Adelio Fusé, “Mosaico del viandante”

di Maria Grazia Galatà

 

Sappiamo che Thomas Mann è il grande “cercatore” dell’umano in un mondo ormai disumanizzato, il viandante costretto a percorrere le strade aspre e difficili del paesaggio spirituale novecentesco.

Siamo di fronte a viaggi paralleli, nel libro di Adelio Fusé Mosaico del viandante di nietzschiana memoria: “il tempo che granello in eco dilaga” scrive Fusé, il mondo si ferma e noi piegati “al sorriso largo dei suoi cieli” continua il poeta – fra dilemmi cadute , risalite viandanti nel tempo e nello spazio. D’altronde sappiamo che il viandante ha una lunga tradizione della metafora di viaggio di “conoscenza” e formazione.

Uscire dall’abitudine, dal prevedibile . Viaggiare anche all’interno di se stessi nella esplorazione spirituale.

L’essenza del viandante è trovare se stesso con “l’altro”:

“avviene in questo grigio

di nuvole scorrevoli

diluite eppure grevi

in questa obliqua griglia

di pioggia filiforme

convulsa e silenziosa”

Troviamo allitterazioni in grigio- grevi- griglia che ben si attestano con ...sfrecciare un volteggiare. Ci si incontra, in Fusé, con la necessità di porsi domande ma anche “ due orizzonti laterali”:

“nell’ora più infuocata ripensi

al maestro antico e futuro

occhio fermo a reggere

il Sole zenithale

l’orecchio un’antenna tesa

riascolti la voce

che s’imprime scolpendo l’aria

eppure da un brivido graffiata:

‘il suono del Sole è la sua luce’”

Chi è Adelio Fusé?

Sono uno a cui piace la scrittura come cantiere aperto. Nel cantiere c’è il senso di un progetto che via via si realizza, che prende corpo cambiando più volte, si rimodula ecc. Nel cantiere, soprattutto, si sperimentano soluzioni differenti e non tutte, naturalmente, vanno a buon fine. Può essere un processo faticoso, certo, ma allora scatta l’allarme. La fatica è un sintomo da non sottovalutare: avverte che qualcosa non sta girando come dovrebbe. Quando il cantiere invece chiude e compare lui, il libro, il Grande immodificabile, a quel punto si hanno due storie: quella racchiusa nel libro e quella che verrà dopo, con i dovuti tempi e ben meditata. Al libro che ho scritto chiedo così di portarmi altrove, schiudendo, quando sarà il momento, un nuovo progetto.

La scrittura intesa come cantiere aperto ha un significato ulteriore – per quanto mi riguarda benefico –, che rimanda a esperienze condivise. Penso, qui, alle collaborazioni con amici artisti, fotografi e musicisti (iconotesti, installazioni, performance, video). Rinserrata nel proprio guscio, del resto, la parola perde vitalità e rischia l’asfissia.

Come nasce la tua scrittura?

Alle elementari una maestra molto brava ci assegnava compiti come: “Racconta il tuo tragitto da casa a scuola”. Considero questi temi come le mie prime prove di scrittura, nelle quali inserivo cose e persone assenti nella realtà. Inventavo, insomma. Poi nell’adolescenza ho iniziato a fare esprimenti assortiti (dalla scrittura al buio, al collage, al “pensiero-parola”, come lo chiamavo – una specie di monologo interiore). Scrivevo anche poesie ma erano i testi che buttavo più volentieri (i miei idoli erano Rimbaud, Ungaretti e Sanguineti). I primi testi compiuti sono stati però, poco dopo i vent’anni, dei testi teatrali che abolivano i dialoghi e si fondavano invece su monologhetti a incastro. Un testo ha avuto un riconoscimento al Premio Riccione ma non è mai stato rappresentato. I primi racconti e il primo romanzo sono venuti più tardi, dopo alcuni saggi brevi nel segno dell’esistenzialismo francese (Sartre, Merleau-Ponty, Camus, più autori come Bataille e Blanchot). Alla poesia sono tornato più tardi ancora.

Come passa la tua poesia nella tua narrativa e viceversa?

Anzitutto l’una e l’altra condividono, inevitabilmente, alcuni temi, a cominciare dal macrotema del viaggio. Più che un tema – peraltro insidioso tanto se n’è fatto uso – considero il viaggio una struttura che ha il vantaggio di essere flessibile e insieme rigorosa. Non conta il semplice accumulo di episodi; conta, piuttosto, non superare mai del tutto quello che è già avvenuto, non dimenticarlo per strada e recuperarlo. Inoltre un viaggio non ha – o non dovrebbe avere – un corso unico ma diverse ramificazioni (può valere l’immagine del bacino di un fiume con i suoi affluenti). Una consonanza fra le due scritture è sicuramente data dal visivo. Anche nella scrittura in versi parto perlopiù da una situazione (una scena) poi descritta con una articolazione per sequenze (certo la differenza fra i due linguaggi rimane: semplificando, la scrittura poetica è più obliqua, quella in prosa – prosa non poetica – e più frontale e diretta). Si verificano inoltre degli interscambi fra le due scritture: scene tolte da un romanzo, per esempio, rielaborate, diventano materia per una poesia; e può succedere il contrario. Infine, ma non ultima, la questione suono-ritmo. Normalmente si tende a circoscrivere il suono-ritmo alla sola poesia e mi domando perché. Per quale ragione, dunque, il suono-ritmo non dovrebbe avere il giusto rilievo nella narrativa? Quando leggo un racconto o un romanzo mi aspetto sempre di ‘sentirlo’. Mi aspetto di trovarlo anche in un saggio, a meno che non si voglia ridurre la scrittura a mera cinghia di trasmissione di un contenuto.

Adelio Fusé (1958) vive a Milano, dove ha lavorato nell’editoria. Ha pubblicato saggi su Sade, Kafka, Sartre, Handke, Eno (Materiali Sonori-Auditorium, 1999), i romanzi North Rocks (Campanotto, 2001), Lastrazione non è la mia passione principale e Le direzioni dell’attesa (Manni, 2018 e 2020). Per Book Editore, dal 2003 al 2019, sono usciti i libri di poesia Il boomerang non tornaOrizzonti della clessidra distesaCanti dello specchio bifronteLobliqua scacchiera, La veglia del sonnambulo (candidato al Premio “Camaiore” e finalista al Premio “Lorenzo Montano”, 2016), Tempo ventriloquo. Collabora con artisti, fotografi e musicisti. Cura una rubrica di musica e poesia sul sito altremusiche.it e scrive per varie riviste. Ha ottenuto un riconoscimento al Premio “Riccione per il teatro” (1981).

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