“Il sol dell’avvenire”

di Giorgio Galli

Negli ultimi vent’anni i film di Moretti hanno perso quell’aura di cinema amatoriale che li aveva caratterizzati ancora fino a Caro diario (1993) e in parte ad Aprile (1998). Con La stanza del figlio (2001) il nuovo corso è iniziato sciorinando tematiche meno legate all’autobiografia e con una maggiore ampiezza di respiro formale, fino alla solennità finanche eccessiva di Tre piani (2021).

Con Il sol dell’avvenire, Moretti torna a “fare Moretti”: il Moretti che avevamo conosciuto e amato negli ultimi vent’anni del Novecento. Il film guarda al Novecento non solo perché parte della vicenda è legata alla rivolta di Budapest del ‘56 e al tramonto del grande sogno comunista, ma soprattutto perché novecenteschi sono i suoi riferimenti linguistici. Fellini innanzitutto: la prima scena mostra degli operai intenti a tracciare una scritta su una parete come in Intervista (1987), l’ultima è una grande parata chiaramente ispirata al finale di Otto e mezzo (1963), in cui rivediamo anche attori storici del cinema morettiano, come Lina Sastri, Elio De Capitani e Renato Carpentieri. Felliniano è il circo, felliniano è l’uso dei nomi veri degli attori che crea un cortocircuito tra immaginazione e realtà, felliniano è il film nel film, felliniana è anche la musica, composta da Franco Piersanti che è stato allievo di Nino Rota.

Dopo il rigore drammatico di Tre piani, Moretti torna ai toni della commedia, e lo fa con leggerezza e disinvoltura nuove, permettendosi il lusso di molte autocitazioni -la coperta bizzarra di Sogni d’oro, le canzoni italiane, i palleggi solitari, la piscina- e molta autoironia. Il suo personaggio, Giovanni -che poi è il vero nome di Nanni- è un regista settantenne famoso e insoddisfatto, in guerra con lo show business. La scena di Netflix e quella dell’irruzione sul set di un film spara-e-ammazza sono esilaranti, ma segnano anche la sconfitta di un uomo che -pur tra manie, tic e ossessioni- ha cercato di conservare una sua integrità, e che viene messo a lato -anche dell’inquadratura- da un mondo in cui non si riconosce più. Moretti interpreta il suo personaggio con tanta dolorosa levità. Il sol dell’avvenire ha la sorridente trasparenza dei suoi “diari” degli anni Novanta, ma con una malinconia nuova: la malinconia del ricordo e delle cose che potevano andare diversamente da come sono andate. Il finale è travolgente ma anche triste: nella grande parata dei personaggi si annida la consapevolezza che in realtà non è andata così, che quella manifestazione non c’è stata, il PCI non s’è ribellato all’invasione di Budapest, e il comunismo non ha reso il mondo un posto migliore. Eppure la gioia di vivere che Moretti trasmette è sincera, perché quello che resta e che conta è il cinema, è fare e vivere il cinema, e il cinema si identifica anche con la speranza, con la possibilità di riscrivere la storia, di dare una riparazione postuma ai suoi torti e ai suoi drammi. Nel cinema è possibile abbandonarsi all’emozione di una musica e interrompere quello che si sta facendo per mettersi tutti a danzare. Nel cinema tutto questo è possibile. E allora, dice Moretti, viva il cinema, che non è vita ma fa parte della vita, e la rende un posto migliore. E forse, attraverso il cinema, il regista ci rivolge anche un piccolo appello per la vita: l’appello a una maggiore armonia, a superare le divergenze come fanno i personaggi del film, che sfilano insieme, sorridono e si guardano a dispetto delle divisioni che li hanno attraversati fino a un momento prima. Forse, suggerisce Moretti, nel mondo postideologico è possibile.

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