Sintesi dalle radici. Il dialogo intimo nei versi di Antonia Santopietro

 

di Ivana Margarese

 

Immagini di Helene Schjerfbeck

 

 

La fata, presso la quale si ha diritto a un desiderio, c’è per ognuno.

Solo pochi però riescono a ricordarsi il desiderio che hanno espresso;

così, nel corso della loro vita, solo pochi si accorgono che si è realizzato.

Walter Benjamin

 

La vita sulla terra

Non era roccia,

quercia o larice,

ma sabbia e vi

scrissi

con le unghie

sorgenti

una lunga prigione

 d’ametista.

Il foglio arbusto

forte mi regge

 mi arroventa gli

zigomi,

gli occhi sono

calcina,

le labbra rose

bocciolo

le gambe

architetture

antiche

le mani grappoli

d’uva

il

racconto

appassisce

tradito un

migliaio

di buone

volte.

 

 

 

 

 

 

Sintesi dalle radici sin dal titolo svela un gesto di raccolta, un’azione di messa in ordine “dalle radici” di vissuti che scalciano e scappano dalle mani. Frammenti scomposti a cui è necessario offrire riparo. 

Antonia Santopietro sceglie con un atto di gratitudine di comporre, per non debordare, geometrie poetiche e indolenti:

In piedi di fronte allo specchio
pensai che non fosse un male
avere più lentezza.

 

L’amore per la sintesi, per “le linee assomiglianti a dimore affollate e confuse” la conduce alla poesia, ma il dialogo intimo con se stessa apre la porta alla fatica di una assoluzione, rallentata da rimproveri o proteste e dallo sperimentare sottrazioni e infinite consecuzioni di tempo, in attesa di una fioritura che più che al futuro appartiene a un balenare del passato, di cui nel presente resta un’orma.
Il futuro è alle spalle potremmo dire citando Hannah Arendt e non a caso ricordare consiste nel “portare alla luce”, nel dissotterrare e condurre al presente il passato, impronta con desiderio di qualcosa che scombini, scuota, apra:

 

Abito le stelle che vestono febbraio
e chiedo alla pioggia un rumore forte
un temporale se possibile

Tutto scorre e ciò che si è amato può trasformarsi in un pungolo doloroso:

 

Io ti amai
poi di sbieco,
tra le scapole
si infisse lo spillo
del tuo verbo.

 

Eppure nel rizoma intimo delle disillusioni cresce una rinnovata consapevolezza, liberata da ogni altra voce. Ciò che è empiricamente femminile è l’associazione del desiderio con lo spazio. Non tanto Cogito ergo sum ma piuttosto Io ci sono. E vivo. E attuo. E ho bisogno di essere dimostrata dal filo che muovo intorno.
Potremmo scegliere di mettere via ogni dimostrazione e abbandonarci come Arianna a Nasso, dopo un lungo pianto, disinteressata ormai persino al dio che la desidera.
Se dovessi disegnare Antonia la immaginerei con un occhio differente dall’altro, uno è socchiuso, scruta con abitudine al distacco, l’altro grande e aperto aspetta e guarda sempre un po’ più in là, dove: “sebbene instabile ognuno è nuovo, piccolo e pieno”.
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