Il 1978 di Fellini: l’ultima prova dell’orchestra impossibile

di Giorgio Galli

È stato scritto molto su Prova d’orchestra di Fellini come inquietante metafora del clima politico italiano dei tardi anni Settanta. All’epoca c’era un vero e proprio gioco d’identificazioni: quell’orchestrale ha l’accento sardo, dunque potrebbe essere Berlinguer; quell’altro è piccolo e basso, potrebbe essere Fanfani. Oggi che la cronaca di quei giorni è lontana, e che la classe politica di allora appare tutto sommato più desiderabile rispetto al nulla attuale, è chiaro che tale gioco non ci interessa più. Se proviamo a sottrarre i 70 minuti del film alla cronaca e a inserirli in un discorso storico, possiamo vedere in essi un apologo sullo status dell’arte in rapporto alle ideologie del Novecento: su come nazifascismo e comunismo abbiano cercato di irreggimentare gli intellettuali e come poi l’ideologia dei consumi li abbia, semplicemente, scartati. L’esecuzione del singolare brano composto per il film da Nino Rota -qui alla sua ultima collaborazione con Fellini- di fatto non avviene: schiacciata tra le istanze libertarie rappresentate dall’orchestra e quelle autoritarie incarnate nella figura del direttore, la musica dapprincipio non si realizza perché viene sopraffatta dalla confusione; poi, dopo l’intervento della gigantesca palla che abbatte una parete dell’edificio, precipita nello sbigottimento della scena finale, in cui, a schermo nero, il direttore sbraita invettive in tedesco come un novello Führer. E se all’epoca della realizzazione del film (1978) il finale veniva credibilmente interpretato come metafora delle possibili involuzioni autoritarie cui avrebbe condotto un eccesso di disordine e anarchia -sulla scorta di quanto avvenuto in Cile pochi anni prima- oggi ci appare in una luce ancora più inquietante: fascismo e comunismo si confrontavano entrambi dentro la sala da musica, mentre l’ideologia dei consumi faceva irruzione come istanza demolitrice esterna, estranea ed incomprensibile a entrambi. La genialità di Fellini sta nell’aver colto -come l’aveva colto Pasolini- che quest’istanza nuova parlava tuttavia un linguaggio conservatore e autoritario, il tedesco delle urla del direttore a schermo nero.

Difficile dire se questa interpretazione si fosse realmente affacciata alla coscienza di Fellini: nelle interviste egli oscillava tra l’adesione a una lettura politica del film e la rivendicazione della sua coerenza col carattere fantastico del suo intero percorso creativo. A volte si lasciava persino andare a speculazioni fumose sul bisogno d’istituire un “Ministero dell’Italianità” -da articolare in dipartimenti dedicati alla Napoletanità, alla Romanità e via dicendo- per “cercare di capire meglio chi siamo”: dichiarazioni che, nella loro goffa ingenuità, sfociavano nel più aperto qualunquismo. C’è da credere perciò che non fosse questa l’intenzione espressiva di Fellini, e che siamo di fronte a un caso in cui l’intentio operis scavalca l’originaria intentio auctoris.

Se l’idea della breve pellicola apre a possibilità di lettura affascinanti, la sua realizzazione -ad onta di alcuni momenti di poesia, collocati soprattutto all’inizio e alla fine- appare irrimediabilmente datata. Non si ride agli sketch comici del film, i siparietti scurrili fra gli orchestrali, l’accentuazione parodistica delle loro cadenze regionali e dei loro difetti di pronuncia non suscita più la divertita curiosità che poteva suscitare all’epoca, e denuncia piuttosto quella grevità di fondo tipica del sentire di Fellini. Per chi veniva fuori dal fascismo, come appunto la generazione del regista, la volgarità poteva essere un mezzo per scardinare l’incredibile retorica in cui s’era formato: oggi essa appare soltanto volgarità, senza più alcun valore eversivo. Dunque accade che il nucleo profondo del film sia invalidato dal suo involucro esterno, che la genialità delle intuizioni vada perduta nel chiacchiericcio della messinscena.

Prova d’orchestra è un film corale e senza nulla di realistico, per cui non ci si può aspettare che i gesti del direttore interpretato da Balduin Baas -vagamente modellato sulla figura di Herbert von Karajan- abbiano qualche credibilità come gesti direttoriali, come avviene in Tàr e in Maestro, dove Cate Blanchet e Bradley Cooper si sono studiati di imparare -per quanto possibile- a dirigere. E poiché lo spettatore, anche quello che nulla sa di musica, capisce tuttavia se il direttore sta dirigendo davvero oppure no, i movimenti casuali di questo maestro dai modi autoritari, ma destituito d’autorevolezza, paiono oggi profetici della mancanza d’autorevolezza dei nostri tempi, di quella che Primo Levi in un articolo raccolto in L’altrui mestiere chiamava “un’epoca singolarmente priva di carisma”. Forse Fellini non ha mai inteso dir nulla sull’incendiarsi delle ideologie al loro tramonto e sull’ascesa devastatrice della civiltà dei consumi, ma, da uomo di carisma egli stesso, ha percepito che si stava profilando una fase nuova della storia, una fase in cui il fascino e il mistero sarebbero andati smarriti. E poiché il suo cinema vive di fascino e di mistero, il loro venir meno gli ha provocato la disperazione degli ultimi anni, cui cercò di reagire col pantagruelico delirio visivo delle pellicole estreme. In altre parole, Fellini sentì la mutazione antropologica, senza concettualizzarla come Pasolini, ma rappresentandola al massimo della sua potenza visionaria. Nel suo ultimo cinema il presente appare come una continua invasione barbarica, un continuo assalto del mondo vero al suo mondo fantastico, tale da generare il disgusto: quello che Fellini realmente provava nel suo periodo senile, e che espresse in una lettera a Roman Polanski del 1982, quando, nel pieno della realizzazione de La città delle donne, si dichiarava “exhausted and disgusted as never before”.

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