La “sirràta” dei minatori

di Francesco Castronovo

Giacomo La Russa, avvocato e scrittore, dopo il suo debutto letterario con La storia di Jason, torna in libreria con un romanzo storico-sociale: I sepolti vivi s’inserisce nel solco del precedente libro per l’attenzione alla società – in particolare la società di chi ha bisogno di combattere per veder riconosciuto un pezzo di futuro o uno spazio sullo scenario della legge istituzionale – ma con un aggancio storico più preciso e localizzabile. In questo senso si può parlare di un romanzo storico-sociale.

I sepolti vivi racconta un fatto realmente accaduto nella Favara degli anni ’50: la scelta di un gruppo di minatori di zolfo di serrarsi dentro la Ciavolòtta per protestare contro trattamenti ingiusti da parte della dirigenza. Il fatto, all’epoca, ebbe grande eco. La Russa, basandosi su questa storia, inventa il suo romanzo: inventa, nel senso latino di “invenìre”, cioè “scoprire”, “trovare” e riportare a galla quelle problematiche e quello stato d’animo – del singolo protagonista e corale dell’intero gruppo di minatori – che solo la narrativa può riuscire a ricostruire: una storia inventata, quindi, nel senso più nobile e faticoso del termine: inventare come ricercare, inventare come rinvenire, inventare, infine, come restituzione di un fatto che rischierebbe di perdersi se affidato solo al passaparola degli uomini.

Il romanzo è affidato alla narrazione in prima persona di Michilà, Michele Fanello, il quale racconta ad un anonimo ascoltatore i fatti relativi alla protesta dei minatori: la cosiddetta “sirràta”, da “serrare”, nel senso di chiudere con forza, quasi con volontà ermetica, è il nome che prenderà l’atto dei minatori di restare chiusi al buio nei sotterranei della miniera di zolfo dove lavorano. Uso il termine “ermetico” anche con riferimento allo scopo della protesta: ermetica perché si tratta di un chiudersi (ed è l’atto della protesta), ma ermetica perché è un gesto che reclama il dialogo (ermeneutica): dialogo istituzionale nel quale i minatori gridano il diritto di farsi ascoltare, il riconoscimento di un ruolo in un discorso che li esclude dai diritti e dal confronto, pur includendoli quando si tratta di faticare.

Tutta la storia, in effetti, ha una linearità limpida e consequenziale: i minatori protestano per ragioni salariali, dato che non ricevono da tempo il pagamento dovuto; la protesta, in un primo momento, si svolge secondo modalità tragiche ma ordinarie, con i gruppi di minatori che scendono in piazza, gridano la loro rabbia ai balconi dei politici ma ancora sotto la volta del cielo. In questa prima fase, i minatori condividono la loro protesta con il mondo circostante, rappresentato dalla presenza delle donne al loro fianco:

Ora, per dirla tutta, caro signore, se a lei interes­sa per davvero questa storia, prima ancora dell’avviso, dell’invasione e di tutto quanto, noi stavamo protestan­do perché, a luglio, dovevano ancora pagarci i mesi di aprile, maggio e giugno. Perché è così che ti tenevano all’amo. Ti facevano mancare persino l’essenziale, in modo che tu capissi che anche quello che ti spettava di diritto, quello che t’eri già sudato e guadagnato, non era per niente sicuro che tu lo ricevessi. Certo, a quel punto, eravamo ancora in quattrocento e sembravamo per davvero un’armata, a camminare stretti stretti, da un punto all’altro del paese. Partivamo ogni mattina dalla piazza e cominciavamo a gridare: «Vogliamo la paga! Vogliamo la paga!». E, a volte, andavamo fin sot­to il palazzo dell’onorevole Pantaleo e ci mettevamo a urlare: «Figliu di lavannèra! Figliu di lavannèra!», perché lo sapevamo tutti di chi fosse figlio l’ammini­stratore e in che modo fosse diventato il padrone del­la Ciavolòtta. E le posso assicurare, caro signore, che erano tutti con noi e che pure certi negozianti abbassavano le saracinesche per batterci le mani. Persino le donne si venivano a mettere con noi, alcune nelle pri­me file, e se c’era un pericolo, un problema, una cosa, erano loro che si prendevano i ferri che ci portavamo appresso e se li mettevano sotto i vestiti in modo che gli sbirri niente potessero dire. Poi, quando ci fecero sapere che l’amministratore stava facendo ritirare gli stigli, capimmo che si stava preparando alla serrata e fu per questo che decidemmo di non dargli tempo e d’occupare la pirrèra. (p. 14)

Ma a questa prima fase segue poi la scelta tragica e gravida di conseguenze di serrarsi nella miniera (pirrèra): il fatto comporta la sottrazione della protesta agli occhi della comunità, ma i corpi e gli uomini chiusi nella terra iniziano a occupare una scena sempre più invadente (invadente per le istituzioni e per la politica), tanto da diventare notizia nazionale e da richiedere l’intervento di figure istituzionali.

I minatori, ora diventati sepolti vivi, ricevono visite e aiuti dall’esterno: sono separati dal mondo, ma non isolati; chiusi nella miniera, ma non al dialogo: il paradosso della situazione è ben rappresentata dalla definizione di uomini “sepolti” “vivi”, espressione che si riferisce alla loro protesta, ma che può anche riferirsi a persone che sperimentano la morte alle leggi mentre ancora sono in vita e alle quali non resta che auto-escludersi per mettere in evidenza la forza della propria voce, per un processo di negazione volontaria. Naturalmente, una tale concettualizzazione è estranea al romanzo, che anzi si mantiene rasente ai fatti e, soprattutto, alle parole (dacché di parole è fatto un romanzo anche quando pieno di fatti): lo scrittore è attento alla questione della lingua: anzi ha cercato di tradurre in un italiano semplice e lineare la schiettezza del dialetto, rifiutando di ricorrere al dialetto astratto e folkloristico di certa letteratura che vuole sfruttare il provincialismo per lanciarsi sulla scena nazionale, ma senza dimenticare che una storia – e lo scrittore che la scrive – hanno alle spalle un terra e una lingua alle quali restare fedeli: lo stile del romanzo è frutto di questo faticoso compromesso, la lingua dei minatori che incontra la lingua dello scrittore: il risultato è una storia dove le parole hanno la concretezza dei fatti narrati, un’aderenza terrigena a un mondo antico e ancora legato alla terra.

Questa schietta e ragionata concretezza della parola è ad un tempo restituzione della semplicità di pensiero e parole dei minatori, ma anche superficie ingannevole: ingannevole nel senso che la semplicità raggiunta dallo scrittore cela una serie di cause e di rapporti da interrogare: voglio dire che la vicenda, pur parlandoci anche di povertà e di poveri e di ricchi, non è organizzata su opposizioni banali: così, ad esempio, se la protesta nasce per questioni salariali e di licenziamenti, scopriamo anche che lo zolfo americano, estratto con mezzi innovativi che ne aumentano produzione e immissione nel mercato, con conseguente abbassamento del prezzo, è la causa dei problemi di questi minatori che vivono in fondo alla storia, nella Sicilia lontana e atavica di quegli anni. Quindi, quello che sembra un problema locale (e certamente lo è) viene inquadrato in un contesto globale, a dimostrazione che neanche umili operai che lavorano nel profondo della terra, lontani dalla storia mondiale, sotto raggiunti dai meccanismi della grande storia.

Inoltre, sul finire del romanzo, si svolge la parte giudiziaria, la quale apre le porte ad altre riflessioni: nel gioco del tribunale emerge la frizione fra leggi e umanità e la delicata relazione fra le due sfere: in particolare, l’anziano avvocato che decide di aiutare i minatori rappresenta quella parte della legge che vuole farsi espressione e difesa degli ultimi, di contro ad un sistema che non contempla tutti gli uomini, ma solo i potenti. Anche in questo caso, quindi, non ci sono opposizioni assolute, ma dualità all’interno dello stesso ambito, qui quello del diritto. Altra complessità da cogliere sotto la scorza di una scrittura lineare, viva, umana e semplice come quegli uomini avvezzi al lavoro e al duro pane guadagnato onestamente.

In conclusione, I sepolti vivi è un romanzo storico-sociale che sfrutta appieno la forza della narrativa, che è quella di rappresentare ciò che la storiografia lascia in ombra, i moti dell’animo dietro e davanti ai fatti, pur narrando anche di fatti. La lingua è semplice, con pochi termini in dialetto, utili a cogliere quella concretezza e aderenza a un mondo che, sebbene sia temporalmente vicino, sempre più velocemente scivola verso un’epoca lontana e antica.

(Giacomo La Russa, I sepolti vivi, VGS libri, Agrigento, 2022, pp. 123, ISBN: 9788894715002)

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