Elisa Ruotolo, “Luce”

di Giorgio Galli

“Conobbi Micòl, che studiava violoncello, aveva l’esame di pianoforte complementare a breve e per tutta la sera mi parlò di musicisti morti e sepolti come fossero suoi dirimpettai. Viviana, che era figlia di un giudice della Corte di Cassazione e a sedici anni sapeva già dirti cos’era una compravendita, un usufrutto, una fideiussione, ma non aveva ancora imparato a trattare i baffetti neri che le incorniciavano il labbro. Gaia, che studiava allo scientifico ma voleva fare la parrucchiera e cambiava un colore di capelli a settimana. Iolanda, che non disse una parola per tutta la sera e aveva l’aria di stare lì per farla finita con le insistenze di mia madre o della sua.”

Elisa Ruotolo annette grande importanza ai dettagli, ma li usa in un modo speciale: più da poeta che da narratrice. I suoi funzionano come altrettante apposizioni, epiteti formulari che identificano un personaggio e il suo stare nell’intelaiatura della pagina. Attraverso particolari significativi, ciascuno di essi assume la consistenza di un simbolo: non appartiene al relativo come i personaggi dei romanzi, ma all’assoluto come quelli del teatro o dei poemi. Un allucinato iperrealismo che rimanda all’esempio di Anna Maria Ortese, autrice che Ruotolo ama e a cui è vicina per sensibilità e stile. Il protagonista, Michele il Greco, deve quel nome favoloso a un caso fortuito -è nato durante un viaggio di lavoro a Salonicco- e però quel nome gli rimane appiccicato dandogli un’aura favolosa.

È, quello della scrittrice, uno sguardo che traduce il quotidiano in mito attraverso la sacralizzazione dei dettagli, che diventano assi cartesiani di un universo narrativo perfettamente chiuso in se stesso. Si può mirarlo, non raggiungerlo; può far male, non essere toccato.

Sembra che la scrittura si faccia largo in un mondo d’ombre. Uno dei personaggi dice: “Se pensi che la persona con cui ti metti a ragionare storto un giorno morirà. Se pensi che potresti morire tu prima di farci pace e rimanere col rimorso in fondo all’anima, allora le discussioni andrebbero a zero”. E lo sguardo dell’autrice osserva le sue figure proprio come se fossero già morte, come se del loro agitarsi nel mondo rimanessero solo le tracce. Ogni figura diventa così un segno, e raccontare significa dipanare questi segni, leggerli per poi restituirli -di modo che l’atto della narrazione coincida con la lettura primordiale, la lettura archetipa.

Tutto ciò non deve farci dimenticare che, com’è tipico dell’autrice campana, la trama sia fatta di cose e casi concretissimi -al limite di un nuovo neorealismo- che però si accumulano e s’intrecciano con una densità tale che, se da un lato somigliano alla vita, dall’altro ne sembrano la proliferazione in sogno, quasi in incubo. Ancora una volta come nella narrativa della Ortese, e forse -azzardo- come nel teatro di Viviani.

Lo stile è quello petroso, incandescente e ironico, scevro da sentimentalismi, delle primissime novelle della Ruotolo, quelle di Ho rubato la pioggia (nottetempo, 2010). E in effetti, in un’intervista, l’autrice ha rivelato che Luce era in origine la quarta novella della raccolta, lasciata da parte e ripresa a distanza di anni. Così che l’identificazione dell’atto di narrare con quello del leggere e dipanare segni viene confermata biograficamente dall’essere questo un racconto “riletto” a distanza di anni dalla prima stesura e lavorato con occhi e mani diversi: vale a dire che l’autrice stessa vi è entrata come in un sistema di significati da riscoprire e decodificare di nuovo.

Il rammemorare, l’andare e venire nel tempo, la desolazione dello scavo interiore rimandano a Pavese -anch’egli amato dalla Ruotolo- e al tempo stesso appartengono intimamente allo stile e alla visione dell’autrice.

Non sappiamo perché, al tempo di Ho rubato la pioggia, questa novella fu esclusa. Nella forma in cui la leggiamo oggi, ha un che di sacro, una trasformazione di ogni gesto in rituale che nelle altre novelle non c’era. Ma, soprattutto, il finale presenta un’apertura, un ritorno della luce, un improvviso moto di fiducia e reciprocità, che rompe la solitudine inscalfibile, la desolazione tetragona degli altri testi. Non è molto, è solo una crepa da cui filtra la luce: però intanto filtra.

No Comments

Post A Comment