A proposito di “Prisma”: un dialogo con Maria Borio

a cura di Giorgio Galli

“Lei mangia e sulla tastiera grinda, vira per altri livelli / in un drop vertiginoso, lagga il tempo, si arrampica / su una parete altissima di roccia e bambù, / killa i fantasmi e in fondo tocca un uomo / di pietra e sesso, finché il gioco non cade dal letto / dove sono davvero in due, soli, nudi, newbie, al principio.” Possiamo trovare versi come questi nell’ultimo lavoro di Maria Borio, Prisma (Zacinto, 2022). Ma troviamo anche visioni della natura di una candida, virgiliana purezza. Rispetto alle raccolte precedenti, Maria Borio alza la voce, ma senza collera: sa che non esiste argine al trascorrere del tempo e al mutare delle culture, e non alza steccati; non si sdegna, ma cerca di restituire a parole il volto della contemporaneità. Ne emerge un volto bifronte, di un’umanità ancorata a una visione panica della natura, ma immersa nel virtuale; che ha ancora paura del lampo, del fuoco e del lupo, ma è immersa con tutta l’anima nella dimensione del virtuale. Questa bipartizione scontorna i tratti sia del mondo naturale che di quello tecnologico. Anche i suoni della nostra epoca sono suoni che disorientano, che ci lasciano come pipistrelli impazziti dentro una stanza: e allora Maria affina la sua capacità di visione, rispolvera addirittura un antico trattato sull’ottica e riscopre le qualità più intime del suono. Va alle origini. Va fino in fondo -senza cedere alla tentazione dell’abisso.

Cara Maria, nella tua scrittura il mondo del “virtuale” ha sempre grande importanza, e al tempo stesso si avverte un profondo afflato verso la natura. Sbaglio se dico che l’atteggiamento che mantieni nei confronti della tecnologia è neutro, avalutativo, e che non ne appari spaventata o preoccupata? Al tempo stesso, lo hai detto tu stessa in mote interviste, sei una ragazza di campagna, cresciuta in mezzo alla natura, e anche questo si sente. In una poesia intitolata Cariche opposte troviamo, a breve distanza, queste due strofe: “Ogni carica opposta può essere letale: il vento in sé / trascinava la montagna, un ululato dal pozzo etrusco / prolungato e nero…” e “un sasso o la luna, e la seguiva, poi non seguiva / follow, unfollow / come gli archi a tutto sesto, avanti – sul telefono le lettere vibravano, / ma lei correva, faceva perdere le tracce in uno screenshot”. Posto che tu non offri soluzioni, in che rapporto stanno le due dimensioni, quella naturalistica e quella ipertecnologica, nella tua esperienza, nella tua visione del mondo e nella tua poesia?

In poesia ci si può muovere seguendo quattro dimensioni: la lunghezza e la larghezza – immagino così la spazialità che si crea con i versi ritmici e in tutto il campo del testo, che per me è come un’architettura -, la profondità – le immagini e i significati di una poesia non corrispondono a una comunicazione immediata… essa è istintiva e intensificata, ma non immediata – e il tempo. Una poesia dà la possibilità di un attraversamento temporale, unisce il passato al presente e al futuro, prefigura l’esperienza della quarta dimensione. Il virtuale è una finestra nel tempo. Non intendo il virtuale semplicemente come un prodotto della tecnologia, ma come uno stato della mente, un mezzo dell’interiorità e della conoscenza.

A un certo punto scrivi “immagina le cellule e i pixel / come le strategie dei videogiochi riproducono le paure”. Siamo dunque a un virtuale di secondo grado, dove la memoria per orientarsi, per ri-conoscere, ha bisogno d’essere riportata non ai sentimenti originari -le paure- ma a una loro primitiva rappresentazione virtuale?

La riproducibilità tecnica dell’arte è un punto di vista ben noto… quando ho usato il verbo “riproducono”, volevo andare oltre. Ho immaginato una differenza di prospettiva tra la paura come condizione emotiva che si percepisce in un’esperienza concreta e l’innesco della paura come stato che possiamo costruire, comporre con l’immaginazione. La virtualità non riproduce – letteralmente – le paure, non le tecnicizza rispetto alla loro origine. L’origine è sempre umana. L’immaginazione può comporre dei modi attraverso cui le paure sono rappresentate. La virtualità è un mezzo dell’immaginazione: si può esplicare in un dispositivo come un videogioco, ma anche attraverso un linguaggio. Quando nasce un nuovo codice linguistico, come quello dei Millennials e della Generazione Z che ho usato in questo librino, per la maggior parte delle persone esso appare un’espressione distante e, in molti aspetti, virtuale. La nascita di qualcosa comporta anche uno stato di virtualità per chi si avvicina ad esso. La virtualità è nella percezione, non nel punto d’avvio, non nel cuore delle parole. La poesia nasce nell’autenticità di quello che di umano c’è qui – e forse lo custodisce davvero, perché pur essendo precaria, fragile resta uno dei linguaggi più intensi.

C’è un’immagine terribile, quella dei gattini buttati dentro una busta di plastica nel Tevere. Poco dopo, questo distico: “Qui poche cose contano: TVB, in fondo, tanta violenza bianca – / stringerla e vibrare, ripetersi: perdono, non dimentico”. È una radiografia spietata del panorama emotivo della modernità: da una parte l’esibizione smodata -ma in forme lessicalmente striminzite- dell’affettività, dall’altra “tanta violenza bianca”. È veramente possibile, per te, un perdono senza oblio? E poi. Fragilità e ferocia sembrano i due poli del modello sociale contemporaneo: secondo quello che ci mostrano le fiction, bisogna essere fragili e vincenti, arrampicarsi socialmente e avere una vita affettiva devastata. Quale razionalità sta dietro un modello che genera “tanta violenza bianca”, e che tipo di razionalità diversa, umanistica ma anche scientifica, le si può opporre?

“Perdono non dimentico” è il titolo dell’ultima parte di Prisma. Ho voluto separare il perdono – una comprensione ex post di qualcosa che si è depositato nella memoria e che sembrava terribile – dall’esercizio tenace di mantenere sui piatti della bilancia le responsabilità. Il perdono non assolve del tutto, non cancella un gesto. La scrittura è spesso un modo per mantenere attiva la memoria di un’azione, del segno che ha lasciato la cicatrice: ecco la sua etica. La letteratura ci dice che è più realistico avere una consapevolezza che non la grazia… Se la società è fragile e feroce, la letteratura è fragile e forte: non può offrire soluzioni pratiche per risolvere i problemi, non è un giudice, però fa da schermo alla ferocia dei comportamenti con una forza che li comprende, li fa parte di sé, li rielabora, li pesa, li distingue e, in questo senso, li perdona ma non li dimentica.

Non è nuovo, nel tuo lavoro, l’accostamento tra parola e immagine. In Prisma, però, è la qualità delle immagini a colpire: sono riproduzioni delle prime sette tavole illustrative al trattato sui colori di Ernst Chladni, del 1787. Spiegaci come mai il ricorso a un testo degli albori della fisica moderna.

Chladni fece i primi esperimenti acustici per verificare la qualità delle vibrazioni sonore. Disponeva granelli di sabbia o spore di licopodio su una lastra sottoposta a vibrazioni di diversa intensità, le quali generavano varie figure, corrispondenti all’intensità delle frequenze. Una poesia non si compone in modo simile? Pensiamo a come il ritmo della lingua produce un verso, più versi, un movimento di versi e, in generale, il campo del testo, il suo spazio figurale: il suono innesca la percezione ritmica del significato delle parole, quindi i moti delle parole, il loro disporsi grafico, la loro forma.

Se la dimensione visiva è sempre presente nel tuo lavoro, quella del suono ha qualcosa di ovattato. In un’intervista del 2021, all’interno del progetto “Non solo muse”, facevi un’acuta distinzione tra ritmo e metro, rivelando una spiccata consapevolezza musicale. Eppure il germe ritmico dei tuoi versi appare quasi travestito, c’è come una discrezione musicale in te. Il mondo sonoro viene attraverso immagini che lo attenuano -come l’acquario della tua prima raccolta, Trasparenza. Ho l’impressione che tu veda il suono come qualcosa di totalmente interno ai versi, che non bisogna esplicitare troppo, evocare in maniera troppo vivida.

Il suono è dentro ai legami tra le lettere e le parole, tra le parole e il discorso poetico. Avere orecchio è fondamentale. Il suono è una corrente originaria, interna al significato delle parole, alle immagini, alle storie: una vena interiore, che tuttavia non basta. Però, se non si immerge la mente in quella corrente – se non si va dentro –, in una poesia perderemo sempre qualcosa.

*

Da Prisma

Perdono non dimentico

Il ciliegio non dimenticherà:
è ingenuo attribuirgli un potere?
Prova ancora a star su, ma l’età non fa crescere
il colore nei fiori: bianchi si confondono
dentro la luce e potrebbe essere quasi estate, una corsa
di qualsiasi ragazza.

Il ciliegio, è vero, non ha dato mai latte,
ma nella sua ombra copriva i gattini
e i fiori si perdevano chissà dove come gli occhi stretti
ancora chiusi oscillavano sul muso.

La sua innocenza: per essere onesti
una cosa che vale – perché perdonare?
È un sismografo appoggiato al ciliegio la donna che canta forme di
fiori
– nessuno l’ha mai vista, non serve –
pensa alla vita integra, autentica, nella quarta dimensione
– nessuno l’ha mai provata, non serve…

Qui poche cose contano: TVB, in fondo, tanta violenza bianca –
stringerla e vibrare, ripetersi: perdono, non dimentico

perché il legno, sai, non è un buon conduttore
ma una persona sì, Chladni, porta le tue figure…

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