Studio d’artista: Napoli

 

Dialogo con Elena Manocchio

 

a cura di Ivana Margarese

 

Il secondo incontro a Napoli dedicato agli studi d’artista è con Elena Manocchio, donna dallo stile vulcanico e in continua trasformazione. Accogliente, ironica e generosa seduce come la sua città e la sirena che a quella città appartiene: Partenope.

Elena Manocchio lavora sulla figura di Partenope e la descrive con queste parole:

Una regina bellissima,vestita di broccato e velluto e preziosissimo raso di seta; adorna di ori in filigrane e sottili granulazioni e perle e rubini, diamanti, zaffiri e smeraldi tagliati a cabochon, baguette, marquise, goccia, carrè; profumata di fiori chiari, freschi e leggeri e ambra voluttuosa e profonda, aria frizzante di sale che rallegra le narici.
Una regina raffinatissima, puoi sentirla ragionare coi filosofi, puoi vederla descrivere con le mani i movimenti delle stelle, puoi trovarla a pestare con forza minerali per cacciar fuori un colore e puoi farti raccontare dei suoi amori letterari, puoi chiederle di parlarti della formula algebrica sottesa alla poesia, puoi abbandonarti al suo canto di una melodia lievissima.
Una regina maltrattata, ha graffi sulle guance piene, ha lividi sugli zigomi accesi, ha segni di strangolamento sul collo teso, ha le ossa rotte e i muscoli doloranti, le ginocchia escoriate, i suoi abiti sono pieni di fango, i tessuti sciupati, strappati, sbranati. 


Nella mente ogni giorno ripercorro alcuni brani del suo tessuto viario e mi sforzo di concentrare il ricordo sulle sue forme naturali e l’incanto delle sue pietre, posizionate così perfettamente da sembrare un miracolo, se non fosse che a compierlo è stato un uomo, il medesimo uomo che le strappa i capelli e si fa beffe di lei.

Questa regina ferita e fiera è il teatro della mia vita e questa fortuna mi lascia senza fiato, è un regalo potente che forse non merito.

Io le dedico il mio sguardo innamorato e riconoscente e, per quanto potrò, cercherò di proteggerla e difendere il suo nome che suona meravigliosamente bene in tutte le lingue del tempo e dello spazio.

Puoi raccontarci del tuo studio di lavoro? 

Gli studi degli artisti sono teatri di azione, ricerca, lotta e non diversamente si presenta il mio spazio di lavoro, concepito come una fucina in fieri, luogo di attività incessante e varia, nel quale prendono vita opere grafiche, dipinti, costruzioni effimere, e gioielli.
Circondata da libri, saggi e cataloghi d’arte, barattoli con pennelli e scatole di colori, rotoli di carta e pigmenti, pezzi di legno e pinze, tutti i giorni lavoro al mio tavolo che cambia forma ad ogni nuovo progetto: scrivania utile ad appuntare qualche nota rapida o pensieri più approfonditi o finanche racconti; tavolo per progettare; banco da officina nel quale dare corpo e materia alle idee; supporto da disegno; ripiano da cavalletto per dipingere. La mutevolezza dello spazio è funzionale al processo creativo che caratterizza il mio lavoro: multiforme, incostante, imprevedibile.
Guardo infatti con estrema ammirazione quegli artisti che individuano un’idea, la piantano epazienti, la fanno germogliare. Con cura poi nutrono le sue radici per irrobustirne la fibra, attendono che fiorisca e godono dei benèfici effetti dei frutti, lucidano la sua superficie fino a farla risplendere assecondando la natura di quella visione purissima, perfetta, sulla quale costruiscono una filosofia che li accompagnerà per sempre.
A me invece le idee scrosciano addosso a ondate violente, schiaffi sonori ai quali devo reagire subito per non perdere quel tumulto selvaggio che mi porta in un luogo nuovo che non posso mai prevedere. É lì che mi devo trovare, e in nessun altro posto, perché un’altra idea mi porti di nuovo altrove. Il mio studio mi consente di essere nel mio posto e allo stesso tempo in un altrove artistico che posso sperimentare solo trasferendomici per qualche tempo.


Raccontaci del tuo percorso artistico

Quarantaquattro anni fa nascevo in una bella casa del centro di Napoli, stracolma di librerie e tubetti di colore. Potevo diventare un’insegnante o forse un matematico e invece ben presto ho cominciato a disegnare. Non ho mai smesso, nemmeno quando ho letteralmente sistemato le matite in archivio per dare spazio alla ricerca storica, allo studio dei segni, alla comprensione dei linguaggi degli artisti che nella storia hanno reso questo mondo un posto piuttosto interessante.
Mi sono laureata in Conservazione dei Beni Culturali con una tesi sui soffitti lignei intagliati e dipinti a Napoli fra Cinque e Seicento per poi specializzarmi in Beni Storico Artistici con profusione di lodi e molta curiosità ancora da soddisfare.
Dopo aver partecipato energicamente alle attività di ricerca della mia Università, collaborato all’organizzazione di un’importante mostra al Museo del Tesoro di San Gennaro, lavorato presso la Soprintendenza e altri Istituti nati col precipuo compito di conservare, valorizzare, raccontare la storia dell’arte, ho svuotato sul tavolo tutto il bagaglio di cose trovate per la strada in quella meravigliosa avventura di scoperte e studi e ho cominciato lentamente a mettere ordine.
Quanto anni di studio e lavoro mi hanno insegnato è che quella artistica è da principio una ricerca su sé stessi, fatta con gli strumenti che si hanno a disposizione, nel tempo che è necessario. Tanto mi è bastato per ricacciar fuori dall’archivio le matite, i pennelli e altri strumenti e ricominciare a disegnare, dipingere, architettare, costruire, fare. Il percorso di ricerca che perseguo è affatto libero e fluido, declinato com’è attraverso tecniche diverse: ogni tecnica artistica è infatti portatrice di un linguaggio funzionale all’espressione di un valore preciso, speciale, insostituibile e che, una volta affiorato dall’esperienza di vita, non può essere taciuto.
L’acquerello, per esempio, ha la virtù di raccontare senza sforzo la liquidità, dote femminile, del corpo e dello spirito. Il sottile pigmento colorato, veicolato nell’elemento acquoso, si propaga sulla carta fondendosi completamente con la materia, restituendo all’occhio delicate trasmigrazioni cromatiche, complesse trasparenze, potenti trascendenze.
Il Carbonio, in forma di grafite, è l’elemento chimico α, l’archetipo di ogni manufatto artistico. La chimica del Carbonio si dice Organica perché legata alla natura e alle sue funzioni generative. Dunque il carboncino, opaco e impalpabile, è la tecnica perfetta per costruire i volumi, plasmare le profondità, definire, attraverso sfumature evanescenti, le tre dimensioni sulla superficie piatta del foglio di carta.
L’olio, robusto e solido è la tecnica del pensiero rimeditato, delle attese, delle stratificazioni.
Il pastello è costituito da una materia grassa, opulenta, capace di restituire sul supporto cartaceo la morbidezza, la scioglievolezza, ma anche la vivacità, la fierezza del colore.
La carta come materiale da costruzione, perdendo il ruolo di supporto figurativo, svela le potenzialità dell’architettura effimera che, libera da formule fisico-chimiche necessarie all’architettura tout court, crea volumi leggeri e immaginifici, erige forme sperimentali, luoghi abitati dalle ombre e dalle luci delle idee che le hanno generate.

Quanto la tua ricerca artistica ha a che fare con il concetto di spazio?

Nella mia ricerca artistica lo spazio si manifesta attraverso due concetti distinti ma profondamente connessi: volume e luogo.
Lo spazio inteso come volume è per me un pensiero geometrico di grande suggestione e provo ad esprimerlo tramite la costruzione di forme tridimensionali, che esse siano sculture e architetture di carta oppure gioielli in legno e argento del mio brand, Poliedrica. Le forme nello spazio fisico, abitabile o addirittura ‘indossabile’, prendono vita attraverso la luce e la materia atmosferica e organica e interagiscono con l’ambiente in modo del tutto imprevedibile, essendo esse strutture mobili e trasportabili in altri luoghi.
Lo spazio inteso come luogo ha una connotazione molto più complessa, essendo questo inteso come crogiolo di esperienze molteplici e variamente interagenti con chi lo abita. Uno spazio-luogo è la città, una casa o anche un museo. A tale spazio-luogo è legato il progetto DR5 che, col Poliedrica,ho realizzato per il Museo Madre (Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina) di Napoli.
Alcuni anni fa mi trovai a lavorare per qualche mese in quello straordinario luogo dell’arte ed ebbi così l’occasione di trascorrere diverse ore nelle sale del museo, immersa dentro al racconto diretto delle opere dei più grandi artisti del nostro tempo. Prese forma ben presto DR5, (sigla che indicava il turno lungo di lavoro), un progetto di ampio respiro che nasce dal dialogo fra l’arte e il suo luogo, fra contenuto e contenitore in una felice condivisione che ha portato alla creazione di una capsulecollection di gioielli ispirati a tre opere fondamentali per l’arte a Napoli, nello specifico: Spirits di Rebecca Horn, Giuditta e Oloferne di Richard Serra e Dittico rosa di Ettore Spalletti.
L’idea era quella di mettere in una forma diversa, portabile (quella del gioiello), la riflessione sull’arte compiuta sul luogo nel quale essa stessa si manifesta e comunica col pubblico.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Negli ultimi tempi ho preso a scandagliare il mondo del libro d’artista e, insieme alla collega Maria Infante, abbiamo intrapreso un percorso di ricerca nel quale indaghiamo sulle potenzialità espressive di questo particolare oggetto d’arte e di come questo possa essere fruito dal pubblico attraverso laboratori artistici dedicati, studiati con cura per un pubblico adulto e per quello dell’infanzia. Il progetto nasce col precipuo intento di unire il tema del racconto alle tecniche della legatoria, la lavorazione della carta al suo utilizzo in chiave espressiva e narrativa. Questo lavoro è stato messo a fuoco e sperimentato lo scorso anno col titolo di ‘Sculture tascabili, viaggio nel libro d’artista’, un workshop che nella prossima edizione si arricchirà di nuovi temi e nuove forme creative. L’obiettivo dei prossimi mesi è quello di rendere il workshop itinerante, con una destinazione d’elezione negli ambienti museali nazionali, allo scopo di raccogliere le esperienze di uomini e luoghi diversi e nuovi.

Elena mi ha fatto omaggio di alcuni suoi pensieri sugli studi degli artisti. Li ho trovati belli e ho scelto di condividerli, con la speranza che altri messaggi “in bottiglia”, venuti fuori da altro tempo e altri luoghi possano emergere e dialogare, e creare correnti:

Gli studi degli artisti sono sporchi e pieni di cose. Sono luoghi polverosi e puzzano di trementina, colla animale, acquaragia, rancido dell’olio di una lampada abbandonata su una mensola.
L’aria è satura di gesso, pigmenti fini, pietre macinate in sottilissimo pulviscolo che ti entra nelle narici e là rimane per sempre: lo vedi nitidamente fluttuare nelle fasce luminose che si irradiano violente dai balconi, dalle finestre, dai lucernari nel primo pomeriggio.
Su uno sgabello puoi trovare una colomba e sentire il suo canto gutturale inondare a singhiozzi l’invaso della sala stipata di cose e, con quelle note basse, organiche non perdere l’occasione di accordare la chitarrina senza corde appoggiata a terra. Proprio lì accanto, in fila disordinata e inquieta, fai attenzione alla serie multiforme di vasi vuoti e sonori e una maschera antica, di una vecchiaia recondita, ancestrale di luoghi remoti seppur presenti, nuovi e vigili come gli occhi che vi si posano sopra, ogni buona volta.
Sugli scaffali, a pennellate, troverai grumi di colore dai quali è stata grattata via, in un reticolo di graffi sottili di unghie affilate, la patina che il tempo ha regalato loro per proteggere la materia dall’atmosfera corrosiva e feroce e contenere il nucleo aureo della loro sostanza.
I pennelli sono serrati nelle scatole di latta delle conserve, del caffè, del riso prezioso e filtrano l’aria con le loro setole dure screziate di cobalto o giallo di Napoli o Vermiglione e grigio polvere della strada. Ovunque sulle pareti bozzetti, studi, disegni, i più brutti in bella mostra, per sbagliare diversamente domani.
Tutte queste cose nei musei non le vedi, a meno che tu non stia molto attento.

Georges Braque, Atelier VI 1951, collezione privata

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