Leonora Carrington, Il latte dei sogni

di Ginevra Amadio

Attorno alla casa  c’è quest’oceano che tu conosci.

E che mai non riposa

Guillaume Apollinaire, Oceano

 

Scrittrici come Leonora Carrington sembrano nascere per mettere in crisi i generi, per abbattere le categorie. Anche quando si ha l’impressione di averne disinnescato i meccanismi la sua prosa – come del resto la sua arte – continua a esploderci tra le mani, segno inequivocabile di un perenne dinamismo, di uno scavalcamento degli orizzonti d’attesa.

Come già Il cornetto acustico (Adelphi, 1974) o i torbidi racconti de La debuttante (Adelphi, 2018) anche Il latte dei sogni (Adelphi, 2018) compendia quell’attitudine funambolica che fa di Carrington un’autrice anarchica, libera nell’espressione e nell’immaginazione. Nato attorno ai disegni che ornavano una delle stanze della sua casa messicana, quest’agile volumetto altro non è che un insieme di storie assurde, pensate e illustrate dalla stessa Leonora per i due figli Gabriel e Pablo.

Dell’opera esistono in realtà due versioni messe a punto dall’editore Fondo Cultura Económica: la prima, più artistica, è il calco di un album conservato da Alejandro Jodorowky e donato – dopo la morte dell’autrice – al figlio Gabriel Weisz; l’altra, quasi un breviario illustrato, presenta le storie in maniera ordinata, con la riproduzione di alcune illustrazioni in bianco e nero. È quest’ultima che Adelphi pubblica in italiano con la traduzione di Livia Signorini da cui discendono titolo e tema della Biennale Arte 2022, che si svolgerà dal 23 aprile al 27 novembre (e in pre-apertura il 20, 21, 22 aprile) ai Giardini, all’Arsenale e in vari luoghi di Venezia.

La curatrice Cecilia Mangini ha motivato così la scelta:

«La Mostra prende il nome da un libro dell’artista surrealista Leonora Carrington (1917-2011), che negli anni Cinquanta in Messico immagina e illustra favole misteriose dapprima direttamente sui muri della sua casa, per poi raccoglierle in un libricino chiamato appunto Il latte dei sogni. Raccontate in uno stile onirico che pare terrorizzasse adulti e bambini, le storie di Carrington immaginano un mondo libero e pieno di infinite possibilità, ma anche l’allegoria di un secolo che impone sull’identità una pressione intollerabile, forzando Carrington a vivere come un’esiliata, rinchiusa in ospedali psichiatrici, perenne oggetto di fascinazione e desiderio ma anche figura di rara forza e mistero, sempre in fuga dalle costrizioni di un’identità fissa e coerente»

 

In effetti il libro presenta una galleria di personaggi bizzarri, di creature ibride e mostruose che impongono uno slittamento dal quotidiano all’assurdo: una signora dall’abito color carbone che piange lacrime simili a pappagallini; una vecchia megera che spaccia pezzi di carne viva e parlante; un uomo con due facce intento a cibarsi di mosche. È una sorta di campionario del grottesco, in cui la fusione di sogno e veglia – momento di per sé delirante – è ribaltato da Carrington in occasione conoscitiva, nel solco di un’infanzia come luogo libero, depurato dalle norme.

Qui, come direbbe James Hillman, «il sogno, liberato da qualsiasi residua accezione romantica, si riempie di tonalità notturne, di immagini appartenenti al regno degli inferi, dell’Ade». È questo probabilmente il motivo per cui le storie de Il latte dei sogni sembrano popolarsi di persone nere, come la vecchia che perseguita i bambini e taglia loro la testa, o la donna con «neri i pigiami e pure il sapone». Per Hillman queste figure sono «fantasmi che ritornano dall’oltretomba rimosso […]. E poiché vengono dal regno della morte, furtive nella notte, è naturale che ci terrorizzano».

Quelle di Leonora Carrington hanno però qualcosa in più, escono dai binari della normatività avvolti da falde di afflizione o maldicenza, di tenerezza o carità. Viene in mente Anna Maria Ortese, che con l’artista-scrittrice ha vari punti di contatto, a cominciare dall’isolamento e dalla concezione di realtà:

«Non posso più avere contatti con la realtà. La realtà mi stanca, la realtà è un muro di volti. Io sono una persona isolata. Mi sembra di venire dal fondo delle tenebre, però sì, ho avuto il piacere di fare qualcosa, di poter dire: io esisto».

 

 

Come ne Il mare non bagna Napoli (1953) in cui si mescolano echi barocchi e suggestioni espressioniste (senza contare i riferimenti ad Edgar Allan Poe), anche ne Il latte dei sogni converge un immaginario “malato” a cui Carrington oppone una via di fuga nella “redenzione” del diverso, in quel suo farsi strumento di diffrazione della normatività sociale.

I suoi personaggi vivono situazioni di totale stravaganza, in cui con naturalezza si passa dagli arti tagliati alla ricomposizione scomposta degli stessi, da avvoltoi scambiati per frutta a case al posto della testa. Ancora una volta risuonano echi dell’Ortese, che nell’ultima fase della sua produzione – la trilogia delle bestie-angelo – raggiunge l’apice dell’inventività surrealista ponendo al centro i diversi, «coloro che videro il cielo, che mai lo dimenticarono, che parlarono al di sopra dell’emozione, dove l’anima è calma».

Così è ne Il latte dei sogni, prolungamento coerente della pittura di Carrington e congegno in cui il linguaggio infantile, onirico e “psicotico” si fondono attingendo allo stesso pozzo, quello dell’inconscio. È il sintomo di una diversa concezione del sogno, e di un’infanzia ben raccontata da Gaston Bachelard:

«Permane nell’anima umana un nucleo infantile, una infanzia immobile, ma viva, fuori dalla storia, nascosta agli altri, travestita da storia raccontata e reale solo nell’esistenza poetica. La cosmicità dell’infanzia rimane in noi. La “rêverie” infantile, il fantasticare solitario del bambino conosce esistenze senza limiti».

 

Bibliografia

Gaston Bachelard, La poetica della rêverie, Bari, Dedalo, 1972.

Leonora Carrington, Il latte dei sogni, Adelphi, 2018.

Silvana Cirillo, Sulle tracce del surrealismo italiano (flâneurs, visionari, sognatori), Padova, Hesedra, 2016.

James Hillman, Saggi sul puer, Milano, Cortina, 1988.

Francesca Lazzarato, Nessuno può sfuggire alla propria infanzia, in “Alias – il manifesto”, 23 dicembre 2018.

Anna Maria Ortese, Il male freddo, intervista a Goffredo Fofi, in “Linea d’ombra”, 117, 1996.

Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli, Adelphi, 2003.

 

 

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