Tra amiche: Leonor Fini e Leonora Carrington

di Ginevra Amadio e Ivana Margarese

Immagine in copertina di Silvia Rossini

 

 

La vicenda artistica e umana di Leonor Fini e Leonora Carrington così come il racconto della loro singolare amicizia è un invito ad alcuni mutamenti prospettici.
Del resto il tema dello sguardo e della visione non scontata ma al contrario penetrante, in grado di ibridare e coniugare elementi disparati in nuove analogie  e accostamenti visionari, è cifra artistica di entrambe. Leonor Fini e Leonora Carrington sono accomunate dalla definizione di artiste surrealiste, dal momento che giunte a Parigi, negli anni trenta, incontrano gli esponenti di un movimento innovatore che ha poco più di dieci anni di vita: il Surrealismo. Addentrarsi nella loro storia comporta tuttavia l’evidenziare l’originalità dei loro contributi al di là della loro appartenenza a questo gruppo di avanguardia o al loro essere amiche e compagne di artisti, descritte, attraverso ruoli o narrazioni semplificanti, come muse o incarnazioni del femminile come modello teorico a loro preesistente.
Sia Leonor sia Leonora non si riconoscono come affiliate all’avanguardia. Evitano ogni categorizzazione e configurazione classificatoria preferendo essere valutate per la propria individualità artistica. Entrambe sono figure autonome e personalità significative per la loro autenticità, originalità e sperimentazione nel contesto storico culturale del Novecento. Una seconda rimodulazione di sguardo conduce a riconoscere come la loro ricerca personale si nutra di confronti e condivisioni di esperienze, attraverso cui  manifestano gli stati interiori più profondi, e quindi bene incarna un modello creativo che nel dialogo e nell’amicizia trova una risorsa feconda.

 

Le due artiste si incontrano a Parigi e tra loro nasce un profondo legame di stima e di amicizia, nonostante la prima fosse stata in passato amante di Max Ernst, grande amore di Leonora tanto che costretta a separarsi da lui, cadrà in uno stato di profonda sofferenza psichica che la condurrà in sanatorio a Santander, in Spagna, vicenda di cui racconta nel suo scritto Down Below.
Leonora Carrington è di circa dieci anni più giovane della Fini, la quale per tutte le altre donne che frequentano il gruppo surrealista rappresenta «una strana combinazione di grazia felina e potere amazzone», una sorta di figura mitologica:

 “Si è alimentata nel tempo, dagli anni trenta in poi, la leggenda di un’artista maestra di metamorfosi, eccessiva, misteriosa, inclassificabile. […]. Una donna maestra di trasformismo e di mascheramenti, una outsider regale, animata da un sogno di restaurazione matriarcale, una donna che volle fare della propria opera e della stessa vita un gioco a nascondino con se stessa, o anche, se preferite, una specie di mosca cieca biografica con gli spettatori/ lettori”.

Le viene attribuito un talento da osservatrice intenso e trafittivo tale da accomunarla a profetesse o sibille. Le sue capacità di indagare traspaiono da uno sguardo che può disorientare o ipnotizzare, come uno  specchio magico che permette di smembrare le cose in forma visionaria per penetrarle meglio.
Anche Leonor Fini è una creatura indomita, una donna fuori-canone. La sua figura affascina persino Elsa Morante, che la conosce a Roma e instaura con lei un sodalizio e una fitta corrispondenza, arrivando a dedicarle una poesia dal titolo “Nella Torre San Lorenzo” che tra l’altro recita: «Poi viene Leonor. Le finestre diventano luce, le ragnatele tende preziose di nuvole e stelle, i rami secchi doppieri accesi, e la sera una grande serata; perché Leonor (come le ho detto mille volte e come non mi stancherò mai di dirle) unisce in sé due grazie: l’infanzia e la maestà».

 

 

Le due artiste si pongono contro il mito della donna musa o femmeenfant che si moltiplicava nelle opere dei surrealisti, per recuperare ed amplificare le capacità di trasformazione e la sintonia col mondo naturale e animale della figura femminile. Potremmo dire, citando Daniela Barcella, che esse divengono «muse di se stesse, figure dai poteri occulti che interrogano la propria immagine e quindi la propria identità». Tanto Carrington che Fini stabiliscono infatti un legame profondo tra la donna e il regno animale, significativamente indagato – e accompagnato – da uno sguardo “dal margine”, situato sulla soglia della veglia. L’occhio, enigmatico e pungente, campeggia simbolicamente nelle opere di queste artiste, tramate di magia, figure altre, soggetti anfibi. Uno degli emblemi più enigmatici del metamorfismo come incrocio e fusione tra essere umano e animale di cui subiscono la fascinazione sia Leonor che Leonora è la sfinge.

Nelle loro opere compaiono anche i gatti, che, dal Gatto con gli stivali di Charles Perrault al Cheshire Cat di Lewis Carroll in Alice nel paese delle meraviglie, sono spesso presenti a indicare la dinamica tra desiderio di vedere, esplorare, ricercare con curiosità impaziente e le regole che talora arrestano o reprimono il desiderio. Vale la pena ricordare che il gatto è da sempre un animale fondamentale nell’immaginario magico e mitologico: veniva adorato dagli antichi Egizi sotto forma di divinità femminile, simbolo sia della casa che della donna; era perseguitato nel Medioevo come compagno delle streghe; in Giappone è considerato, oggi come ieri, un portafortuna; nelle favole, infine, può rivestire il ruolo tanto di consigliere quanto di colui che protegge l’eroe. I gatti sono spesso protagonisti nei quadri di Leonor Fini, anche perché simbolicamente legati alla chiaroveggenza, alla capacità di vedere oltre. L’artista stessa viveva con molti gatti, arrivando ad averne ventitré contemporaneamente. La passione per i gatti di Leonor riemerge anche nei suoi testi letterari come in Murmur fiaba per bambini pelosi pubblicata per la prima volta dalle Editions de la Différence a Parigi nel 1976.

Il cavallo invece è l’animale guida di Carrington, che appare più volte nelle sue rappresentazioni letterarie e pittoriche, come alter ego, modello di  libertà. Il cavallo appare come giocattolo nell’opera teatrale Penelope e nel racconto La dame ovale, in cui le protagoniste, rispettivamente Penelope e Lucrecia, che si trasformano in un cavallo bianco, sono affezionate a un cavallo a dondolo, Tartar, che il padre minaccia di bruciare. Una delle due, Penelope, fugge e diventa lei stessa un cavallo volando come Pegaso, mentre la dame Lucrecia non riuscendo a liberarsi si dispera per l’amato Tartar.
Ma è in Down Below che lo spirito belluino di Carrington si traduce in ferinità, in «manifestazioni di energia fisica e istintiva che sopravanzano sulla logica del pensiero», come scrive Alessandra Scappini.

Non sono mai riuscita a scoprire quanto tempo fossi rimasta nell’incoscienza: giorni o settimane? Quando diventai tristemente ragionevole, mi raccontarono che durante i primi giorni mi ero comportata come diversi animali, che saltavo sull’armadio con l’agilità di una tigre, graffiavo e ruggivo come un leone, nitrivo, abbaiavo, eccetera.

Si tratta quasi di un’immersione, un avvicinamento al mondo animale per ri-connettersi con l’universo dopo l’inferno della clinica, un luogo concentrazionario e infernale perché fuori dal tempo, dentro le logiche umane del male, del potere. L’universo delle bestie, al contrario, è ricco di riconnessioni, è uno spazio di liberazione, di scioglimento dei ruoli sociali.

Anche per Fini il fantastico si nutre di istinti animali, ma sembra afferire a «un mondo tutto suo», a una continua emersione dell’onirico che si manifesta «nel gioco ironico e bizzarro tra animale e uomo, zoomorfismo e antropomorfismo, innocenza o spontaneità rousseauniana propria dello stato naturale e barbarie della civiltà o dell’inconscio». Per lei, come per Carrington, «”abbassarsi” all’animalità significa riscoprire l’istintualità belluina, le sensazioni primarie, le percezioni libere dall’associazione ai processi mentali, per “elevarsi”alla conoscenza come consapevolezza di sé e del mondo».
Nelle loro opere, del resto, il dialogo continuo tra spazi esterni ed interni rinvia a tali stati emozionali più o meno manifesti, e spesso nel luogo chiuso, in una stanza, la camera o la cucina come spazio privato, si condensano ansie e passioni che si rendono manifeste attraverso gli universi dell’immaginario. Ogni ambiente dipinto nell’opera di ciascuna si propone come frontiera, che invita al passaggio continuo tra reale e immaginario, tra visione e visionario. Nell’estate del 1939 Leonor Fini realizza l’olio The Alcove: An interior with three Figure, dove rappresenta l’amica sulla soglia di un’alcova abitata da due figure in posa di lascivo abbandono. L’artista inglese, che secondo la definizione della stessa Fini era una “vera rivoluzionaria” sovrasta la scena vestita da guerriera, restituendo l’immagine di un femminile imperioso e pensoso. Quest’immagine risale al periodo vissuto da Carrington a Saint Martin d’Ardèche insieme a Max Ernst, prima del doloroso periodo che la condusse al sanatorio spagnolo e prima della sua partenza verso il Messico.

La loro unione – affettiva, emotiva, artistica – è il segno tangibile di una comunanza di intenti che si nutre, contro ogni pregiudizio, dell’incontro tra anime femminili, non a caso trasposte – con tutta la loro forza – in opere che attingono da questo sguardo controcorrente, che lavora, come già in Remedios Varo, a partire dai desideri inconsci, dalla capacità di rendere visibile l’invisibile.
Le figure di Fini e Carrington hanno uno sguardo che trapassa e seduce, lo stesso che dalle sibille si incardinerà in una lunga tradizione che passa per le streghe e le donne-fatali: esseri altri, spaventosi perché capaci di diffrangere il reale.


Bibliografia 

Daniela Barcella, Incantatrici allo specchio. Dal Surrealismo magico alla contemporaneità, in Le incantatrici, a cura di Francesca Pagan, “Elphant&Castle”, luglio 2013.

Giulia Ingarao, The Alcove: an interior with three figures. Leonora Carrington, Max Ernst e Leonor Fini – Saint Martin d’Ardèche 1938/1940, in Predella Journal, 2018.

E. Pellegrini, In maschera ovvero il festival dell’io di Leonor Fini, in M. Masau Dan (a cura di), Leonor Fini: L’italienne de Paris, Trieste, Museo Civico Revoltella, Comune di Trieste, 2009.

A. Scappini, Il paesaggio totemico. Tra reale e immaginario nell’universo femminile di Leonora Carrington, Leonor Fini, Kay Sage, Dorothea Tanning, Remedios Varo, Milano, Mimesis, 2017.

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