Sahraa Karimi: la voce di una regista a Kabul

Sahraa Karimi: la voce di una regista a Kabul

 

di Dafne Leda Franceschetti

 

«Vi scrivo con il cuore spezzato e la speranza che possiate unirvi a me nel proteggere la mia bella gente».

Con una lettera aperta destinata a tutte le comunità del mondo la regista afgana Sahraa Karimi ha invocato lattenzione internazionale, rompendo un silenzio ingombrante: ora che i talebani hanno ripreso il potere in Afghanistan larte, la cultura e qualsiasi spazio di libertà saranno nuovamente messi al bando. Con il paese schiacciato dal giogo della religione faziosamente interpretata che ha così nutrito in profondità una società patriarcale e repressiva, a farne le spese sono soprattutto donne e bambine,  costrette ad assistere inermi allinfrangersi dei propri sogni, alla cancellazioni di ogni diritto ed alla fine di un impervio e forzatamente intermittente percorso di emancipazione:

«spoglieranno i diritti delle donne, saremo spinti nell’ombra delle nostre case e delle nostre voci, la nostra espressione sarà soffocata».

Lei stessa è stata costretta a fuggire per evitare una condanna a morte annunciata, proprio lei che da figlia di afgani rifugiati a Teheran, e formatasi in Europa presso l’Accademia di Cinema e Televisione Slovacca, aveva coraggiosamente scelto di tornare nel paese d’origine per raccontarlo in prima persona dal di dentro.

Studiosa, cineasta e attrice – prima donna a conseguire un Dottorato di ricerca in Cinema in Afghanistan nonché prima a dirigere la storica Afghan Film Organisation fondata nel 1968 – con la sua arte ha sempre cercato di restituire parola alle donne del suo paese e di far conoscere al mondo le difficoltà del vivere quotidiano in Afghanistan. Instancabile eretica ed erotica narratrice dellidentità femminile in tutte le sue molteplici forme, ha organizzato negli anni mostre audiovisive universitarie e convegni per alimentare un dibattito artistico e politico quanto mai necessario. Veronica Pravadelli nel suo saggio Il Cinema delle donne contemporaneo. Tra scenari globali e contesti transnazionali scrive:

«Indipendentemente dalla nazionalità delle autrici o da specifiche questioni autoriali, oggi il cinema delle donne tende a fondere traiettorie private femminili con dinamiche storiche, sociali, politiche e religiose. Storie damicizia femminile o di rapporti tra madre e figlia o tra sorelle sintrecciano con traumi nazionali del passato o con conflitti culturali, etnici, religiosi o di classe del presente».

La studiosa ci fornisce dunque una mappa racchiusa in queste parole, una bussola che aiuta ad orientarsi e ad affrontare il variopinto cinema delle donne contemporaneo, specie quello non occidentale. La linea chiara e condivisa allinterno di questa nuova cartografia cinematografica sembra dunque essere quella di una dialettica fra privato e pubblico, laddove il pubblico corrisponde ad un biopotere maschile che detta legge ed esercita violenza (in tutte le sue forme) sui corpi di donne e ragazze, scegliendo al loro posto.

Il cinema di Sahraa Karimi si situa perfettamente allinterno di questo discorso, a cominciare dai mediometraggi Afghan Women Behind the Wheel (2009), un documentario sulle prime donne afgane a cui è stato concesso di guidare liberamente senza la presenza forzata di un uomo al loro fianco, e Parlika (2016), film dove, esaminando lo status sociale delle donne afgane durante la transizione del paese da una teocrazia totalitaria alla democrazia, si racconta la storia di Suraya Parlika, una donna afgana matura che dopo la sconfitta dei talebani ha deciso di entrare nell’arena politica a livello nazionale e locale.

La vera consacrazione internazionale della regista è però arrivata nel 2019, con il film Hava, Maryam, Ayesha, presentato alla 76e Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti; tre storie di donne di diversa estrazione sociale alle prese con la maternità, con quella agognata e quella detestata e rifiutata. Un film vibrante sul corpo della donna come campo di numerose battaglie, che non trascura la riflessione esistenziale, filosofica e psicanalitica che questo tema assolutamente centrale e ricorrente per tutta la cinematografia femminile e femminista transnazionale sin dagli anni Settanta si porta con sé.
Già allora, due anni fa, Sahraa Karimi aveva sottolineato a più riprese quanto le fosse costato in termini di rischio girare un tale film, il solo sulla condizione femminile in Afghanistan realizzato veramente e interamente a Kabul. E già allora aveva ammonito la comunità internazionale chiedendo di non voltarsi davanti allavanzata talebana. Oggi, grazie allaiuto tempestivo del Governo Turco, dell’Accademia Slovacca del cinema e della televisione (che l’aveva formata come regista e sceneggiatrice), dell’Ambasciata Slovacca in Iran e del Governo Ucraino è riuscita a lasciare il paese mettendosi in salvo ed in questi giorni è nuovamente ospite della Mostra del Cinema di Venezia per prender parte al panel internazionale sull’Afghanistan e sulla situazione dei registi e degli artisti afghani organizzato per sabato 4 settembre. Da qui, affiancata anche dalla collega Sahra Mani, regista dello splendido Thousand girls like me, ha rinnovato il suo appello a partire dalla rievocazione del tragico 15 agosto:

«Ho iniziato la mia giornata normalmente – ha detto ancora – dopo poche ore ho dovuto prendere la decisione più importante della mia vita restare o partire, mentre vedevo il mio Paese crollare. In poche ore tutto si è fermato, improvvisamente tutto è stato distrutto. Non facevamo parte di un gioco politico, eravamo artisti. Noi avevamo fiducia nei nostri politici ma ci hanno traditi e anche il mondo ci ha tradito. Kabul è una città perduta, le menti più brillanti hanno lasciato il Paese. Alcune senza nessun effetto personale, pensate a un paese senza artisti. Siamo gli ambasciatori della nostra storia e della nostra identità con il nostro cinema e la nostra musica e adesso siamo senza casa. Siamo senza casa, senza un luogo in cui raccontare la nostra storia. Ho sempre pensato che Kabul non potesse cadere, ho scritto una lettera alla comunità cinematografica, i talebani sono crudeli come erano prima ma sono piùfurbi perché utilizzano tecnologia della comunicazione. Ho pensato che il mondo dovesse sapere degli artisti che sanno cosa vuol dire vivere in una dittatura. Per questo chiediamo l’aiuto e l’appoggio di poter raccontare attraverso le vostre voci affinché non vi dimentichiate dellAfghanistan e delle donne afgane, perché saranno le prime a perdere la voce».

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