Il corpo in cui sono nata

di Ivana Margarese

 

Il corpo in cui sono nata (La nuova frontiera 2022, traduzione di Federica Niola) è il secondo romanzo della scrittrice messicana Guadalupe Nettel, edito da Einaudi nel 2014 e ripubblicato quest’anno da La nuova frontiera. La voce narrante del libro è quella di una bambina e il corpo, con tutte le sue peculiarità e imperfezioni, è il suo protagonista:

Finalmente, dopo un lungo periodo, mi ero decisa ad abitare il corpo in cui ero nata, con tutte le sue particolarità. In fin dei conti era l’unica cosa che mi apparteneva e mi vincolava in modo tangibile al mondo, e insieme mi consentiva di distinguermene.

Il racconto autobiografico di Nettel intreccia la storia familiare col contesto storico degli anni Settanta e riflette su molteplici temi e, in particolare, sulle idee che imponiamo agli altri e a noi stessi come “verità” incontestabili. La donna, oramai adulta, racconta alla sua analista, la dottoressa Sazlavski, i suoi pensieri e le sue emozioni da bambina che passa da una educazione “libera” in casa  con i genitori a quella più rigida e vecchio stile della nonna, con i suoi stereotipi di genere per ciò che concerne i comportamenti femminili ma pronta, quando la nipotina decide che il suo sport preferito è il calcio, a darle una mano a riscattarsi. Dopo la separazione dei genitori la protagonista e suo fratello fanno esperienza delle diversità educative dei genitori e come semplicemente fanno i due bambini si adattano, come ci si adatta alla vita, quasi si trattasse del clima di due città in cui ci si trova ad abitare in uno stesso periodo:

Credo che né mio fratello né io giudicassimo le due diverse realtà in cui ci trovavamo a seconda dei momenti. Al contrario, ci adattavamo indifferentemente ai due sistemi di valori, senza metterli in discussione, come ci si adatta al clima di due città diverse dove si abita nello stesso periodo.

È un racconto a se stessa che Guadalupe Nettel condivide con i lettori. La scrittrice, durante la scrittura del romanzo, è in attesa del suo primo figlio e sente l’esigenza di elaborare i suoi vissuti infantili. Il testo, nato in un primo momento per rispondere alla richiesta di una rivista che stava raccogliendo autobiografie precoci di giovani scrittori, si sviluppa ulteriormente per dare ascolto e forma a una vicenda personale, nel tentativo di riunire insieme ciò che sfugge, i ricordi che ci rendono ciò che siamo, sospesi tra ciò che abbiamo vissuto e ciò che abbiamo immaginato.
Ingeborg Bachmann, nel saggio “L’io che scrive”, ora raccolto in Letteratura come utopia, dice: 

«Un Io senza garanzie! Che cosa è l’Io, infatti, che cosa potrebbe essere? Un astro di cui posizione e orbita non sono mai state del tutto individuate e il cui nucleo è composto di sostanze ancora sconosciute. Potrebbe essere questo: miriadi di particelle che formano un «Io», ma al tempo stesso l’Io potrebbe essere un nulla, l’ipostasi di una forma pura, qualcosa di simile a una sostanza sognata, qualcosa che definisce una identità sognata, cifra di qualcosa che è più faticoso da decifrare del più segreto dei codici».

Nel romanzo alla voce della protagonista si intreccia una pluralità di voci, con le loro speranze, ambizioni, desideri e fallimenti: i genitori, il fratello, la nonna, gli amici, i primi confusi amori e Betty, l’amata cagna. L’origine di questo racconto risiede nella necessità di comprendere  fatti e dinamiche che hanno dato forma all’amalgama complesso, al mosaico di immagini, di ricordi e di emozioni “che respira con me, ricorda con me, interagisce con gli altri e si rifugia nella penna come altri si rifugiano nell’alcol o nel gioco”:

Molte persone e molti luoghi che componevano i miei paesaggi ricorrenti sono scomparsi con una naturalezza sconvolgente, e quelli che sono rimasti, a forza di accentuare le loro nevrosi e le loro espressioni facciali, sono diventati la caricatura di ciò che erano un tempo. Il corpo in cui siamo nati non è lo stesso in cui lasciamo il mondo. Non mi riferisco soltanto alle cellule che mutano un’infinità di volte, ma ai suoi segni distintivi, ai tatuaggi e alle cicatrici che con la nostra personalità e le nostre convinzioni aggiungiamo via via, per tentativi, meglio che possiamo, senza guida né indicazioni.

 

Il corpo in cui sono nata è un racconto intimo che Nettel offre ai lettori con l’attenzione, la profondità, e al contempo la leggerezza che la contraddistinguono.

“A volte mi viene da dubitare di tutta questa storia, come se invece di un vissuto fosse un racconto che ho ripetuto a me stessa un’infinità di volte”.

L’autrice si muove con facilità tra una visione realista e una visione quasi fantastica della vita. Uno sguardo al quotidiano che si intreccia con elementi di fantasia, con codici privatissimi che rendono straordinario ciò che si vive ogni giorno. Un altro elemento presente nel romanzo è la fascinazione per gli insetti, sia per la loro posizione marginale nella vita degli umani, sia per la loro capacità di adattarsi in un mondo in continua evoluzione. Possiamo rilevare un riferimento a Cortazar e in particolare al Kafka de La metamorfosi :

Mia madre sembrava così ossessionata da quella mia tendenza a incassare la testa nelle spalle da arrivare a trovarle un soprannome o “nomignolo affettuoso” che, secondo lei, si adattava perfettamente al mio modo di camminare. «Scarafaggio!» gridava ogni due o tre ore, «Raddrizza le spalle!» «Scarafaggino, è ora di mettere l’atropina.» Voglio che mi dica senza troppi giri di parole, dottoressa Sazlavski, se un essere umano può uscire indenne da un simile trattamento. E se è possibile, perché non è stato così per me? A pensarci bene, non è poi così strano. Sono molte le persone che durante l’infanzia vengono sottopo- ste a un regime correttivo che non risponde ad altro se non alle ossessioni, più o meno arbitrarie, dei genitori:“Non si parla così, ma in quest’altro modo.” “Non si mangia così ma in quest’altra maniera.” “Non si fanno quelle cose ma queste altre.” “Non si pensa quello ma quest’altro.” Forse la conservazione della specie consiste proprio in questo, nel perpetuare, sino all’ultima generazione di esseri umani, le nevrosi degli antenati, le ferite che ereditiamo come un secondo corredo genetico.

L’arte di dissimulare è sempre stata una delle grandi armi che possiedono i trilobiti e la dissimulazione talvolta è necessaria per sopravvivere alle amarezze, agli irrisolti, alle perdite e agli incontri mancati. Il dolore resta nella nostra coscienza come “una bolla d’aria con l’interno intatto, in attesa di essere evocato o, nel migliore dei casi, tirato fuori”. Scrivere è un modo per elaborare, per rinnovarsi, per guardare meglio noi stessi e il corpo in cui siamo nati, un corpo che – come ricorda Adriana Cavarero (Inclinazioni. Critica della rettitudine (Raffaello Cortina Editore, 2013) – è ciò attraverso cui possiamo apprendere la nostra vulnerabilità, il nostro essere curvi, inclinati verso qualcosa che ci scalza.

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