Rimbaud – Il battello ebbro

Rimbaud – Il battello ebbro

intervista a Ornella Tajani

di Paola Del Zoppo

 


Nella tua bellissima e ricca introduzione ci informi della fusione tra poeta e opera. Il battello ebbro è il poeta. Il poeta, è Rimbaud, in questo caso, o il battello è una metafora anche della figura poetica in assoluto? Esiste questa possibilità di separare le esistenze e le essenze?

Certamente il battello è ogni poeta veggente. André Guyaux, il curatore del volume di Rimbaud per la collana Pléiade Gallimard, scrive che in questo componimento «le bateau va à la mer, comme le poète va au Poème».

Le Bateau ivre è scritto a ridosso della famosa lettera a Paul Demeny del 15 maggio 1871, che costituisce una sorta di manifesto programmatico. In essa Rimbaud spiega che il poeta voyant deve raggiungere l’ignoto, l’inconnu, proponendo forme nuove: questo è l’obiettivo della sua ricerca poetica. Deve trovare una lingua che sia «anima per l’anima», che riassuma profumi, suoni, colori, «pensiero che aggancia il pensiero e tira»; ogni poeta veggente è un «ladro di fuoco» cui tocca raccontare ciò che ha visto «laggiù» (il corsivo è suo) – e ha visto paludi, Leviatani, cateratte sugli abissi, «ghiacciai, flutti perlacei, soli e cieli di brace». Nella sua giostra di visioni può identificarsi ogni poeta che miri a farsi veggente.

Nell’illustrare l’interessantissima vicenda della traduzione beckettiana di questo poema di Rimbaud, scavi a fondo nella relazione tra le lingue, la poesia e la traduzione. Scrivi che per Beckett “Rispetto all’inglese, il francese rappresenta per lui l’instabilità, oltre che una minore padronanza di mezzi. Come mostra Matthieu Protin in una dettagliata analisi, alla quale rimando anche per gli esempi riportati qui di seguito, la traduzione del componimento di Rimbaud diventa così per l’autore un’esperienza dei limiti stilistici della propria lingua, quasi pretendendo che la ricchezza della versione inglese esibisca, per contrasto, la scarnificazione della lingua di partenza, che diventerà lo strumento della propria produzione”. Vuoi dirci qualcosa in più di questa scelta di analizzare o quantomeno tener presente anche una versione in una lingua diversa dall’italiano? E cosa ha rappresentato per il tuo studio nello specifico l’approccio di Beckett?

Inserire nella rosa di traduzioni anche Drunken Boat è stata una tentazione irresistibile. Innanzitutto era un modo per far conoscere al pubblico italiano questa versione inglese e la sua storia; poi, essendo la produzione di Beckett così fortemente marcata dal bilinguismo, ero io stessa curiosa di esplorare più da vicino la sua traduzione dal francese, la lingua che gli permetterà di scrivere «senza stile», proprio perché non la governa tanto quanto la madrelingua. Così, si scopre che Drunken Boat finisce per complicare persino dei passaggi già in partenza vorticosi.
È interessante leggere la sua interpretazione, conoscere la sua modalità di appropriazione del testo – e il confronto è sempre proficuo: ad esempio, più giù mi fai una domanda a proposito della congiunzione iniziale, «comme», che può avere valore sia causale che temporale; è stato utile vedere che Beckett l’ha trasformata in un avverbio di tempo, «Suddenly», leggendola dunque in senso temporale, come abbiamo fatto anch’io e altri traduttori (non tutti).
Più in generale, quando si traduce, poter fruire di una traduzione di quella stessa opera verso un’altra lingua offre un punto di vista privilegiato sui nodi da affrontare. Ho sempre trovato suggestiva l’idea di Paul Ricœur del «terzo testo» inesistente sul quale poter «misurare» i testi di partenza e d’arrivo: trovo che la versione in una terza lingua si avvicini a quell’idea.

Proprio nel commentare la versione beckettiana nomini le teorie di Antoine Berman. Hai usato le sue riflessioni come lente specifica per la tua analisi traduttologica?

L’approccio critico delineato da Berman, insieme agli studi di Henri Meschonnic, sottende ogni mia analisi. Sto per pubblicare un lavoro su Berman che vuol proporsi come un’introduzione alla critica delle traduzioni dal francese all’italiano: credo che il suo pensiero costituisca un’ottima base per questa disciplina, perché mostra come l’esperienza e la riflessione siano due cardini della stessa ricerca all’interno dello spazio traduttologico, e perché svela in che modo la critica traduttologica sia un momento importante della critica letteraria. Inoltre, Berman è stato uno dei primi a porre la figura e la soggettività di chi traduce al centro dell’analisi traduttiva. Se è vero che nel corso degli anni ha avanzato anche alcune idee discutibili, come l’ipotesi sulla ritraduzione, quelle stesse idee si prestano oggi come spunto per dibattiti fruttuosi.

Alexis Nouss ha scritto che la traduttologia francese si è sviluppata leggendo Berman, così come si dice di essere cresciuti ascoltando Bach o i Beatles; sono d’accordo, difatti ho intitolato le conclusioni di questo lavoro «Antoine Berman comme les Beatles».


C’è una versione tra quelle presentate che senti più vicina alla tua, o quantomeno alla tua “lettura” della poesia? Quale, e in che misura?

Sì, ad esempio quella di Diana Grange Fiori, che mi sembra aver condotto un lavoro sul ritmo simile a quello che ho provato a fare io. Anche leggendo la sua nota di traduzione nel Meridiano ho riconosciuto una cornice riflessiva comune.

Ora, nella mia introduzione ricordo che esistono oltre 35 traduzioni ufficiali del Bateau ivre; giacché la collana Mucchi è saggiamente concepita per accogliere 10 versioni – in modo da garantire una ricca varietà, conservando però una certa agilità di lettura –, ho dovuto escluderne altre pur degne di interesse, come quella di Giovanna Bemporad, che sceglie la strofa pentastica invece della quartina, creando una diversa distribuzione del contenuto semantico e un conseguente sovvertimento ritmico. Colgo l’occasione per far sentire qui le sonorità del suo incipit, in modo da fornire un ulteriore contrappunto alle versioni presenti nel volume:

Mentre scendevo impassibili Fiumi

non mi sentii più legato alle funi

dei miei bardotti: li avevano presi

per tiro a segno urlanti Pellirosse,

nudi inchiodati ai pali variopinti.

Io, portatore di cotoni inglesi

o di grani fiamminghi, ero incurante

di tutti gli equipaggi. Quando il chiasso

coi miei bardotti fu cessato, i fiumi

mi hanno lasciato scendere a mia voglia.

La resa del primo verso della poesia è in alcuni causale (Margoni: Poiché andavo scendendo lungo i Fiumi impassibili; Bellezza: Poiché discendevo i Fiumi impassibili; Arrighi: Poiché scendevo lungo Fiumi indifferenti), in altri temporale (mentre/quando) e tu hai fatto questa ultima scelta interpretativa e di traduzione. Vorresti illustrarci le differenze e il tuo pensiero rispetto a questa divergenza interpretativa e/o di resa? E come si lega il senso della temporalità con l’“allora” della sesta strofa e con la ripresa di uno scorrimento temporale nella seconda parte della poesia?

Sì, «comme» può essere una congiunzione causale o temporale. In questo caso per me non ci sono dubbi: il nesso causale non avrebbe alcun fondamento logico; per quale motivo il battello dovrebbe sentirsi libero da alatori e cordami perché sta scendendo lungo il fiume? Avrebbe semmai senso il contrario: scende lungo il fiume perché è stato liberato. Ma non è questo che il testo dice e nella tua domanda cogli perfettamente il legame con quanto segue. Rimbaud dipinge la scena iniziale usando un’alternanza di tempi verbali che prevede anche l’uso del passato remoto – è come una tela di fondo – per poi spostarsi, a partire dalla sesta strofa, principalmente sul passato prossimo e sul presente. «Et dès lors…»: è l’attimo dopo il «risveglio in mare», si entra nel vivo dell’azione, dell’avventura; l’abbandono del passato remoto sancisce il passaggio e crea uno scarto temporale funzionale alla rappresentazione della sua sfilza di visioni, che costituisce la parte centrale del componimento.

Ti viene in mente una scelta di traduzione che avresti condotto diversamente se non avessi avuto davanti le altre nove versioni che hai proposto?

No, per un motivo ben preciso: il mio Battello ebbro è tratto dalla traduzione delle opere poetiche complete (in poesia e in prosa) di Rimbaud che ho fatto per Marsilio. Il volume Mucchi è uscito in contemporanea, ma la mia versione, sebbene ancora «inedita» al momento in cui scrivevo, era di fattura precedente.

Dunque l’analisi comparata è venuta dopo la traduzione: d’altronde, se anche mi fossi ritrovata a tradurlo in occasione del volume Mucchi, avrei accuratamente evitato di guardare le altre traduzioni prima di aver terminato la mia. Questo per essere sicura di non farmi influenzare: la traduzione è un lavoro delicatissimo e un verso, una parola tradotta da altri in italiano può «incagliarsi» nella mente e ostacolare lo sviluppo della tua soluzione. Insomma, non bisogna intralciare la fase di deverbalizzazione: credo che lo spazio essenziale della traduzione sia quello che si estende fra la lettura del testo di partenza e la messa per iscritto della tua versione. È anche la fase del decentramento, della misurazione della distanza fra due testi che costituisce il fondamento del tradurre. L’analisi, la critica non possono che venire dopo.

Ciò detto, che sorpresa navigare a posteriori fra le altre versioni del Battello! Un arcipelago meraviglioso (glissantiano…). Ho scoperto quante scelte avevo compiuto istintivamente, direi quasi “inevitabilmente”, laddove altri avevano optato per soluzioni diverse; ho visto che, anche nelle versioni che considero più distanti dalla mia sensibilità, c’erano piccoli miracoli di traduzione, come i «viola rappresi» con cui Gian Piero Bona traduce i «figements violets», sostantivando l’aggettivo e al contempo pluralizzando un nome astratto, un colore: procedimento, questo, frequentissimo in Rimbaud, a dimostrazione di ciò che vuol dire tradurre ricreando in maniera coerente con la poetica dell’autore.

Sono anche rimasta colpita dalla varietà di scelte: questa collana mi sembra dimostrare molto bene quanto sia vero che per ogni testo esistono molte traduzioni possibili. Il testo è infinitamente mobile, si può dire con un clin-d’œil a Borges, che resta per me uno dei pensatori più geniali della traduzione – e che in fondo è un po’ il nume tutelare della collana DieciXuno.

E infine, una domanda a effetto, ma che non vuole affatto essere una provocazione. Se il poeta è il battello, la traduttrice, dov’è?

Auspicabilmente, in un battello più piccolo, proprio dietro il poeta, nel solco della sua scia: se navigare è una metafora del poetare, seguire la scia mi sembra una discreta metafora del tradurre. Il battello di chi traduce imbarca sempre un po’ d’acqua, è inevitabile, e chi lo governa cerca contemporaneamente di tappare i buchi, di non far cadere i remi, di evitare di capovolgersi. Ciò che conta è riuscire a stare a galla e seguire la scia; talvolta tocca modificare un po’ il disegno della rotta, ma, nei casi più fortunati, capita che da tale modifica scaturiscano quelle che Berman chiamava «zone miracolose» della traduzione.

 

 

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