Ginger e Fred

di Giorgio Galli

La prima volta che ho visto Ginger e Fred di Fellini era l’agosto del 1993: Fellini si trovava in ospedale e sarebbe morto di lì a due mesi. In quel periodo le notizie sul suo stato di salute costituivano una running story sui quotidiani, e anch’io le seguivo con ansia: tra l’altro, l’estate del ‘93 -avevo tredici anni- fu quella in cui iniziai a leggere le sceneggiature di alcuni suoi film e a familiarizzarmi con la sua poetica. La trasmissione televisiva di Ginger e Fred, in quella fine d’agosto, aveva perciò tutto il carattere di un’iniziazione.

Guardai il film con enorme emozione. Due mesi più tardi, come detto, Fellini morì. E, sempre ad ottobre del 1993, Silvio Berlusconi “discese in campo” per vincere poi le elezioni a marzo del ‘94.

In Ginger e Fred, Berlusconi è il cavalier Fulvio Lombardoni e la sua televisione una girandola di volgarità e cattivo gusto. In questo film del 1985 Fellini attacca sul nascere le tv berlusconiane, intuendo il ruolo rovinoso che avrebbero avuto per il Paese. Alcune cose le prende dalla realtà, altre le immagina, o le ingigantisce. Fatto sta che il mondo che ritrae è insopportabile. Tutta la prima ora del film è una serrata rappresentazione dello sfascio morale indotto dal consumismo e dalla pubblicità. È una descrizione così insistita che il film non procede, e soprattutto è così caricaturale da sfiorare quella volgarità stessa che la pellicola si propone di criticare. In altre parole, Fellini attacca la volgarità, ma nel metterla in scena gliene resta un po’ appiccicata addosso. È che, distante com’è dalla cultura “alta”, il maestro, pur soffrendo quanto Pasolini per la deriva consumistica del Paese, non la analizza a sufficienza, non ne prende un’adeguata distanza critica, e ingenuamente la mette tutta in conto alla televisione. Non coglie il fatto che la televisione esaudiva un desiderio profondo del Paese, ma si muove come se quella scatola magica avesse cambiato da sola e per sempre la faccia degli italiani. Al tempo stesso, da uomo di spettacolo, egli si compiace del gran circo che riesce a mettere in scena, si compiace della sua solita carrellata di mostri. Il copione -scritto con Tullio Pinelli, sceneggiatore felliniano della primissima ora, e Tonino Guerra, asso nella manica dell’ultimo periodo del regista- inscena la contrapposizione un po’ manichea tra un vecchio e “sano” mondo dello spettacolo, quello di Ginger e Fred, e la scurrilità degli anni Ottanta, e affida gran parte delle considerazioni critiche alla voce scalcagnata di Pippo Botticella, in arte Fred -un magnifico Marcello Mastroianni. Giulietta Masina appare meno a suo agio nei panni di Amelia Bonetti-Ginger, la danzatrice diventata col tempo una casalinga borghese. Sono lontane le grandi interpretazioni di personaggi semifantastici come Gelsomina e Cabiria. La sua Ginger è sbiadita come dev’essere, ma un po’ più d’invenzione poetica non avrebbe gustato. L’entrata in scena di Mastroianni e del suo Fred velleitario, sbevazzato e disastrato solleva in effetti le sorti di un film la cui prima mezz’ora è piatta e incolore.

Dove la pellicola prende il volo è nella narrazione della grande storia di un amore mancato: quello fra i due protagonisti. Allora sì che stride il contrasto fra la poesia di quel ritrovarsi in tarda età e l’orrore del contenitore televisivo entro cui sono inseriti. Fellini ha bisogno, per prendere il volo, di quest’antagonismo, di questa miccia per innescare il fuoco. La vera critica di Ginger e Fred non la troviamo negli sgangherati discorsi ribellistici di Fred, né nella messinscena del cattivo gusto delle prime tv berlusconiane: la troviamo nell’urto fra le due cose: urto che avviene solo nella seconda metà del film. Il finale è fra i più struggenti mai realizzati da Fellini, ma è anche uno dei momenti in cui la rappresentazione del guasto sociale si fa più centrata: Ginger e Fred si separano per sempre alla Stazione Termini, e subito dopo c’è l’inquadratura di un enorme porchetta che pende giù dal soffitto della stazione e di un uomo che le balla davanti allucinato, al ritmo di un primitivo rap: la stupenda poesia di cui siamo appena stati testimoni crolla di fronte a un’inquadratura icastica, che simboleggia la grande abbuffata in cui si stava lanciando l’Italia opulenta degli anni Ottanta.

Oggi che quell’abbuffata è finita, che Berlusconi ha più anni di quanti ne avesse Fellini allora e che il regista è ormai morto da un trentennio, possiamo dire che la sua rappresentazione della mutazione antropologica è stata forse troppo poco sottile, e che le forme di tale mutazione sono state più subdole rispetto a quanto mostrato nel film. Al tempo stesso Fellini -e Pinelli, e Tonino Guerra- le ha indovinate tutte: dall’invadenza della pubblicità alla tv del dolore, dalla retorica trionfalistica ed erotica allo sdoganamento della malavita. Quello che non ha indovinato è la trasformazione di tutto in intrattenimento, l’appiattimento di forme e contenuti entro contenitori televisivi che mescolano l’ultimo album del cantautore ventenne e Liliana Segre come in un tutto indifferenziato, dando l’impressione che tutto si equivalga. Ma non possiamo pretendere da Fellini virtù profetiche.

A proposito di Ginger e Fred, in conclusione, possiamo dire questo: che il maestro ha girato due film: l’uno, grottesco e corrivo, che non procede; l’altro, splendido e tenero: e che entrambi corrono verso il bellissimo finale.

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