Indianagions, ti voglio bene

di Caterina Ferro

Caro Indi, da archeologa ad archeologo possiamo dircelo: tutti i pasticci che ti fanno fare e ti fanno dire sono gli abracadabra e i magicabula di una favola bellissima, senza senso storico né geografico, dove Cefalù è Segesta che è Siracusa e il miglior sommozzatore dell’Egeo è l’iberico Banderas ma lo sappiamo che con mia faza mia raza si aggiusta sempre tutto. D’altra parte mostrare una cartina del Mediterraneo con un aereo che sorvola la Sardegna e la Sicilia per arrivare in Grecia è un colpo da maestro, nel vero senso della parola.

È una favola e tu sei l’incantato incantatore, è un fumetto e tu sei il supereroe che lotta contro il male.

E il viaggio nel tempo è il sogno proibito di qualunque archeologo che si rispetti, confessato a bassa voce sotto le stelle alla fine di una giornata di polvere, raccontatoci l’un l’altro ogni volta che abbiamo trovato un pavimento pulito come con la cera liù, nemmeno un coccio caduto per sbaglio, o che non lo abbiamo proprio trovato il pavimento,  o le porte murate in una casa senza soffitto e senza cucina degna di viadeimattinumerozero, o abbiamo scoperto una tomba dove non “doveva” essere, o abbiamo raccolto una punta di freccia piegata dall’impatto con un bersaglio sbagliato.

Ogni volta che ci siamo detti: “ma che c**** hanno fatto qui?” e abbiamo faticato a trovare una risposta.

Le suggestioni sono tante e mi servirà rivederlo questo film, qui solo un paio di chicche.

La scena più bella è per me una delle prime: la corsa a cavallo sui binari della metropolitana e in mezzo alla parata celebrativa dell’Apollo 11 in contemporanea con la manifestazione pacifista che segnò l’inizio della fine per la tragica impresa americana in Vietnam. Dalla Terra alla Luna e ritorno. L’anno è il 1969, quando la Guerra Fredda prova a mis-celare col candore abbagliante del satellite nel blu profondo del cielo il rosso sangue che tinge il pianeta, senza soluzione di continuità nonostante le belle speranze di nemmeno un quarto di secolo prima. La modernità, che avanza a suon di razzi verso il futuro e con la grancassa delle guerre – le stesse di sempre –  che ammazzano i figli e quel futuro in carne e ossa lo negano, produce un effetto straniante sullo studioso del passato. Ma è lui che lotta contro il male, perché lo riconosce, mentre quegli altri, che provano a mettergli i bastoni tra le ruote, il male lo hanno assimilato e addomesticato o almeno così credono. Perché mentre il male travestito da scienziato (ex)nazista, dopo aver agevolato la conquista della Luna da parte dei buoni, fa strage di professori, bibliotecarie, passanti, agenti della CIA, il nostro Indianagiòns cavalca, scavalca, sferra calci e pugni, salta e corre a dispetto del suo corpo vecchio, mostrato con disinvoltura nella sua nudità dalla cintola in su, memore della sua forza antica, spalle larghe che ancora non mollano, e portano un peso grande quanto il mondo.  Atlante.  Custode di un segreto che può dare all’uomo la scintilla della divinità, ma lui sa che stavolta deve tenerla ben nascosta. Prometeo. Corpo che il cervello non abbandona, tra uno slalom e una capriola Indi è capace di inventare e regalare ai manifestanti un nuovo slogan antimilitarista. Così si salva, ci salva. Titano del nostro tempo. E nei sogni di bambino la chitarra era una frusta e un cappello che ci portava ovunque. In un Giro del Mondo che non sappiamo quanto dura, perché Indi, in questo film, non dorme un minuto e il suo Sole non tramonta mai: archeologo batte astronauta venti a zero.

Il mondo è quello antico che galleggia sul Mediterraneo, in un tempo in cui la potenza di un impero si dispiegava per la conquista della Sicilia, l’isola più grande, il cuore pulsante di quel mare il cui possesso, per i Romani, era un’ossessione già nel nome. Il volo d’uccello sulla flotta di Marcello nelle acque di Siracusa ricorda quasi parodisticamente lo sbarco alleato del ‘43. E mentre il giovane neonazista dal grilletto facile ride come un pazzo della sua anacronistica rivincita a suon di mitraglia sulle “triremi”  della res publica, portando insperato rinforzo alle catapulte siceliote, il proconsole romano non sa che pesci pigliare e nello sguardo imbambolato disvela la fine dell’illusione di una imbattibilità pretesa e presunta dalla superiorità della propria forza militare. Tutto è relativo e la partita tra imperialismi, alla lente della Storia, non ha vincitori, solo vinti.

E poi c’è Archimede, più Pitagorico di sempre, controcanto perfetto del nazista: parla poco ma capisce tutto, riconosce e viene riconosciuto dal simile, mette la sua sapienza al servizio della collettività omettendo il proprio interesse. Scienziato dal volto umano. In una parola, un umanista.

P.S. Un soffio di sano realismo, come in tutte le favole che vogliono farsi ascoltare, ce lo regala l’impalcatura che puntella la parete dell’Orecchio di Dionisio: la Sicilia cantiere perenne, come metafora ma anche fuor di. Il mito di Eracle eroe culturale, sterminatore di mostri e bonificatore di territori, si disperde nell’attualità guasta di strade eterne incompiute, ponti spezzati e binari nati morti.

P.P.S. Magari il film me lo sono fatto io, ma questa inaspettata quinta puntata della saga finisce per dire molte più cose di quelle che forse vorrebbe. Come tutte le favole.

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