“Olimpia” e il canto di Iperione

di Giorgio Galli

La quinta sezione del poema rimanda alla tragicità hölderliniana. Sorrentino trasferisce a una visione onirica la leggendaria lotta fra i Titani e gli dei olimpici per la supremazia sulla terra: ci porta quindi al momento della separazione tra divino e umano.

Composta da sei Cori e da una prosa finale intitolata Il confine, Iperione è la sezione più breve del poema -se si eccettua l’ultima, Giovane monte in mezzo all’ignoto– e ne costituisce apparentemente un blocco narrativo a sé stante, distinto sia dalla peculiare struttura interna, che da una minore centralità del Rito. Se il Sogno spacca a metà il poema -per la sua posizione centrale e per la violenza che vi è rappresentata- sembra che in Iperione il cammino riprenda, ma in direzione più eccentrica, e che più liberi i temi si dispongano lungo l’architettura del poema. In realtà, ci si accorge pian piano che Iperione è la mappa del poema. Non una deviazione dal cammino, ma uno stacco panoramico, che mostra il cardo e il decumano del cammino.

C’eravamo già soffermati sul “noi” di Olimpia, sull’ethos panumano che scaturisce dal suo richiamo a una civiltà estetica, sul suo essere coro di tragedia. Tutto questo ora diviene esplicito. Esplicito è il richiamo all’opera (e non solo all’opera omonima) di Friedrich Hölderlin. Iperione sviluppa un discorso sulla creazione e sull’armonia, sulla conoscenza e sul suo rapporto con l’innocenza, che è caro al poeta tedesco. E hölderliniani sono anche la densità semantica, il tono vaticinante del Coro I:

tutto stava su di lei

e lei sosteneva tutto quel peso

e il peso erano i suoi figli

creature che non erano ancora

venute al mondo

lei stava lì sotto e dentro

“Tutto stava su di lei”: il peso della conoscenza, il peso della creazione, e soprattutto il peso di dover trarre l’armonia. “Il peso erano i suoi figli”: i figli sono vita creata, atto creativo e vivificante per eccellenza. E “lei stava lì sotto e dentro”: perché la creazione nasce dall’inabissarsi, dal soffrire, è qualcosa che schiaccia l’umano e da cui bisogna lasciarsi schiacciare se si ha il coraggio di creare:

questa pena l’attraversava ancora

quando venne meno qualcosa

Venir meno: un verbo che prenderà sempre più corpo nel prosieguo dell’opera. Sembra che la poesia implichi un venir meno nella vita -un morire, un tornare all’origine- ma anche un dono, un naufragio da cui s’approda ad altra terra. Tornano in mente le parole di Cioran, che nel Sommario di decomposizione afferma che la personalità umana del poeta è la negazione stessa della vita.

Il Coro II lo riportiamo per intero:

c’è una notte arcaica in ognuno di noi

una notte dalla quale veniamo

una notte piena di stupore

quella perduta identità dei feriti

si popola di volti,

quell’abbraccio mortale

*

in un tempo sospeso tra mente e cuore

mai la notte fu così stellata

*

gettati in mare ingoiarono acqua

e pietre, strisciarono sulla sabbia

e furono in totale discordia

ebbero passi pesanti

e sparirono, sottoterra

*

il cenno si dissolve

da sé cade il fragile umano

frutto effimero, del mortale

C’è una definizione esemplare dell’attesa: “Un tempo sospeso tra mente e cuore”. Il tempo, o meglio il tempo-luogo, appare sempre più interiorizzato. La “notte arcaica” è la condizione dell’uomo primitivo, del bambino, ma anche del poeta sensitivo. Solo per grazia della notte arcaica una ferita riacquista il suo volto. L’offesa cancella il volto umano, la poesia lo fa riapparire: conferendo dignità alla ferita, essa mostra il volto nel pieno splendore della sua sofferenza.

Il luogo dell’attesa è impregnato di segnali: “mai la notte fu così stellata”. E non può essere altrimenti perché è in questo limbo oscuro che la sensitività del poeta acquista pieno diritto di cittadinanza. Egli solo sa leggere i segnali. Le figure dei naufraghi, la lotta dolorosa tra forze potenti e opposte sono il caos da cui può trarre l’Armonia. L’Armonia è il suo compito esclusivo, poiché sa vedere i segnali, ha uno sguardo da notte prenatale, uno sguardo innocente, sgombro.

A uno stadio prenatale ci porta il Coro III, ove l’indistinto -il potenziale- è “immenso” e “inattuato”. Non c’è ancora luce, ma l’indistinto è diverso dal buio: è definito “non luce”. Poi

si volse la notte si volse

bisognosa a noi che aprimmo

lo sguardo alla forma sollevata

Bello e rilkiano il verso “Si volse la notte si volse”. E rilkiano è l’insistere sulla visione (“aprimmo lo sguardo”). Più avanti scopriamo che “solo il gesto vede”. Un altro concetto rilkiano: il gesto crea il suo spazio e il suo tempo: è, ancora, un deittico creatore. L’enfasi posta sui deittici al principio del poema anticipava il loro ruolo vitale.

Di vitalità parla il Coro IV, esistenza che tenta di continuare a esistere, pura forza primordiale. Ma l’intuito e la conoscenza riescono a incanalare questa forza. La trasformano. Chi è che opera questa trasformazione? Non c’è dubbio: è Iperione. Il successivo Coro V è un canto del Werden, del mutare, che assume anche la forma dello “svanire” (ed è lecito pensare a un’altra figura hölderliniana, quella di Empedocle). Torna un’opposizione che abbiamo avvertito in tutta Olimpia: Egli è il cosmo, il tutto, il Werden; Ella è descritta come “nettezza”, Essere davanti a cui Iperione soccombe.

È semplicistico istituire l’equazione Egli-Iperione, Ella-Diotima; ma è difficile sottrarsi alla suggestione della morte di Diotima all’inizio del Coro VI:

abbiamo perso tutto

caduti in un eterno

frammento

la prima luce su noi

infuocata ha distrutto tutto

Poi però la poesia s’incarica di ricordarci una verità più complessa:

la prima creatura di umana

bellezza è morta, ignota

a se stessa

i popoli appartengono alla città

che li ama

privi di questo amore ogni stato

scheletrisce e annera

la natura imperfetta non sopporta

il dolore

Non è solo il pianto per una morte individuale: qui c’è tutto il senso della la caduta di Iperione: il contatto del poeta con la Storia lo brucia e lo porta alla sconfitta nell’azione (pensiamo a un’altra poesia di Hölderlin, l’Ode a Napoleone). C’è il pensiero di Hölderlin sulla polis, che corre il rischio di trasformarsi in società meccanica, fondata sui rapporti funzionali e non su quello spirito di appartenenza a una comunità il cui obiettivo finale è l’Armonia.

La prosa conclusiva ci riporta a prima del drammatico Sogno. Siamo di nuovo sul limite, ma non siamo più gli stessi. Il Sogno e la Caduta ci hanno mutato. La voce racconta di una Olimpia “morente e mutata”. Il morire e il mutare, lo ricordiamo, sono parti del compiersi; ma il compimento è ancora lontano. Ogni sezione del poema tira le fila di un discorso che si intreccia sempre sugli stessi punti. Si riparte da capo, essendo ogni volta diversi.

(Le immagini di questo articolo e degli altri che seguiranno sono costituite da dipinti del pittore svizzero Arnold Böcklin)

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