“Il buco” di Michelangelo Frammartino

 

Il buco di Michelangelo Frammartino

a cura di Ivana Margarese

 

Mi nasconda la notte e il dolce vento

Da casa mia cacciato e a te venuto

mio romantico antico fiume lento.

Sandro Penna

 

I lavori cinematografici di Michelangelo Frammartino hanno come protagonista il paesaggio, il rapporto tra gli esseri umani e ciò che li circonda, e cercano di favorire un’intima adesione degli spettatori con i ritmi della natura.
Ciò vale anche per il nuovo film del regista, Il buco, che muove da una storia vera, ambientata nell’Agosto del 1961, in cui un gruppo di giovani speleologi organizzano una spedizione verso l’altopiano calabrese del Pollino e scoprono una delle grotte più profonde del mondo, l’Abisso del Bifurto, che ha circa 700 metri di profondità.
Il buco intreccia la loro vicenda con quella di un abitante del piccolo paese, un anziano pastore, che con i suoi versi apre e chiude la pellicola, offrendo agli spettatori uno spazio sonoro “ di contatto” capace di riportarli a una dimensione immediata e senza tempo, quasi panteistica, in cui tutto è legato insieme e gli elementi sono al contempo materia e spirito.

Attraverso il film ci si immerge in una dimensione mitica, in cui il logos, la parola, lascia spazio al mythos, alla visione che giunge attraverso l’atto del serrare le labbra e del chiudere gli occhi consentendo alla memoria di raccontare. I suoni sono quelli del paesaggio, insieme ai versi prodotti dal vecchio pastore in dialogo con i suoi animali.
La sequenza delle immagini ci racconta una corrispondenza: quella tra la discesa degli speleologi nel fondo della grotta e la malattia e la morte del pastore. È noto peraltro che Ade, il dio degli inferi, avesse la sua dimora nelle profondità della terra. Questa catabasi si svolge attraverso due percorsi paralleli, in un costante richiamo dell’un all’altro: alla luce con cui gli uomini illuminano le cavità del sottosuolo segue  come un’eco l’immagine della lampadina accesa dal medico, intento a muoverla davanti agli occhi del suo immobile paziente. E c’è ancora il gesto con cui viene indicata la fine della grotta – che sembra mimare un filo reciso – fatto dalla donna agli altri speleologi evoca l’immagine delle Parche e subito anticipa nella mente dello spettatore la fine della vita dell’uomo.
La pellicola intera gioca col tema della morte nel suo essere ritorno alla terra; mostra scene in cui gli uomini in interstizi e fessure sempre più strette scendono in profondità ed è intrisa di un tempo lento che risuona in tutto il suo contrasto con il rumore frettoloso e affannato della vita di tanti di noi.


Così come anche in altri suoi film (Il dono, Le quattro volte) la poetica di Frammartino si esprime nelle associazioni di immagini e di idee: per esplorare la grotta bisogna “incendiarla”, cioè bruciare qualche giornale e lanciarlo giù affinché quel fuoco fatuo illumini brevemente lo spazio da aprire. I giornali bruciano, seppure qualche frammento resta integro. Gli speleologi scendono, si trovano davanti l’acqua di un piccolo lago, nella quale ritrovano i brandelli non bruciati dei giornali. Frammenti della società del boom economico: pagine pubblicitarie evocano Fiat, Aperol, Paulista, mondi e valori lontani.
La bellezza di questo film è quella di un cinema che lascia spazio a chi guarda, dove la trama è accennata, come se ogni gesto lasciasse dietro di sé i puntini di sospensione. Anche noi spettatori alla morte dell’uomo ci troviamo costretti in un “buco”, si chiudono le finestre, si crea una oscurità e poi si chiude anche la porta, nessuno è più in casa, e siamo al buio, immobili nella sala, col punto di vista di chi osserva dentro una casa di cui non vede nulla. In una intervista a cura di Matteo Marelli per Film tv il regista si sofferma sulla parola fiducia:

Fiducia significa anche rispetto, per l’altro, per chi verrà – il cinema è molto bello per questo, perché si fa in un momento, ma viene fruito dopo – lasciando dei margini di intervento. È un po’ come succede nelle città, se tu saturi urbanisticamente, chi arriverà dovrà vivere secondo i tuoi dettami. L’architettura, come il cinema, si misura con questa responsabilità che ha chi progetta e poi chi abita.

Nell’ultimo fotogramma siamo sempre al buio ma ci accompagna la voce del pastore con i suoi suoni, con un articolare vocale che è possibile associare alle prime lallazioni dei bambini, in un cerchio in cui tutto apre e continua a scorrere nella memoria e nel flusso della metamorfosi di ogni cosa. Nell’epilogo de L’artefice Borges scrive di un uomo che si propone di disegnare il mondo e colleziona immagini di province, isole, montagne, baie e astri. Per scoprire, prossimo alla morte, che quel montaggio di paesaggi disegna il suo volto.
Scrive Emily Dickinson in una sua poesia: “ Il vento prese le cose del nord/ e le ammucchiò nel sud-/ poi diede l’est all’ovest/ e aprendo la bocca/ fece come per divorare/ le quattro divisioni della terra/ […] Com’è intimo, passata una tempesta/ il tumulto degli uccelli”.

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