Frammenti di un discorso: Lidia, Valentina e “La notte”

 

a cura di Ivana Margarese

 

Un koan buddhistico dice: “Il maestro tiene a lungo sott’acqua la testa del discepolo; poco a poco le bollicine d’aria si diradano; all’ultimo momento, il maestro tira fuori il discepolo e lo rianima: quando desidererai la verità come hai desiderato l’aria, allora saprai cos’è”. L’assenza dell’altro mi tiene la testa sott’acqua; poco a poco, io soffoco, la mia aria si fa più rarefatta.

Così scrive Roland Barthes in un passo dei suoi Frammenti di un discorso amoroso dedicato all’assenza, tema risonante in tutta la cinematografia di Michelangelo Antonioni: assenza dell’altro, assenza della verità, personaggi che sembrano aggirarsi come sonnambuli nel reale, sostituendo solamente una notte all’altra. E proprio il celebre Frammenti di un discorso amoroso permette di mettere in luce alcuni elementi del discorso del film La notte (1961) e dei personaggi femminili che lo attraversano. Quasi fosse, il loro, un incontro mancato.
I film di Antonioni raccontano le relazioni e lo fanno per lo più tramite le figure femminili e il loro sondare con sfrontatezza, e spesso minore codardia degli uomini, il mondo in cui sono immerse. Lidia (Jeanne Moreau) e Valentina (Monica Vitti) sono i personaggi femminili protagonisti de La notte (1961). Due donne, diverse per età e condizioni di vita, accomunate da un sentimento di disincanto e da una osservazione sincera di ciò che le attraversa. Entrambe vorrebbero svestire i panni che indossano, perdersi, scegliere cosa poter dimenticare.
Nel corso della serata trascorsa a metterle in contatto è un uomo: Giovanni (Marcello Mastroianni), scrittore quarantenne e marito di Lidia, affascinato dalla giovane e bella Valentina. Lidia nota per prima l’affascinante figlia ventiduenne di Gherardini, il ricco padrone di casa, che cerca di evadere dalla noia della  festa attraverso la lettura de I sonnambuli di Hermann Broch o l’invenzione di giochi che la aiutino a far passare il tempo, e ne parla al marito.
Lui l’avvicina, mentre fa un giochino che consiste nel far scivolare il suo portacipria avanti e indietro sulla scacchiera del pavimento, cercando di farlo andare il più lontano possibile all’interno del quadrato. Oltre la gabbia, oltre i limiti. «Stasera ero molto triste, poi giocando con te m’era passata. E adesso sento che mi ripiglia. È come la tristezza d’un cane […] A me sembra che l’amore debba limitare una persona, qualcosa di sbagliato che fa il vuoto attorno» – ammette Valentina – «Ma non dentro», risponde Giovanni.
Valentina aspira a una libertà che non sente di possedere. «Io non vorrei udire suoni inutili, vorrei poterli scegliere durante la giornata. E così le voci, le parole, quante parole non vorrei ascoltare. Ma non puoi sottrarti, non puoi far altro che subirle» dice la sua voce registrata in un nastro in cui appunta i suoi pensieri. Pensieri che cancella dal nastro, interprete lei stessa di una continua dinamica di dissimulazione in cui niente vale la pena di essere preso davvero sul serio, nessuna abilità , nessun talento, nessuna intelligenza : «Io sono sveglia, non sono intelligente».

 

Lidia è un personaggio che procede per intervalli, intervalli che presentano la percezione del tempo come spezzature. Costituiscono interruzioni e irruzioni in una serie che si vorrebbe uniforme; designano uno iato temporale, una intermissione, una distanza, una pausa, un salto tra stati diversi, una sosta alla soglia della comunicazione – ciò che appare sulla porta lì dove si apre il dolore per lo spazio della scomparsa.
Lidia, malinconica, ascolta i suoni nascosti nel reale e nel suo girovagare fra i quartieri poveri della vecchia Milano, guarda e accarezza le superfici di vecchi oggetti abbandonati, cercando se stessa in questi spazi dimenticati o  confondendo il suo viso tra quello di ragazzini stupiti per un razzo che va in cielo. Durante questo solitario vagabondare, vede se stessa, le speranze del passato e le disillusioni del presente. Il paesaggio, frantumato in una sequenza di immagini ferme e distaccate.

La donna appare stanca della relazione col marito, che sprofondato nel suo processo di irrigidimento e assuefazione è incapace oramai di interpellarla. Giovanni si limita a seguire i desideri della moglie, accondiscende in maniera automatica, al riparo nella sua coltre umbratile da ogni autentico sentimento. Giovanni – scrittore interessato a raggiungere un pubblico più vasto possibile in antitesi alla radicalità quasi pura dell’amico Tommaso, studioso di Adorno – sembra farsi interprete di una cultura di massa che indica le cose da desiderare “questo è quello che deve interessarti, dice, come se intuisse che gli uomini sono incapaci di trovare da soli ciò che devono desiderare”.
“La vita sarebbe sopportabile se non ci fossero i piaceri” – dice a Lidia in una sequenza del film.
Giovanni è uno scrittore di successo, un intellettuale, probabilmente un egoista.
“Lei si preoccupa soltanto di chi perde. Tipico degli intellettuali: egoisti ma pieni di pietà” lo beffeggia Valentina.
«Ti prego, non minimizzare sempre la mia parte. Posso avere anch’io i miei pensieri» – gli dice la moglie. «In questo momento quali sono?» – «In questo momento non ne ho, ma ne sto aspettando uno. Lo sento venire, è qui» lo canzona. Lidia svelerà questo pensiero alla fine della serata, nel dialogo conclusivo del film quando gli dirà di non amarlo più e di essere convinta che nemmeno lui l’ami più.

«Se stasera ho voglia di morire è perché non ti amo più, sono disperata per questo. Vorrei essere già vecchia per averti dedicato tutta la mia vita. Vorrei non esistere più perché non posso più amarti».

 

Ma “il discorso amoroso è oggi d’una estrema solitudine” e Giovanni insiste nel dichiarare che l’ama, anche se non ricorda nemmeno più di essere stato lui a scrivere le parole della lettera che Lidia legge commossa, seduta accanto a lui, ad alta voce:

“Questo era il piccolo miracolo di un risveglio: sentire per la prima volta che mi appartenevi non solo in quel momento e che la notte si prolungava per sempre accanto a te, nel caldo del tuo sangue, dei tuoi pensieri, della tua volontà che si confondeva con la mia. Per un attimo ho capito quanto ti amavo, Lidia; è stata una sensazione così intensa che ne ho avuto gli occhi pieni di lacrime: era perché pensavo che questo non dovrebbe mai finire, che tutta la nostra vita doveva essere come il risveglio di stamane. Sentirti non mia, ma addirittura parte di me, una cosa che respira e che niente potrà distruggere se non la torbida indifferenza di un’abitudine, che vedo come l’unica minaccia. E poi ti sei svegliata e sorridendo ancora nel sonno mi hai baciato e ho sentito che non dovevo temere niente, che noi saremo sempre come in quel momento: uniti da qualcosa che è più forte del tempo e dell’abitudine”

Parole che, seppure commuovono Lidia,  suonano autocompiaciute: l’amore come specchio: un sentire lei, Lidia, come parte di se stesso e potere, attraverso questo sentimento di amplificazione e rinforzo, illudersi di riuscire a non avere alcuna paura.

“Chi ti ha scritto questa lettera?” – chiede amareggiato Giovanni – “tu” risponde lei. Giovanni emerge così in tutta la sua debolezza, in una mediocre pavidità che non gli consente di dare se non a se stesso: “Non ti ho dato niente. È strano come soltanto oggi mi rendo conto di quanto ciò che si dà agli altri finisca con il giovare a se stessi”. Come osserva Barthes il soggetto non può costruire fino in fondo la sua storia d’amore perché questa storia appartiene agli altri: “L’ altro non scompare mai come e quando ci si aspetta”.

Lidia e Valentina si incontrano. La prima respinge le premure dell’altra. Non si conoscono ed è inutile giocare alle amiche, mimare una complicità. Tuttavia ridono e questo ridere insieme le avvicina. “Mi domando cos’è il mio forte? L’amore no. I vizi nemmeno. Sono piena di vizi senza praticarne nessuno, non mi piace neanche il wiskhy” dice Valentina. “Tu non sai che cosa significa sentirseli addosso tutti gli anni e non capirli più” ammette Lidia. In questo dialogo le due donne si confidano ma il loro linguaggio lungi dal creare una comunità si sgretola nella solitudine. Giovanni, immobile, assiste alla scena senza farsi vedere. Quando Lidia lo nota gli fa cenno di andar via. E dice nuovamente a Valentina che non è per gelosia che ha respinto le sue gentilezze. Eppure proprio il bisogno di dichiararlo, di ribadirlo, di eliminare Valentina dalla scena lascia il sospetto che l’ossessione dello specchio abbia fatto perdere loro l’occasione di andare oltre un soffocante riflesso di se stesse per potere guardarsi l’una attraverso l’altra.

 

Bibliografia

Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi 1979.

Luce Irigaray, Speculum. L’altra donna, Feltrinelli 1975.

Stefano Usardi, La realtà attraverso lo sguardo di Michelangelo Antonioni. Residui filmici, Mimesis 2018.

Saverio Zumbo, Al di là delle immagini. Michelangelo Antonioni, Falsopiano 2002.

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