Enigmatico film su un enigma

di Giorgio Galli

La caduta di una dea: potrebbe essere questo il sottotitolo -un po’ nietzscheano e un po’ viscontiano- dell’ultimo lungometraggio di Todd Field. Una caduta esplorata lentamente, a lungo preparata, ma con una curiosa contraddizione: che l’uso linguaggi diversi -da quello tradizionale, seppur rallentato in una prima parte dominata da interminabili piani-sequenza, a quello più nervoso di furtivi screenshot e di video realizzati al cellulare- l’uso di diversi linguaggi, dicevo, rimanda di solito all’alternarsi di vari punti di vista, mentre qui siamo ossessivamente ancorati a un’unica prospettiva: quella della protagonista, superbamente interpretata da Cate Blanchet. L’intero film è, per espressa dichiarazione del regista, modellato su Cate Blanchet, sul suo carisma, sul mix di passionalità e freddezza che riesce a trasmettere, sulla sua capacità di mutare rapidamente registro espressivo. Se non fosse per lei, il personaggio risulterebbe monocorde al pari di tutte le figure di contorno -poco esplorate e poco sfumate da un punto di vista psicologico-, risalterebbero i buchi della sceneggiatura, e forse il film stesso perderebbe di credibilità.

Todd Field costruisce una pellicola scomoda, che non arieggia al linguaggio di moda delle serie televisive, non concede nulla al gusto odierno d’imboccare lo spettatore, ed anzi gli richiede un altissimo grado di partecipazione attiva alla costruzione del senso del film. Forse esagera perfino, abbondando in ellissi narrative e aprendo il campo a possibilità di lettura fin troppo divergenti -i rumori e le grida di donna sono allucinazioni sonore di una Lydia vicina al tracollo psichico, o sono dovuti a una persona che la segue ossessivamente e che avrà un ruolo drammatico nel prosieguo della vicenda?, perché è chiaro che, a seconda di come li si interpreta, la psicologia del personaggio cambia in modo significativo.

L’ultima mezz’ora ha le caratteristiche di un sogno: se la prima parte era molto parlata, qui i dialoghi sono quasi assenti; ci sono scene tagliate in modo così brusco da suscitare il sospetto che si tratti di un errore di montaggio; vediamo giustapposti situazioni e registri diversi, atmosfere e ambienti eterogenei, e sempre più numerose sono le lacune della sceneggiatura. Stiamo assistendo -in tutto o in parte- a un incubo della protagonista o quella che vediamo è la realtà?

Nel procedere della narrazione, vengono toccati temi enormi -dall’abuso di potere ai meccanismi della fama al tempo dei social, dalla cancel culture alla discriminazione di genere e financo all’identità di genere-; ma, per l’appunto, li si tocca: a volte perfino li si sfiora. Nulla viene approfondito. La stessa Lydia rimane per noi una sconosciuta. Per due ore e trentotto minuti viviamo la sua vita, assistiamo ai suoi sogni, sentiamo le sue allucinazioni sonore, ma non sappiamo nulla di lei. La vediamo minacciare una bambina in modo così tremendo che sembra capace di ucciderla e poi la vediamo affettuosa con la figlia adottiva. Chi è Lydia Tár? Sappiamo che è un’affermata direttrice d’orchestra e compositrice, una star internazionale della musica classica, sappiamo che è lesbica e che ha una compagna anche lei musicista. È una donna che ha deciso di competere al maschile, comportandosi come un uomo di potere in un mondo prevalentemente di uomini -altro tema enorme, che però il film riduce al carattere individuale della protagonista.

La lunga intervista iniziale -che dura quanto un’intervista vera, ed è condotta da un vero giornalista americano che recita nel ruolo di se stesso- la mostra istrionica e sicura di sé. In una lezione alla Julliard umilia un ragazzo in evidente difficoltà emotiva, il quale però esprime opinioni così forzate, ispirate così acriticamente alla cancel culture, che lo spettatore, nel merito, dà ragione a lei. Nelle conversazioni coi sottoposti, ha un comportamento al limite dell’abuso, ma tutto sommato preferiamo lei a quei sottoposti così servili e ipocriti. Lydia è passionale -con zelo- quando fa musica e quando parla di musica, ma è gelida con la sua compagna. L’unica persona a cui sembra davvero affezionata è la figlia adottiva. E che dire degli abusi sessuali, casus belli della sua caduta? Ci sono davvero stati?, e quanto erano gravi? E la ragazza suicida s’è suicidata davvero a causa sua, o era una persona disturbata come Lydia non smette di sostenere? A noi, la protagonista appare così gelida, così innamorata soltanto del potere, che a stento le attribuiamo una vita sessuale.

La sceneggiatura procede per dettagli talmente minimi che spesso si colgono solo retroattivamente, o non si colgono affatto -confesso di aver dovuto leggere una sinossi per comprenderne alcuni- e il montaggio nell’ultima mezz’ora si fa così incalzante che a volte non lascia il tempo di rendersi conto di ciò che abbiamo visto. Si può alludere, anzi si deve alludere in un’opera che ambisca a essere d’arte, ma non si può alludere a tutto. La vaghezza della sceneggiatura e il linguaggio adottato da Field portano l’architettura drammaturgica a collassare su se stessa -e noi a chiederci se ci sia un’architettura drammaturgica o se il film, così destrutturato, voglia appunto negarla.

Il finale è scioccante: la punizione che tocca a Lydia non è toccata, storicamente, nemmeno ai direttori accusati di collusione col nazismo. Malgrado tutto, la sentiamo ingiusta.

È un film perturbante e irrisolto, che lascia dietro di sé un lungo strascico d’interrogativi: usciamo dalla visione con la sensazione che la montagna abbia partorito un topolino, che l’enorme sforzo tecnico non abbia portato a uno stile. Approfitto per segnalare che, nell’intervista iniziale, c’è un errore -non so se dovuto alla sceneggiatura o al doppiaggio italiano – che un appassionato di musica facilmente individua: la Quinta di Mahler non è soprannominata La grande, quella è la Nona di Schubert. In una pellicola fatta esclusivamente di dettagli, i dettagli contano.

No Comments

Post A Comment