“Tenebrezza”: i demoni di Davide Cortese fra Calvino e Laforgue

di Giorgio Galli

“Ora veglio il sonno degli amori mai vissuti / vestiti da Arlecchino dai rombi bianchi e neri / labbra tristi disegnate da divinità antiche.” Dopo la stralunata ironia, la flânerie tristeallegra di Zebù bambino, Davide Cortese torna, con Tenebrezza (L’erudita, 2023), a esplorare i registri dello straniamento, di un timor panico tradotto in stravaganza, di una riscrittura sempre fantasiosa ma nel cui brio si annida un sentimento del mondo crepuscolare. E se, nella Prefazione, Anna Maria Curci evidenzia i nomi dei padri della scrittura di Cortese -fra cui spicca, in mezzo ai nomi dei poeti, quello di un maestro della prosa ironica e fantastica come Italo Calvino- non è difficile cogliere alle spalle dell’estrosa malinconia del nostro autore la presenza di Jules Laforgue, il misterioso e sfortunato iniziatore del vers libre, l’autore di parole al limite della morte e dell’assurdo, artefice di un mondo fatto di fantasmagorie lunari e di sconsolati Pierrot. Anche il verso di Cortese oscilla fra sentimento della morte e riso del nonsenso, anche l’io poetico di Tenebrezza pare abbandonarsi a una desolazione che ammette tutte le evasioni e nessuna resistenza.

“Nella notte potrai trovare / un mio cuore tra gli artigli del sole. / Al bancone del demone bere bui. / Bere buio: / per pisciare luce.” Elementi e parole primordiali: il cuore, il sole, la notte. Al di là del gioco di contrasti che questo brevissimo componimento suscita (buio/luce, bere/pisciare, notte/sole), salta agli occhi l’immagine finale: la luce la si può pisciare, dunque sprecare, come fa il giovane Rimbaud di Orazione della sera, quando, deluso dagli ideali della Comune e pieno di malumori in corpo, “piscia, con l’acconsentimento dei grandi eliotropi”. È dunque, quella di Tenebrezza, una poesia che arriva al termine di tutte le disillusioni, dove anche il demone appare ammaccato e un po’ ridicolo, e dove il compito supremo che abbiamo come scrittori e come esseri umani, trasformare il buio ricevuto in offerta di luce, si risolve in una cosa senza importanza, una pisciata.

Da Tenebrezza (L’erudita, 2023)

È in tutto somigliante al mio

il viso della tua marionetta.

Ha negli occhi una triste tenebra

a cui il sole ha confidato un segreto.

Gli trema nell’iride un’attesa

che soffia sull’ombra del fuoco.

In tutto somiglianti alle mie

le labbra della tua marionetta:

vi è sopra adagiato un canto

che riposa nel profumo della notte.

Nulla io so del mio spettacolo

come questa tua antica marionetta.

*

Sulle foglie verdi, il sole

scrive lettere d’amore per la terra.

Quando sull’ultima delle foglie,

ormai scura,

il sole si è firmato

col suo nome di fuoco,

solo allora il vento

consegna le lettere alla terra.

E lei le legge, le legge ancora

e le fa sue,

lei le fa terra.

*

In un remoto paese sfila in processione

il simulacro in gesso e smalto di un mio cuore

portato a spalla da bambini seri in volto

che tacciono in dialetto uno scandalo sacro.

Eccolo, l’arcano cuore di fico d’India

nel trionfo di luminarie, barocco e fanfare.

Lo additano mani sdrucite di vecchi

e belle vedove vestite a lutto.

Giovani madri gli lanciano baci

e volte ai figli in braccio sorridono

“mànnacci na vasàta puru tu”.

Ed io sono verde di spine

spogliato di tutte le mie ombre

da una spietata luce sicilia.

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