Caterina e Alessandria fallace. Preistoria della giornata contro la violenza sulle donne

Caterina e Alessandria fallace. Preistoria della Giornata contro la violenza sulle donne

di Antonino Tranchina

È per coincidenza che la Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne cada mentre il calendario cristiano ricorda santa Caterina di Alessandria. L’Organizzazione delle Nazioni Unite l’ha così fissata perché è in questo giorno che, nel 1960, le tre sorelle Mirabal – Aida Patria Mercedes, Maria Argentina Minerva e Antonia Maria Teresa – attiviste dominicane, furono torturate e massacrate dai servizi segreti mentre andavano a trovare in carcere i loro mariti, prigionieri politici. Tale circostanza è riconosciuta all’origine di un’ondata di risentimento popolare e, in ultimo, del rovesciamento di Rafael Truijo, il brutale dittatore di Santo Domingo.

Da secoli, il 25 novembre è dedicato, per le chiese cristiane che ammettono il culto dei santi, alla memoria della Martire alessandrina. Evocare l’affinità di quest’antico culto, o almeno di alcuni suoi aspetti, con le tematiche della giornata istituita dall’ONU nel 1999 (ma l’iniziativa proviene dal movimento femminista e risale al 1981) non significa introdurre l’argomento religioso nella discussione, profondamente e giustamente laica, sull’oppressione del genere femminile. Può darsi, invece, che una civiltà dalla memoria storica lunga, quale dovrebbe ritenersi la nostra, possa rispondere senza imbarazzo alla necessità di tenere insieme i fili di questa memoria, per quanto diversi nell’origine, cioè senza rinunciare alla radicalità di una battaglia culturale qual è quella femminista.

Ma la storia è una creatura complessa, che ha bisogno di stomaco forte perché episodi o fenomeni distanti dalla nostra sensibilità morale possano essere guardati e analizzati senza scandalo. Superato quest’ostacolo – mica facile (lo dimostra il dibattito tra cancel culture e la legittima istanza di revisione dei dispositivi della memoria condivisa)! – ci si ritrova nel dominio dell’esplorazione, potenzialmente infinito, dove il principale obiettivo è selezionare ciò che è rilevante e il principale strumento è il nostro sguardo, di individui del XXI secolo. Con gli occhiali del 25 novembre, indossati per correggere la miopia del maschilismo dominante, la breve rassegna che seguirà può essere un’integrazione utile all’autoanalisi collettiva che questo giorno impone.

Il culto di Caterina è molto antico, appunto. Le prime testimonianze risalgono all’VIII secolo, tra la Siria e Costantinopoli: si ritiene che in quel momento sia stata composta la Passio in greco, che almeno dal secolo successivo risulta tradotta in latino e circolava in Europa. Non è un caso che a questo momento o poco oltre risalga la prima immagine della santa in Occidente, nelle Catacombe di San Gennaro a Napoli: Ecaterina è il suo nome. È una figura in abiti preziosi, che rimanda alle origini nobili attribuitele dal racconto leggendario.

Fin dagli albori della sua diffusione, questa storia insiste sulla superiorità intellettuale della santa, grazie alla quale ella avrebbe avuto ragione di una folla di filosofi, rhetores nella dizione greca, appositamente convocati in centocinquanta (!) per confutarla. Le studiose moderne – faccio il plurale di maggioranza al femminile – si interrogano ancora sul motivo per cui la Passio valorizzi una Caterina filosofa, più grande e più forte dei suoi colleghi uomini, che infatti furono mandati in massa al rogo per non essere riusciti a batterla. Ed è forse una scorciatoia pensare che in lei sopravviva la memoria della filosofa concittadina Ipazia, vissuta a cavallo tra IV e V secolo e massacrata da una folla di fanatici cristiani per la sua fedeltà alla tradizione politeista.

Forse ha più senso pensare: la piccola imbonitrice che sbaraglia il mansplaining dominante andava intesa (purtroppo) come un paradosso, una figura dell’impossibile, che sta a esemplificare il potere della Sapienza divina, capace di istruire perfino una ragazzina – pensa un po’! – contro una falange di uomini esperti. Siamo insomma lontani dal bla-bla-bla di Greta Thunberg o forse più vicini di quanto pensiamo, all’efficacia disarmante di una lallazione davanti ai sofismi inani dei leader del COP26, fautori di una non-azione machista nell’indole, di un potere che è maschile proprio perché il suo conato eruttivo muore nell’impotenza. Così, mentre l’eroina è fatta bersaglio di aggressione, il patriarcato brucia, in una metafora ferale dove nessuno porterà l’aureola di un martirio redentore – all’opposto della miniatura dipinta nei primi decenni dell’XI secolo a Costantinopoli, per un manoscritto destinato all’imperatore bizantino Basilio II e oggi fra i tesori della Biblioteca Vaticana.

Devo confessare che, mentre raccoglievo i materiali per questo scritto, pensavo di dedicare la più parte al sadismo che pervade certe rappresentazioni del martirio di Caterina, soprattutto quelle elaborate nel calderone severo e titillante del Cattolicesimo riformato. Tra queste spicca la pala di Gaudenzio Ferrari per Sant’Angelo Vecchio a Milano (1540-43), di cui il contemporaneo Lomazzo celebrava la mimesi del terrore nelle «genti che stavano intorno alla ruota di santa Catherina, & quelli ch’erano colà per stratiarla», ma di cui mi colpisce soprattutto l’erotismo del vedo/non-vedo nelle nudità pubescenti della martire, coperte da una chioma soffice di maddalena. La ricezione di quest’immaginario nell’Ottocento classicista ha dei tratti di un certo interesse per le ricadute patologiche che avrebbero innervato il lettino della psicanalisi fin de siècle, come l’accenno di orazione della santa, in cui gli accademici della Milano asburgica coglievano invece «quella specie di brivido» nell’istante che precede «il raccapriccio dell’orrore».

Da parte mia, resto ossessionato da un tratto di verosimiglianza che avanza dalla parabola favolosa di Caterina filosofa nell’Alessandria dei retori, ed è la dimensione sistematica, cameratesca della violenza sulla femmina, una volta individuata nella complessità della sua persona – quando cioè le caratteristiche personali, i talenti e le doti talora straordinarie valicano i contorni del suo stereotipo nella polarità istituzionalizzata dei sessi (ancor prima della gerarchia). È allora che l’attacco si coagula, alla confluenza di tensioni dal tracciato diversificato ma tutte misteriosamente alleate all’unisono nell’indirizzarsi verso l’obiettivo: l’elusività, la retorica della delegittimazione, la minaccia e infine la coercizione, il male fisico, la mattanza, l’eliminazione.

Siamo abituati a pensare la violenza come un istinto primordiale, basico, che abita la tabula rasa della nostra animalità. Ma vale la pena di interrogarci sul sistema organizzato che rende la violenza solo apparentemente istintuale, quand’è invece lo scatto, il riflesso di un meccanismo tensivo caricato dall’affermazione della virilità perfetta. Quest’apparato di conoscenza, messo insieme dalla paura e dall’impotenza, è l’Alessandria fallace che va sbugiardata da Caterine sempre più numerose, da Mirabal senza bisogno di martirio.

 

Buona giornata e abbasso le violenze contro le donne!

Biografia

Antonino Tranchina ha conseguito la laurea in Lettere moderne all’Università di Palermo e in Arti visive all’Università di Bologna. Ha studiato paleografia greca e liturgia bizantina all’Antonianum e all’Università di Tor Vergata, in Roma. Nella capitale ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia dell’Arte all’Università La Sapienza, nel dicembre 2015, con una tesi dedicata al monastero del Salvatore de lingua a Messina, nel quadro delle culture artistiche del Mezzogiorno ellenofono. Dall’estate 2016 è borsista alla Bibliotheca Hertziana. Il suo interesse verte principalmente sull’architettura dell’Italia meridionale nel Medioevo, in rapporto con l’area mediterranea. In particolare, ha dedicato studi a edifici sacri in Sicilia, Calabria, Terra di Bari, Terra di Lavoro e a Napoli, con particolare attenzione all’allestimento liturgico e agli apparati decorativi. In questo senso, approfondisce il valore dei dispositivi visuali extra-figurativi (iscrizioni, pseudo-epigrafi) nel contesto dello spazio rituale. Un suo interesse collaterale è la sopravvivenza dell’eredità del Cristianesimo ellenofono in territorio italiano, tra Controriforma e Modernità.

 

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