asciuttezza tutta poggiata sul tema della tensione ad un sé capace di cogliere il senso del proprio trascendimento. Una concretezza fisica fatta di versi antichi mostra la propria, vertiginosa autenticità. È un progetto poetico che si pone fuori dal frammento e si orienta verso la centralità di una dimensione del sentire profondo di un palpito vitale fatto di paesaggi d’anima, senso di creativo svuotamento e presenza di una dimensione proficuamente meditativa.

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