Il malinteso della bellezza. In dialogo con Sara Patrone

 

di Ivana Margarese

Immagini fotografiche di Martine Gutierrez

 

Il malinteso della bellezza Per un’antropologia del corpo è un titolo interessante. Lega infatti bellezza e malinteso mettendo in scena uno spazio di problematicità. Come è nato questo titolo?

In effetti, la parola “bellezza” sembra evocare un immaginario terso, sereno e privo di problematicità. Ho amiche con le quali scambiarsi un “Buongiorno, bellezza!” è quasi la regola e, in generale, sembriamo intenderci abbastanza quando parliamo di “una bella ragazza”: con ogni probabilità, se siamo occidentali nel 2023, ci riferiamo a una giovane donna snella, tonica e dai lineamenti facciali simmetrici. Mi rendo conto di come possa suonare curioso, quindi, parlare di bellezza come di un malinteso. Che malinteso dovrebbe mai esserci in una simile evidenza?
Ed è qui che entra in gioco l’antropologia che insegna a diffidare delle evidenze, ad assumere una postura critica nei confronti di ciò che chiamiamo “naturale”, a problematizzare l’ovvio, a trovare lo spazio della domanda dove siamo soliti vedere risposte convincenti. E in questo senso la bellezza non fa eccezione.
La bellezza, come ogni altra costruzione storico-culturale, è una domanda che dobbiamo porci, pena il malinteso. In questo saggio, che inizialmente avevo pensato di chiamare “Ma per piacere!” giocando sull’ambiguità dell’espressione, ho provato a scomporre tale domanda in altre, più piccole, sulle quali rifletto insieme alle persone intervistate: cosa significa essere belli e belle? Come mai la bellezza esteriore è considerata “roba da donne”? Perché i peli sarebbero “oggettivamente sporchi e immondi” anche dopo una doccia mentre una chioma folta e fluente e lunghe ciglia nere sono la quintessenza della seduzione? E perché le clienti che ero solita trattare nei beauty center spiegano la loro ricerca di bellezza come un esercizio individuale della propria libertà “di piacersi” trascurando, a parole, gli effetti assolutamente sociali della loro corporeità?

La kalokagathìa dei dialoghi platonici fonde in un’unica espressione il bello e il buono considerandoli ragioni necessarie e sufficienti l’una per l’altra e attribuisce al bello virtù. Questa credenza è, a tuo parere, valida ancora oggi?

Ricordo una pubblicità di qualche anno fa: si trattava di una campagna contro l’evasione fiscale trasmessa dalla tv generalista e voluta dal Ministero dell’Economia e dall’Agenzia delle Entrate in cui, dopo un carosello con le foto al microscopio di vari tipi di parassiti (del legno, dell’intestino, della carne, ecc.) appariva lui, il “parassita della società”, un uomo che Cesare Lombroso non avrebbe faticato a definire “l’evasore atavico”. Torvo in viso, lo sguardo minaccioso, la barba incolta e di colore scuro: un signore dall’aspetto volutamente brutto che nessuno vorrebbe incontrare per strada. Né bello, né buono, insomma. Mi piace pensare che chi ideò questo spot pubblicitario avesse in testa piuttosto chiaramente le categorie di kalòs (bello) e agathòs (buono) e, parallelamente, dei loro contrari: il brutto e il cattivo. E così, proprio come Platone quando accennando alla bellezza dei corpi si riferisce anche a un’ampia gamma di valori civili e morali inerenti giustizia, prudenza, rettitudine, allo stesso modo la campagna apparsa in tv associava un brutto aspetto alla totale assenza di qualità morali.
La kalokagathìa, questo termine greco che pare nato ad Atene attorno al V secolo a.C. è una crasi: bene e bello sono talmente intercambiabili da poter essere perfino fusi in un solo vocabolo perché ciò che è bello, attraendo, eleva spiritualmente e non può non essere buono. E ciò che è buono, neanche a dirlo, porta con sé la sua inestirpabile dose di bellezza.
Oggi penso che ad un qualche livello questa correlazione agisca ancora, sebbene non sia più la sola. “Brutto, ma buono” (è anche un biscotto), “bella stronza”, “bello e dannato”, “bella ma stupida” sono coppie di attribuzioni che non si fatica a concepire come possibili. In ogni caso, credo sia interessante notare che l’aspetto si conferma sempre come un trampolino di lancio verso attribuzioni circa l’interiorità. Perché, che l’abito (il volto, il corpo) faccia o non faccia il monaco, esso resta per noi un importante indicatore della persona.

Scrivi: “Meritocrazia”, “volontarismo”, “democrazia della bellezza” sono le parole che raccontano di un corpo che, potenzialmente, può essere scolpito dal solo esercizio di volontà e dalla convinzione, resa più facile da una letteratura psicologica ad hoc, che “volere è potere”, che la piena sovranità su di sé è possibile, che il successo (anche lavorativo) ha a che fare con l’abbellimento”. E ancora: “La democrazia della bellezza introduce una polarità, quella fra chi vuole essere bella e chi no, chi ce la mette tutta e chi no e, se la perseveranza è un merito, la pigrizia, di sicuro, è sconfitta, debolezza, colpa. Essere belle implica essere laboriose scultrici di sé”. La bellezza, dal momento che volere è potere, sembra imporsi come una dittatura suscitando sentimenti di vergogna o inadeguatezza in chi non si sente di rispondere agli standard previsti. Mi chiedo se questo attualmente sia un fenomeno in crescita oppure si cominci a dare valore alle differenze, agli aspetti peculiari di ciascuno, tendendo a riconoscere una pluralità anche nella bellezza, che peraltro come sottolinei più volte tu nel testo ha subito svariati mutamenti nel corso del tempo riguardo ai suoi canoni.

Provo una certa antipatia per l’espressione “volere è potere”. Non possiamo tutto ciò che vogliamo, né volere è condizione sufficiente all’ottenimento delle cose, siano esse una vincita alla lotteria, un’assunzione, il ritorno alla giovinezza. Secondo la mia esperienza professionale, però, questo tipo di retorica – quella secondo cui basti volere per ottenere – è ancora in azione nel campo beauty quando si tratta di desiderare che il proprio corpo rispetti la triade bellezza-magrezza-giovinezza. Faccio un esempio con cui ho dimestichezza: nella narrazione comune all’interno dei saloni in cui ho lavorato, se hai rughe che non desideri, puoi “volere abbastanza” da cancellarle, diventando, con i giusti prodotti e trattamenti, abile scultrice di te stessa; se hai chili di cui vuoi sbarazzarti è solo volendo abbastanza che raggiungerai il peso desiderato. Basta autodisciplinarsi e il gioco è fatto.
Credo che questo genere di episodi, frequente nei centri estetici in cui ho prestato servizio, rappresenti in fondo solo un tassello di un fenomeno più ampio: quello di un corpo naturale, istintuale, rozzo, divoratore da sconfiggere sotto i colpi di una cultura dimagrante, tonificante, ringiovanente, idratante. E lo strumento con cui vincere questa guerra è, ovviamente, la volontà di aderire alle soluzioni estetiche che sono, per altro, numerose, più o meno invasive e per tutte le tasche.
Trovo ancora parecchio comune la concezione di un corpo plastico, mero “accessorio della presenza”, instancabilmente modificabile. Agire sulle caratteristiche naturali (e indesiderabili) del corpo con spirito agguerrito è stato il mantra dei miei anni da estetista. “Scolpisci la tua vita”, recitava un cartellone pubblicitario bene in mostra sulla parete di una sala d’attesa. Dubito intendesse solo il “punto vita”.
Un discorso un po’ diverso, a mio parere, può trovare posto ogni volta che osiamo concepire il corpo non come un oggetto della nostra proprietà ma come un io-corpo, come un corpo soggetto, come noi stessi e noi stesse. Più come qualcuno che come qualcosa. L’idea di muovere guerra contro di noi, allora, potrebbe trovarci meno a nostro agio ed allora sì, in questo senso il termine “bellezza” potrebbe (e può) riappropriarsi della polisemia di cui, come vocabolo, la considero dotata.

Bellezza e vulnerabilità si intrecciano tra di loro per più ragioni. Oltre al fatto che la bellezza come la giovinezza siano fuggevoli bisogna prendere in considerazione come spesso il ricorso alle cure estetiche sia una forma di difesa, un voler essere inattaccabile nella forma e nell’aspetto esteriore così da non dare appiglio a critiche. Vorrei un tuo parere su questo.

Molte delle donne che ho intervistato concepiscono il proprio corpo come l’elemento nonostante il quale sono al mondo, più che quello grazie al qualeesserci. La colpa, in molti casi, è di esperienza terrificanti che le hanno segnate da bambine: le prese in giro di chi si “attaccava” ai peli del loro volto per farle sentire inadeguate, gli sfottò destinati al rotolino di grasso che faceva capolino dai loro jeans, uccidendo ogni possibile autostima. La mia quota di corpo schernita – lo ricordo bene – è sempre stata il naso gibboso e capisco a quale livello di frustrazione certe prese in giro possano indurre.
Il problema, si fa per dire, è che incontriamo le altre persone anzitutto nella dimensione incarnata. Siamo situati in una carne, in un tempo e in un luogo e mi ha rattristato venire a sapere che molte persone concepiscono questo aspetto costitutivo della nostra umanità come un limite dal quale auspicano di trascendere. Il sogno irrealizzabile di sbarazzarsi del “peso del corpo”, per citare un interessantissimo testo della filosofa Susan Bordo, muta allora, per molte delle donne che ho intervistato, nella scelta di rivolgersi ai necessari trattamenti  di bellezza come “fuga minima” da quel corpo ingrato che già è faticosissimo arredare secondo il modo in cui ci si immagina di essere fatti e fatte dentro. Che almeno non ci dia addosso. Personalmente, preferirei consigliare alla me frustrata per il proprio naso e a molte delle donne che ho incontrato negli anni, in lotta con parti di sé, di darci la chance di ridurre la quota di vulnerabilità che il corpo immerso nella società ci procura. Magari cominciando col soffermandoci sulle esperienze che esso rende possibili.

In molti paesi dell’Africa, dell’Asia e del Sudamerica intere tradizioni riposano sulla centralità e la saggezza degli anziani attorno ai quali si è organizzata la stessa collettività, non può dirsi lo stesso di noi, ossessionati dal ricorso all’antiage come promessa di felicità. Qual è la tua esperienza in proposito?

In quanto ex estetista professionista, mi sono occupata parecchio di ageing, invecchiamento cutaneo. Una delle lezioni che ricordo più vividamente riguardò lo scoprire che, secondo la dermatologia contemporanea, la nostra pelle inizia ad invecchiare a partire dal venticinquesimo compleanno e che le rughe, i cedimenti, le atonie, quando arrivano lo fanno per restare. La conflittualità fra corpo e tempo che passa è infarcita di metafore belliche e trova nei templi della bellezza in cui ho lavorato dei moderni giudici di pace: creme “botox like” permettono a volti “troppo rugosi per uscire di casa” di essere riammessi nella scena pubblica. “Vengo a fare trattamenti al viso per non mancare di rispetto a chi mi guarda”, mi disse una volta una cliente sulla settantina, come a dirmi che l’età che avanza rende troppo brutte per poter essere ancora degne della comunità. Togliere i segni del tempo (o “mandare indietro le lancette dell’orologio” come talvolta mi veniva chiesto prima di un trattamento antiage) corrisponde a mio avviso al rifiuto di inquadrarsi nella schiera degli “anziani”, una categoria che la nostra società, come scrive Marco Aime in “Invecchiano solo gli altri”, marginalizza ed esclude in nome di una supposta inservibilità.


Nel libro parli di obesofobia contemporanea. Potresti spiegarmi meglio?

La prima volta che ho sentito parlare di obesofobia credo di essermi chiesta: “davvero siamo riusciti a discriminare le persone in base alla loro taglia?”
Col tempo, facendo qualche ricerca sull’argomento, ho avuto la fortuna di imbattermi in Fat shame. Lo stigma del corpo grasso di Amy Erdman Farrell, un saggio che parla del modo in cui la nostra società denigra i corpi non conformi ai canoni della religione del fitness ghettizzandoli in nome dello stereotipo secondo cui il grasso – lungi dall’essere bello – ha a che fare con la pigrizia, la malattia, l’ingordigia, la scarsa intelligenza e la più bieca istintività. Un contrassegno morale, ancor più che fisico, che fa della persona grassa un’incivile dall’identità degradata, un accumulo eticamente indecente.
Le discriminazioni rivolte alle persone che la nostra società considera oversize, trovando una robusta giustificazione nella salute, comportano che la vita di una persona grassa sia significativamente diversa da quella di una persona magra: la prima, a differenza della seconda, sarà adottata meno, assunta meno, pagata di meno. Un razzismo 2.0.
Nel mio libro do spazio alle cure di bellezza che stanno più a cuore alla nostra società e quelle rivolte a snellimento, perdita di centimetri e peso non potevano non essere menzionate. Lo faccio avvalendomi anche dalle parole dell’antropologo Marino Niola che, analizzando la percezione sociale delle dismisure corporee, la descrive come la paura di “un’apocalisse lipidica prossima ventura”.

L’ultimo capitolo del tuo saggio riguarda il complesso mondo della tanatoestetica e delle differenze che ci sono nei vari paesi. In Italia ad esempio alcune pratiche diffuse in America sono considerate illegali. Qual è la tua opinione su questo tipo di estetica?

Secondo me le pratiche di tanatoestetica, tanatoprassi e, se consideriamo un livello di maggiore invasività, quelle di imbalsamazione sono tutte frutto dello stesso tipo di atteggiamento che la nostra società ha nei confronti dell’evento morte: l’evitamento. Fino a un secolo fa, era più frequente veder morire le persone. Oggi, come scrive l’antropologo Geoffrey Gorer, la morte è in qualche modo sconveniente e oscena, un atto proibito che rende chi vi si avvicina emarginato. Il fatto della morte non è solo rimosso, ma è vera e propria pornografia al punto che sembra che, diversamente da come recita la frase latina mors certa, hora incerta, la morte sopraggiunga del tutto inattesa, non solo nel senso che non sappiamo quando debba arrivare, ma soprattutto perché pensiamo possa anche non arrivare mai.
La tanatoestetica, la tanatoprassi, l’embalming diventano allora strategie mirate ad agire sui nostri resti per rallentarne la decomposizione (o impedirla)e così restituire tempo – ai vivi, non certo al defunto – improvvisamente percepito come indispensabile alla presa di coscienza dell’avvenimento morte, alla sua “registrazione” e all’inizio dell’elaborazione del lutto teorizzata dalla psichiatra Elizabeth Kübler-Ross.

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