Letizia Polini, “Macula”

di Giorgio Galli

vedere meglio

assomiglia

a una disfatta

Nuda e oscura è la poesia di Letizia Polini in Macula (Ensemble, 2022). Come scrive Umberto Piersanti nella Prefazione, “c’è uno sforzo, una fatica nello sguardo che forse si compenetrano e confondono con le difficoltà del vivere”. La macula che dà il titolo alla raccolta è la parte centrale dell’occhio umano, fondamentale per la visione. Ma la visione porta sempre a uno scacco. Vedere di più non significa vedere più chiaro, e le poesie più belle sembrano anzi soffrire di un’impossibilità originaria a conoscere – la materia del vivere sembra in esse eccezionalmente opaca:

C’è potenza in questo tuo scavo

del volto, trapela dai luccichii

perenni, risalgono dagli occhi.

Parli come se sbriciolassi

il pane, senza perdere la strada

cammini senza risparmiare

porzioni di terre emerse,

incendi.

Graffi quando passi, annodi

e lasci cumuli di resti.

La visione può essere anche cieca: “Ti vedo affogare sulla riva / e fissarmi senza vedermi”. Per ricominciare a vedere davvero bisogna partire dagli elementi minimi, come dopo un grosso trauma psichico si ricomincia a godere della realtà a partire da piccolissime cose. La conoscenza deve essere rifondata da zero: “Tracciarti il contorno / per ricordare la forma / e rifarla”; “…non si possiede / mai niente, al mattino si è solo / corpo, quello che avevamo / da piccoli”.

I personaggi che affollano la brevità di questa raccolta sono misteriosi, possiedono qualcosa d’inattingibile:

Dietro la scuola

la bambina giocava.

Era muta era attenta,

non mostrava i genitori

né i brandelli,

ogni giorno scendeva

in quella battaglia e

non vinceva, poche

le parole, pochi i gesti,

qualche pianto d’effetto

sapeva di scomparsa.

Scrive Piersanti che figure come questa della bambina “si muovono tra le difficoltà e l’inquietudine che le circondano: non sembra esserci una qualche finalità, magari temporanea, difficile trovare un senso alle cose e alle vicende”.

La difficoltà profonda, per Letizia Polini, consiste nel dare un senso alla visione, che appare assediata dal dolore: “Tentavamo di tanto in tanto / il riordino cellulare mentre / una spina restava / a premeditare lo squarcio”. Anche la ricerca più intensa si dimostra infruttuosa, perché trova come limite invalicabile il buio. L’unica soluzione è fare del buio stesso la materia del vedere -e del dire:

Frugare nel carbone che ancora arde,

rovistare fino a mani sparite, trovare

il nocciolo di tutte le questioni,

guardare il fondo della prima ferita,

rivolgersi al punto che ha dato inizio a tutto,

restare nel punto natio dei nervi,

poggiarsi sulla bocca

proteggere il silenzio

fare del buio un corpo.

Forse l’oggetto dell’indagine poetica di Letizia Polini non è la visione in sé, ma tutta l’oscurità che la circonda. Di certo la sua giovane voce -Letizia è nata nel 1988- si mette in evidenza per il suo carattere interrogativo e la sua capacità perturbante.

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