“Olimpia” ultimo atto: verso la città nuova

di Giorgio Galli

 

 

Sezione VII: Il sonno

Il Contrasto tra il divino e il tempo era un sogno. Adesso si cade nel sonno, si sprofonda dentro la morte. Dentro la morte reale. Questo è il nucleo originario del poema: non la parte più antica per scrittura, ma la più intima, quella che custodisce le motivazioni più segrete dello scrivere. Poche parole ricapitolano il percorso finora compiuto:

la condizione umana chiude

in sé la forma del tempo

che non vuoi più

Si comincia ad andare, a muoversi, per traversare il limite. È un muoversi inesorabile, ma anche incerto, sonnambolico, un “oscillare sulla strada sdegnosa”: “il venir meno”.

hai visto il tempo nello spazio

brevissimo, ancora da varcare

In Olimpia il mistero viene esplicitato a poco a poco -proprio perché è mistero e non segreto- e qui Luigia Sorrentino rende definitivamente esplicita l’identità di luogo e tempo, l’incarnazione di entrambi nel luogo dell’attesa. Scendiamo lentamente, come in una precipitazione chimica:

la scomparsa si deposita

premendo negli occhi la rara

bellezza

Quegli occhi stanno per lasciare la vita e hanno già visto tutta la vita. Ma l’istante non è ancora giunto: la scomparsa “imperfetta resta lì sul confine”. L’ultima visione è quella della madre: alla fine di tutto incontriamo non l’origine, ma la forza dell’origine:

la madre è là dentro, insieme

erano stati l’aurora più forte

Alla fine di tutto troviamo il ritorno e la rinascita. Il cerchio di Olimpia si avvia alla chiusura:

al ventre fa la guardia il vento

tutto il mattino cade nella mano

Il vento nel ventre, il mattino nella mano sono figure di vuoto ma anche di aurora. Il vuoto, la caduta, il sonno, la morte: all’avvicinarsi del momento decisivo essi mostrano la congiunzione col loro opposto: la nascita, la vita.

Giunge l’istante: la morte:

ecco l’inviolabile

la senza volto

si è avvicinata stanca

impallidita e mutata lo toccò

severi grandi occhi colpivano

l’immagine sfigurata

della giovinezza

Non è la morte di una creatura: a morire è piuttosto la creatura, sono tutte le morti di tutte le generazioni:

ma lascia che ti prenda

a chi ti ha dato, tra le braccia

di padre in padre siamo stati

quella tua età sparsa nella casa

Tutti siamo stati parte della Creatura per il tempo della nostra esistenza.

Il frammento che segue alla morte inizia con parole già note: “lei era rimasta lì”. Riandiamo all’apertura de L’antro, ai primi versi del poema, “lei era lì”. Com’è circolare il tempo di Olimpia, così tende al cerchio la struttura del poema. La scena iniziale viene mostrata presentandone i due elementi in ordine inverso, come se rientrassimo nell’antro dalla direzione opposta. All’inizio del poema c’erano prima Lei e poi la caverna, qui ci si apre la visione dell’altro, per poi, quasi alla lettera, ripresentarci il verso iniziale. Guardare e abbandonare: questi i due gesti fondatori della poesia: di tutta la poesia, e di Olimpia.

lei era rimasta lì

tenue la luce diradava

con enormi occhi l’ultima

volta lui la guardava

abbandonava

e si sentiva abbandonato

nel fondo stabile degli sguardi

quella bellezza che si posa

dall’iride cadeva

rinnovandosi in lei

allontanandosi da lei

Dopo tanto addentrarsi nell’oscurità, il distacco dalla vita è sfiorato, lievemente. La bellezza è un polline, un’armonia prigioniera nella natura, che “dà vita”. Coincidono morte e rinascita, coincidono “allontanarsi e rinnovarsi”: un allontanarsi senza congedo, che conserva la bellezza depositata nell’iride e la porta altrove, verso l’altro, il nuovo, il meglio. Nel tempo zero di Olimpia s’intravede un’apertura verso il futuro: il futuro che non può che scaturire da un distacco. È un distacco quello con cui il corpo del bambino vien fuori dal ventre della madre; è un distacco quello con cui la morte separa creature legate. Il distacco è origine e fine. La giovane adesso non è più tutt’uno con la roccia: è veramente altrove, altrove senza che vi sia stato un vero congedo, altrove sopravvivendo in quel polline deposto nell’iride. È una morte delicata: una caduta nel sonno, un distacco senza oblio. È la morte di tutti, ma è anche il canto di chi resta. Lo sguardo che tiene uniti i vivi e i morti, lo sguardo che tiene le immagini e le trasforma in memoria permettendo di tramandare la bellezza. Questa è la parte più intima del poema, così intima e che a leggerla sembra di violare un segreto. La morte che vi è adombrata è una morte così innocente e fresca, così ancora viva che noi pensiamo subito alla morte di una giovane, a una vita interrotta sul più bello. Poi

Uscendo dalla montagna scorgemmo il verde cambiare come una tinta raggelata. Tu portavi e lasciavi il verde dei boschi. Vedemmo e lasciammo quel verde passando accanto a piccoli fiori, a rari alberi disseminati nella vallata, giovani alberi, vicino a strade asfaltate. Moriranno qui dove forse un tempo cadeva il ruscello.

È il testo della prosa conclusiva, intitolata L’ingresso alla montagna. Il passaggio alla prosa torna a segnare un momento di distensione anche semantica. C’è una morte precoce adombrata in questa sezione, ma, dopo esserci sprofondati nel morire, dopo aver visto morire, cominciamo a uscir fuori dal lutto.

Sezione VIII: Giovane monte in mezzo all’ignoto

Se il testo del Sonno è quello di un ingresso nella morte, il sottotesto rimane quello del depositarsi della Bellezza. Le esperienze del vivere e del morire portano un dono, un granello di Bellezza che si deposita e precipita raggiungendo la sua quinta essenza. Non è ancora arrivato il momento della creazione, dell’estrazione della forma: siamo ancora al depositarsi nella memoria dei dati esperienziali. Vita e morte sono posti in un continuum perché Olimpia avviene nella memoria, e la memoria preferisce la libertà dell’aiòn alle rigide maglie del chronos. È dalla memoria che -platonicamente- si recupera il materiale della creazione. L’allontanarsi senza congedo, il distacco senza oblio sono sentimenti che accompagnano non solo la fine di una vita, ma anche il congedo da un’opera o da un paesaggio che lasciano un segno, una traccia nella nostra visione del mondo.

Giovane monte in mezzo all’ignoto prende le mosse da questa condizione:

dopo la terribile lotta tutto era svanito

la morte si era aperta

uno di noi aveva abbandonato il suolo

non cercavamo più nulla

nell’azzurra penombra del bosco

Uno di noi: l’espressione biblica esplicita che il divino è nell’uomo, e che la divinità umana si esprime attraverso la creazione. “La morte si era aperta”: Olimpia procedeva per misteri e per riti perché la morte non si era ancora realizzata: nel momento in cui “si è aperta” è diventata “finalmente comprensibile” (espressione trovata ne L’antro: la costruzione di Olimpia è densa di ritorni).

tutta la nostra attesa era

in una madre che ritorna

nel regno dei vivi e dei morti

frantumato dinnanzi a lei

I due regni (parole esplicitamente rilkiane) sono entrambi frantumati dinanzi alla madre: e questa madre, origine e fine del mondo, è l’Armonia. L’Armonia dev’essere tanto consapevole quanto innocente, e per questo è necessaria una nuova rottura nell’equilibrio:

senza steli stavamo sulla spanata

trasportati qui dove si tace di gioia

Siamo piante, siamo cose della natura, parti dell’Armonia. Ma l’immagine è più gioiosa di quelle dei relitti e fossili incontrati lungo il corso del poema. Adesso “si tace di gioia”: segno che stiamo uscendo dal lutto, dalla frantumazione creatasi sulla superficie del mondo.

tace su tutto chi possiede

quello spirito del futuro

sopra le rovine

Il possesso di questo spirito è il tesoro scavato dal poema, il senso di questo rimeditare sulla creazione. Olimpia è anche l’essere umano che è caduto e che, morendo, si è culturalizzato: ha cessato d’essere cosa della natura per diventare elemento del pensiero. Ma

Ciò che crediamo perduto possiamo

riaverlo, te l’ho già detto,

spopolato!

Spopolato come i fossili, le statue decapitate, le rovine, le mappe incontrate lungo il poema. Non è scomparsa la fonte violata dal dio. L’umano può tessere il suo divino affinché il mondo spopolato torni umano. È la cultura lo strumento di questa riumanizzazione: la cultura che è eterna giovinezza perché lega la Storia e le storie, è forza che muove i popoli.

Leggiamo per intero il bellissimo frammento in cui Olimpia si rivolge al giovane monte, il frammento eponimo dell’intera sezione:

ciò che crediamo perduto possiamo

riaverlo, te l’ho già detto,

spopolato!

non scompare la fonte

tesse il suo divino l’umano

giovane monte in mezzo all’ignoto

ti ho trovato addormentato

con l’orecchio alla terra,

così trascorri il tempo che ti parla

saluta la bellezza

tu sei nato, sei importante

tu sarai un grande uomo, una donna

grande sarai, tu deciderai l’azione

il ringiovanimento dei popoli,

sarai fratello e sorella,

primavera, che sciama nel vigneto

Commuove la vigile attesa del monte, che non ancora sa la forza che possiede ed è ancora domo dagli eventi della Caduta. La voce lo sorprende mentre è addormentato: la bellezza può agire, la bellezza è forza motrice sia pure invisibile, indiretta. È forza che muove l’umano. “Saluta la bellezza / tu sei nato, sei importante / tu sarai un grande uomo, una donna / grande sarai…”.

Di eccezionale potenza figurativa è il vigneto dell’ultimo verso: è carico di cultura: la vite è il Cristo, ma è anche la cultura greca e mediterranea; e il far vino, far vendemmia, è immagine della creazione artistica (Nietzsche nelle sue lettere chiamava “grande vendemmia” la sua ultima stagione creativa). Per far vendemmia occorre che sia autunno, che un dolore abbia offuscato l’allegria delle belle stagioni. Ma le belle stagioni ritornano, sotto forma di opere create, sotto forma di gioia consapevole.

E dobbiamo soffermarci anche sul suono di questo frammento, che dopo un attacco teso e vibrante fluisce in una musica solenne e trepida. E bisogna soffermarsi sull’ultimo verso, un endecasillabo, che indugia sulle a e crea un’inquietudine, una scossa sonora -in conformità con l’invito al risveglio- accostando la sc di sciama alla gn di vigneto: shock fonico dove anche le vocali si schiariscono d’improvviso, passando dal predominio della a all’improvviso schizzar fuori di e ed i in vigneto.

C’è una creatura che resta dopo la morte, una creatura giovane, carica di memoria ma volta al futuro. Ormai i versi sciorinano immagini di rinascita, di ritorno alla vita -di armonia: “l’equilibrio dei fiori”, il “rigore prezioso della natura”, la “spontanea armonia”. Ecco l’armonia più consapevole che segue a una rottura; ecco da dove inizia la creazione.

L’ultimo frammento in versi inneggia a una rosa. Una delle ultime poesie di Rilke è l’elogio della rosa che è pura forma, priva di significati, che non rimanda ad altro che a se stessa. Ma in Olimpia la forma non si chiude in se stessa: è ciò che sopravvive, che rivive. E difatti stiamo per uscire dalle rovine, per proiettarci nella città nuova.

Conclusione: La città nuova

La prosa finale, che ha questo titolo, evoca l’uscita (quasi l’espulsione) dal poema. E in Olimpia è logico che uscita dalla città e uscita dal libro si identifichino.

Dal ponte di ferro sul quale sostammo vedemmo la cupola sventrata, accerchiata dalla città nuova. Appariva dalla lente deformata del vetro saccheggiato. In basso, dalla piazza di cemento circondata da abitazioni a terrazza arrivava il canto dell’umano a cui nessuno resiste. Lontano, il confine di un orizzonte tagliato da una sorgente d’acqua che da qualche parte si congiungeva al mare.

Olimpia, gioia di esseri non esperti di gioia!

La fonte s’è ricongiunta alla totalità cosmica (“da qualche parte si congiungeva al mare”), il “canto dell’umano” è esso stesso l’umano, è essere dell’umanità. Questo canto (il canto dell’arte) è “gioia di esseri non esperti di gioia”. Ma la poesia di Olimpia è poesia greca (cioè della polis) e non ellenistica (e qui marchiamo la differenza da Rilke). È poesia-azione. La caduta di Iperione non è vera caduta: bisognava solo capire che anche la poesia agisce, che proprio sottraendosi al tempo travalica il tempo, e che il tempo della sua azione non è solo il presente. Nel suo appartenere a un’antica polis, essa disegna la polis che dev’essere, la casa comune dell’umanità.

(Le immagini di questo articolo e degli altri che precedono sono costituite da dipinti del pittore svizzero Arnold Böcklin)

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