Cinquant’anni di Ziggy Stardust

 

di Paolo Cuttitta

 

Ziggy Stardust compie cinquant’anni. Era il 6 giugno del 1972 quando David Bowie pubblicava l’album “The rise and fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars”. Nasceva quella che è stata forse la più rivoluzionaria maschera del rock. L’androgina e conturbante figura, inventata e impersonata dallo stesso Bowie, aveva cominciato ad animarsi già qualche mese prima, sui palcoscenici dei concerti nei quali il venticinquenne londinese si esibiva con gli Spiders from Mars: Mick Ronson (chitarra), Trevor Bolder (basso), Mick “Woody” Woodmansey (batteria) e Mike Garson (piano). Ziggy spiccava per i capelli arancione, il trucco femminile, gli stivali di pelle, i boa di piume, i pantaloni o i body attillati; i Ragni di Marte gli tenevano degna compagnia con tutine luccicanti e acconciature a tono. Le esibizioni della band andarono acquisendo carattere sempre più teatrale, sia attraverso l’inclusione di alcuni mimi, sia grazie alla gestualità accentuata dello stesso Ziggy (Bowie era stato, a sua volta, allievo di Lindsay Kemp), che si spingeva fino a mimare una fellatio “elettrica” con Ronson. Con il crescente successo dell’album, gli spettacoli divennero veri e propri eventi di costume, affollati per com’erano di adolescenti vestiti, acconciati e truccati come i protagonisti dello show, per la costernazione di migliaia di genitori che si interrogavano, perplessi, non soltanto sui gusti musicali, l’abbigliamento e le acconciature dei loro figli ma anche sul loro regolare sviluppo in termini di orientamento sessuale e identità di genere.

La trasgressione nella sfera sessuale costituiva, in effetti, il tratto più visibile del personaggio, anche in virtù di una furba dichiarazione di Bowie sulla propria omosessualità (mai confermata e, anzi, smentita anni dopo). Ma a essa si legava un altro fondamentale elemento: il rapporto dell’uomo con lo spazio celeste, e quindi la trasgressione dei confini terrestri. La relazione tra queste due dimensioni, tra queste due forme di sconfinamento, è la chiave del fenomeno Ziggy.

Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, ovvero Ziggy Polvere di Stelle e i Ragni di Marte: già questi nomi tradivano l’impronta “extraterrestre” che caratterizzava tanto il personaggio quanto l’inconfondibile atmosfera “aliena” di tante delle sue canzoni. Gli anni Sessanta si erano conclusi da poco, ed erano stati proprio gli anni delle grandi conquiste spaziali. Il clamore delle imprese compiute (nel 1963 il primo uomo in orbita, nel 1969 il primo uomo sulla luna) e la conseguente illusione di un’ormai prossima conquista degli spazi celesti alimentavano, nel genere umano, sensazioni al contempo di onnipotenza e di smarrimento.

David Bowie and Mick Ronson, Guitar Fellatio, 1972

La possibilità di allargare gli orizzonti del proprio sguardo oltre ogni limite affascinava ma al tempo stesso inquietava, nella misura in cui poneva l’individuo di fronte a libertà e responsabilità troppo grandi, producendo effetti di sradicamento e disorientamento. Questi desideri e paure erano stati al centro di “2001 Odissea nello Spazio”, il capolavoro cinematografico di Stanley Kubrick uscito nel 1968. L’anno dopo, ispirato proprio da quel film, Bowie aveva narrato l’odissea del Maggiore Tom in “Space Oddity”, la sua prima canzone di successo. Tre anni più tardi, con Ziggy Stardust, il tema spaziale si ripresentava come filo conduttore di un intero disco, che affiancava però alla suggestione extraterrestre anche le pulsioni materiali proprie della sfera terrestre. Del resto gli anni Sessanta avevano segnato, per le giovani generazioni del mondo occidentale, l’inizio di una rivoluzione dei costumi e di un processo di liberazione sessuale: identità di genere e orientamento sessuale andavano sviluppati indipendentemente dalle convenzioni e dalle restrizioni imposte dalla morale dominante, e, se necessario, anche in contrapposizione alle stesse.

L’essere umano viveva, dunque, un duplice fenomeno di allargamento dei propri confini vitali. Come esemplare del proprio genere – come Terrestre, cioè, che si rapporta al creato – viveva la consapevolezza (l’illusione?) di potere finalmente liberarsi dai limiti fisici imposti dal proprio pianeta, avviando un dialogo di portata infinitamente più ampia con l’universo. Nella sua dimensione di singolo in relazione con i propri consimili, l’individuo, cresciuto dentro i confini morali ormai logori di istituzioni sociali messe fortemente in discussione, avvertiva l’opportunità straordinaria di affrancarsi da questi vincoli, moltiplicando anche tramite l’esplorazione e l’espressione del proprio potenziale sessuale le possibilità di realizzazione della propria personalità.

La convergenza di questi diversi elementi – il rapporto con lo spazio celeste e quello con le proprie pulsioni fisiche – produce, in Ziggy Stardust, un vertiginoso rimescolamento interiore, un repentino ripiegamento su se stessi, un gorgo vorticoso che stravolge il corpo e la mente; qualcosa che è destinato a “fare esplodere” il cervello (“There’s a starman waiting in the sky, he’d like to come and meet us but he thinks he’d blow our minds”, recita “Starman”) o a “lacerarlo” (“All the knives seem to lacerate your brain”, dice “Rock’n’roll suicide”). È quello stesso cervello in cui Ziggy Stardust, nel brano eponimo, finisce risucchiato facendo narcisisticamente l’amore con se stesso (“Making love with his ego Ziggy sucked up into his mind”).

I diversi protagonisti dell’album sono esseri superiori e predestinati; figure taumaturgiche, salvifiche ma anche fragili, contorte, sofferenti, sfuggenti e misteriose. Li conosciamo così nelle parole di canzoni come Moonage Daydream (con la sua “rock’n’rolling bitch”, la puttana rock), Starman (l’uomo delle stelle che tutti sognano di incontrare), Lady Stardust (con l’omonima, onirica, paradisiaca figura), Hang on to yourself (con la sua concretissima, conturbante presenza femminile), Ziggy Stardust (proprio lui, con quel suo “God given ass”, il fondoschiena dono di Dio), per finire con la figura del Rock’n’roll Suicide, nella quale la forza dell’amore si oppone a quella dell’autodistruzione. Questi personaggi sono i figli orfani (o le reincarnazioni?) del Maggiore Tom, ormai disperso per sempre negli spazi siderali, ed esprimono in modo esemplare e toccante questa loro singolarissima condizione.

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L’album, con tutti i suoi personaggi, è avvolto in un’atmosfera di elegante e inquietante decadenza: quell’aura apocalittica che apre il disco con “Five years” (i cinque anni che mancano alla fine del mondo) e lo chiude con il dramma esistenziale di “Rock’n’roll suicide”. In ciò Bowie attinge alle componenti più cupe di autori come Lou Reed (“White Light / White Heat” e “Waiting for the man” dei Velvet Underground vengono regolarmente eseguite dal vivo da Bowie nel biennio 1972/73) e Jacques Brel (“My Death” è anch’essa un appuntamento fisso dei concerti di Ziggy). Altrettanto evidente è del resto il debito di Ziggy nei confronti di tutti coloro (da Elvis Presley a Jim Morrison, passando per Mick Jagger) i quali avevano sottolineato la funzione disinibente e liberatoria della musica, suggerendo e spesso esplicitando il rapporto tra musica e sesso.

A cinquant’anni suonati, e a sei anni dalla morte del suo autore, Ziggy Stardust è sempre lì, sospeso tra la terra e il cielo, a esercitare il suo immutato fascino su noi comuni mortali.

 

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