“Tutta la terra che ci resta”. Poesie di Silvia Rosa

di Franca Alaimo

 

Immagini fotografiche di Susan Derges

 

Il noto poeta e critico Elio Grasso, nello scrivere la prefazione a Tutta la terra che ci resta di Silvia Rosa, cuce addosso alle parole della poetessa un abito così perfetto da lasciare poco spazio a considerazioni diverse. Bisognerà osservare ciò che sta sul piatto più leggero della bilancia per dire qualcosa che riguardi comunque il libro in questione fino a tracciare un cerchio sicuramente più piccolo, ma, spero, necessario.
Silvia Rosa ci aveva avvertito, prima di dare alle stampe il libro, di avere scritto qualcosa di diverso rispetto alle sue precedenti pubblicazioni. Ed è vero, ed allo stesso tempo non lo è.

 

 

La sua poesia continua, infatti, ad avere quella appassionata glacialità che l’ha sempre contraddistinta, nel tentativo di evitare traboccamenti emotivi e raccontare con la maggiore lucidità possibile e assoluta concentrazione quanto sta davanti e dietro l’occhio. Il suo modo di curvarsi a considerare le proprie ferite interiori somiglia alla memoria di una tempesta già sedata che però lascia il suo boato nell’orecchio; allo stesso modo, in questo suo ultimo libro, Rosa fa uso dei linguaggi della tecnologia e delle scienze biologiche come di altre discipline, così come di un dettagliato e contemporaneo apparato iconico-rappresentativo (cosa assai rara nella poesia femminile), per indebolire la forza emotiva di uno smarrimento profondo. La sensazione che ne deriva è la stessa: un movimento conoscitivo che attesta la solitudine creaturale e la corrente crudele del vivere.
Silvia, in questa raccolta, invece che aggirarsi tra le macerie della sua infanzia, si muove tra oggetti dello spazio esterno, alienanti, duri, soffocanti, senza altro colore che il grigio, a cominciare dal cielo, che ha a che fare con il ferro, velature di piombo, nebbie, piogge monotone, cancellate ogni vividezza cromatica, ogni lucentezza gioiosa. E lei, nell’uno e nell’altro caso, sembra simile ad una statua ferma sotto l’ombra del dolore e/o del nulla che incombe.
Eppure ci sono fessure nel suo pensiero, irruzioni immaginative, frammenti memoriali, che persistono nel tentativo di dare senso e significato alla vita, segnalando la resistenza di zone intatte di fiducia, il che significa, di conseguenza, sottrarre sé stessa e la poesia all’autodistruzione, riportando la seconda a quella funzione di riparazione, su cui scrisse con grande incisività il poeta irlandese Seamus Heaney, che conclude il saggio Frontiere della scrittura con questa affermazione: «dentro di noi come individui possiamo riconciliare due ordini di conoscenza che potremmo chiamare pratica e poetica; affermare anche che ciascuna delle due forme di conoscenza ripara l’altra, e che la frontiera che le divide è lì per essere attraversata».
Se all’interno dell’opera ricorrono tante domande, è perché la scrittrice non rinuncia a cercare; e non importa che non esistano risposte, ma che si continui ad interrogare, a non uccidere la parola poetica nella disperazione di una eliotiana waste land, accettando l’inconveniente di sfilare / come una preda commossa in un’arena di pollici versi.
L’ultima poesia della sezione “Ma dove trovare riparo”, che suona, nei testi iniziali, come una sgomenta mancanza di salvazione, finisce con il trasformarsi in un’indicazione positiva grazie ad una manciata di versi che celebrano la rinascita della vita sia pure tra oggetti di discarica: presi a guardare / di nuovo all’intorno le foglie emergenti, / tra un’antenna di fiori e una biocella / di compostaggio, il riavvio del sistema / tramutato casualmente in una rinascita.
Ma potremmo aggiungere altri oggetti del pensiero nel piatto della bilancia rimasto in basso, come si diceva all’inizio: ed eccoli, allora: il volo di un passero, la musica che fa l’acqua nel silenzio; le cose, i gesti, i caldi sentimenti che ci lasciano i defunti, un buco di quiete e fogliame in città, certi cari oggetti in disuso che ci parlano della nostra Storia, ma anche i desideri: toccarsi, gustare il sapore di un gelato alla fragola, nutrire ancora il sogno del Sogno, gioire della vitalità dei colori, guardare un cielo luminoso e turchino che ci ricongiunga agli dei, alla loro felice partecipazione alle cose della creatività umana.
Sì, è vero, sono spie esili in mezzo alla devastazione, ma pur sempre aperture verso la bellezza e l’umanità dei sentimenti, se non effettivamente indicati, almeno presupposti come cuciture possibili delle ferite. In fin dei conti Tutta la terra che ci resta ha ancora bisogno del nostro amore per ritornare ad essere un vagheggiamento del paradiso, piuttosto che una spaventosa concretizzazione dell’inferno.
Ancora una volta Silvia Rosa ci raggiunge potentemente con un urlo di spavento e di ribellione amorosa.

 

“Tutta la terra che ci resta” (Vydia Editore) di Silvia Rosa

 

Dalla sezione: Prima della pioggia

 

All’estremità della notte le occhiaie

ci confortano, piccole chiazze di lune

piene sul volto. La redenzione del tunnel,

con i suoi boati corvini e le falene-bussole,

è una strada d’alluminio che accoglie

i nostri fantasmi, a 150 km orari.

Il roseto di abbagli ed errori resta fuori

da questa griglia di Hermann: le fucilate

degli antinebbia e i rimpianti sono espunti

da un elenco di cifre binarie, o bianco o nero.

 

Manca profondità a questo andare,

uno sguardo d’insieme, il talento

di sopravvivere alle lesioni del buio

 

 

Dalla sezione: Dove finisce la terra

Non è chiaro se dopo nebbie fossili

e giorni di Nigredo, se dopo tutti

gli abbandoni in cui ci siamo persi,

arriveremo alla zolla dell’aurora

o al margine radioso d’un suburbio

con blocchi di edifici in successione,

una schiera di giganti cenerini

che roteano l’occhio dei balconi

verso l’antenna 5G puntata a Est

 

L’impasto di paure nello stomaco

e gli sguardi strabici, un’infinita nausea

a orientare i nostri passi ondivaghi:

sapessimo trovare una stazione

di servizio, almeno, dove mettere

a sedere ciò che resta del presente,

dargli un alibi per colazione,

mentre cerchiamo di inviare

a chi è rimasto indietro le coordinate

esatte della nostra posizione

 

(siamo a 74 centimetri circa

da qualsiasi morte capiti in sorte)

 

 

Nessuna descrizione disponibile.

Biografia

Silvia Rosa nasce a Torino, dove vive e insegna.

Laureata in Scienze dell’Educazione, con una specializzazione in educazione e formazione degli adulti e un master in didattica dell’italiano L2, ha frequentato il corso di storytelling della Scuola Holden. Suoi testi poetici e in prosa sono presenti in diversi volumi antologici, sono apparsi in riviste, siti e blog letterari e sono stati tradotti in spagnolo, serbo, romeno e turco. Tra le sue pubblicazioni: le raccolte poetiche Tutta la terra che ci resta (Vydia Editore 2022), Tempo di riserva (Giuliano Ladolfi Editore 2018), Genealogia imperfetta (La Vita Felice 2014), SoloMinuscolaScrittura (La vita Felice 2012), Di sole voci (LietoColle Editore 2010 – II ediz. 2012); l’antologia foto-poetica Maternità marina (Terra d’ulivi 2020), di cui è curatrice e autrice delle foto; il saggio di storia contemporanea Italiane d’Argentina. Storia e memorie di un secolo d’emigrazione al femminile (1860-1960) (Ananke Edizioni 2013); il libro di racconti Del suo essere un corpo (Montedit Edizioni 2010). È vicedirettrice della rivista digitale “Poesia del nostro tempo”, redattrice della testata online “NiedernGasse”, collabora con la rivista “Margutte”, con l’annuario di poesia «Argo» e con il quotidiano «il manifesto». Si è occupata del progetto di traduzione poetica e interviste di alcuni autori argentini, dal titolo Italia Argentina ida y vuelta: incontri poetici, pubblicato nel 2017 in e-book (edizioni Versante Ripido e La Recherche). È tra le ideatrici del progetto “Medicamenta – lingua di donna e altre scritture”, che propone una serie di letture, eventi e laboratori rivolti a donne italiane e straniere, lavorando in un’ottica psicopedagogica e di genere con le loro narrazioni e le loro storie di vita. Conduce laboratori utilizzando le metodologie autobiografiche, apprese nei corsi tenuti da Lucia Portis della Libera Università di Anghiari, insieme alla poesia terapia, di cui ha scritto per la rivista “Poetry Therapy Italia”.

No Comments

Post A Comment