Zebù bambino. Dialogo con Davide Cortese

di Giorgio Galli

 

immagini fotografiche di Iness Rychlik

 

 

Zebù bambino è un poemetto che Davide Cortese ha dedicato all’amico poeta Gabriele Galloni, scomparso improvvisamente in giovanissima età. È composto di brevi strofe che hanno l’andamento e il tono della filastrocca, ma di una filastrocca intrisa di black humor. “Scoccano insieme / la mezzanotte e il mezzogiorno”, dichiarano i primi due versi: come se luce e tenebra convivessero pacificamente, come se l’una non tentasse di negare l’altra. Zebù bambino fa evidentemente il verso a Gesù bambino, ma non lo nega: semplicemente è un’altra cosa. La sua vita si svolge parallela a quella di Gesù, solo che Zebù è un diavoletto:

 

«Disegna angeli bianchi

il diavolo bambino

poi li accartoccia tutti

gli dà fuoco con l’accendino.

“Solo angeli neri”, dice

guardando bruciare la luce.»

Sembra che Zebù si impegni a stare dalla parte dell’oscurità, che la sua sia una gioiosa scelta di stare dalla parte sbagliata -ammesso che giusto e sbagliato siano categorie che hanno senso nell’universo espressivo di questo poemetto.

La natura demoniaca di Zebù è dichiarata con allegria:

«Nei suoi lascivi giochi

si accompagna a dannati rei

che sebbene lo conoscano

chiedono “chi sei sei sei?”»

 

Quando viene la sera Zebù si intrattiene in curiosi giochi, come quello di spiare i genitori di Gesù nell’intimità, ma soprattutto giunge le mani, finge di essere pio e “gioca ai funerali di dio” -un dio con la minuscola. È una favola demoniaca in sedicesimo che ricorda L’histoire du soldat di Stravinsky quella che Davide Cortese mette in scena. Ed io trovo che Zebù sia una delle creature più candide, più innocenti della poesia italiana recente proprio per questa sua naturalezza dell’essere se stesso, per questo suo dichiarato candore di demone.

 


Caro Davide, il tuo Zebù bambino è una bella lenza: “Gioca ai dadi con le bambole / il piccolo Zebù. / A una ha dato il nome / della madre di Gesù. / Tatua fiori di melo e serpenti / sul seno di plastica di Maria. / Poi rosicchia quel seno coi denti. / Succhia il latte che finge vi sia”. Vorrei chiederti: che rapporto c’è col Gesù bambino dei Vangeli apocrifi, che viene a volte descritto come una figura non del tutto “bianca”, come un piccolo dio che ha difficoltà a controllare il suo potere?

Sarò lapidario: nessun rapporto. Ma mi fa piacere che Zebù evochi anche le pagine dei Vangeli apocrifi.

Tu scrivi: “Canta ingenue canzoni / il piccolo Zebù. / Parlano di santoni / che annegano nel blu. / Dall’abisso tendono mani / che già non si vedono più”. Non riesco a evitare, leggendo di queste mani che scompaiono mentre si tendono e “annegano nel blu”, di pensare al destino dei migranti, reietti della terra, demoni involontari del contemporaneo. Il demonietto Zebù sembra essere il rimosso dalla nostra epoca eufemistica, così come i migranti sono i rimossi dal nostro orizzonte di benestanti. È corretta questa mia impressione?

La tua impressione è corretta. Pensavo proprio ai migranti quando ho scritto quei versi, e con le “ingenue canzoni” alludevo alla colpevole leggerezza con cui ormai si parla delle loro vite.

A un certo punto nel tuo poemetto compare un “io” -che fa rima addirittura con “dio”, rigorosamente con la minuscola. È l’unica volta che compare questa parola, che molti vorrebbero abolire dalla poesia contemporanea. Che ruolo ti sei dato all’interno del poemetto, a parte quello ovvio di autore? Che tipo di spazio ti sei ritagliato dentro la tua opera?

In quell’unico testo in cui compare la parola “io”, il mio ruolo è quello di compagno di giochi di Zebù. Nel testo regalo al demone bambino una scatola di bambù. E quello che lui decide di metterci dentro è esemplificativo della sua natura.

Zebù è dispettoso, ma ”A chi aspramente lo rimprovera / per qualche suo scherzo atroce / ‘L’ho imparato dagli uomini’ / ogni santa volta dice.” Trapela un giudizio non proprio positivo sul genere umano. Ti chiedo: l’ironia di cui il poemetto è permeato è un’ironia pessimistica? Che giudizio hai tu, Davide, dell’essere umano, e in particolare di quello della nostra epoca?

La natura dell’uomo – l’umano – desta in me amore e compassione per le sue imperfezioni, per i suoi limiti, per la sua fallibilità e per il suo ineludibile destino. Credo che questa natura dolente meriti il perdono.  L’uomo è, certo, capace del male, ma intimamente aspira sempre al bene, questo io voglio credere. Nessun pessimismo, quindi.

 

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