Sul campo di battaglia. Croce Taravella: un racconto dostoevskijano

 

Sul campo di battaglia. Croce Taravella: un racconto dostoevskijano

a cura di Ivana Margarese con un testo di Eva Di Stefano

le immagini fotografiche dello studio di Croce Taravella sono di Ivana Margarese

 

Una mattina di agosto questa estate sono stata invitata a partecipare a un evento singolare: una visita allo studio del pittore siciliano Croce Taravella. Nessuna esitazione ad andare, le visite agli studi degli artisti sono sempre interessanti, tuttavia l’impressione ricevuta ha superato le aspettative iniziali e ha dato avvio a una storia.

Ero all’interno di uno spazio ampio, con quadri e sculture ovunque, che univa caos e rigore. In fondo quasi al buio nell’ultima stanza si trovavano delle figure scolpite e allineate l’una dietro l’altra, in fila verticale e orizzontale, davano quasi l’impressione di essere creature di un altro mondo. Sono tornata per un momento una bambina che si spaventa ad andare da sola in fondo al corridoio. Desiderio di guardare e paura. E in effetti nella stanza, insieme a varie figure del presepe, si trovano delle sculture di briganti dall’impatto tragico e immaginifico. Taravella ha un tratto materico capace di trasportare in un altro mondo. I suoi lavori sembrano toccarti o risvegliarti.

Come sempre quando si ha paura ci si affida a un oggetto salvifico, rassicurante. L’ho trovato in un libro, un catalogo, l’unico presente nello studio, lasciato su un tavolo. L’ho preso in mano e contenta di avere trovato un rifugio l’ho sfogliato e ho cominciato a leggere. Erano le parole di Eva Di Stefano, attraverso le quali le mie impressioni prendevano forme armoniche, ricostruivo la storia di ciò che avevo davanti. Ho fotografato le pagine di quel testo e ho chiesto alla professoressa Di Stefano di poterle pubblicare.

Di seguito, pertanto, riporto le prime pagine del lungo testo da lei dedicato a Croce Taravella in cui si racconta dei primi anni di formazione dell’artista e del suo Sole nero.

 

Ci sono quadri che possono provocare tempeste, seminare dubbi, sconvolgere le anime. Accadde a Dostoevskij davanti a Il Cristo morto (1522) di Hans Holbein il Giovane,  nel museo della città svizzera di Basilea, il 24 agosto del 1867: una scossa violenta, una momentanea paralisi, il principio di una crisi di epilessia. Anna Grigorievna Dostoïevskaïa  racconta l’episodio della visita nel suo diario, sottolineando quanto la visione di quel  volto dipinto così livido e tumefatto fosse anche per lei insostenibile. Poco dopo, Dostoevskij scrive L’Idiota, attribuendo al sublime principe Myškin il proprio turbamento davanti a quell’opera, che un altro personaggio così descrive: “Il quadro raffigura Cristo proprio nel momento in cui lo depongono dalla croce….non c’è ombra di bellezza: è, nel pieno senso della parola, il cadavere di un uomo che ha sopportato un supplizio orrendo prima ancora di essere stato crocefisso, ferito, torturato, che è stato percosso dalle guardie e quindi dalla plebe, che è caduto sotto il peso della croce, e che, infine, ha sofferto per sei ore l’estremo supplizio. E’ però il viso di un uomo tolto allora allora dalla croce, cioè un viso che conserva in sé molto di vitale, di caldo: non vi si nota nulla di irrigidito, sembra anzi trasparire ancora da quel volto l’espressione della sofferenza, come se la sensazione del dolore non fosse ancora scomparsa del tutto, ma il viso stesso non è risparmiato affatto…Il quadro presenta quel volto terribilmente sfigurato dai colpi, gonfio, coperto di lividi, insanguinato, e spaventoso, con occhi aperti e pupille storte, gli enormi bianchi di quegli occhi aperti scintillano di un riflesso vitreo….se i suoi discepoli, i suoi apostoli principali, le donne che lo seguirono e che si erano radunate attorno alla croce videro un simile cadavere (e in realtà doveva essere assolutamente identico a quello che aveva rappresentato l’artista), come poterono conservare la fede che quel martire sarebbe risuscitato?….E se il Maestro stesso, alla vigilia del supplizio, avesse potuto vedere la propria immagine, chissà se sarebbe salito sulla croce e se vi sarebbe morto come morì?”

Il Cristo morto (1522) di Hans Holbein il Giovane

Quel dipinto, secondo Dostoevskij e il principe Myškin, “può fare perdere la fede”,  perché il suo eccesso di realtà annienta ogni speranza di redenzione: il sacrificio è nudo,  implacabile sulla lastra da obitorio e fresco di morte,  e la glauca tinta del martirio inchioda l’astante nell’immanenza del proprio stesso corpo e in un destino oscuro e senza trascendenza. Non a caso la psicanalista Julia Kristeva dedica al dipinto di Holbein un capitolo del suo libro sulla depressione e sulla malinconia: la regione dove si leva il Sole Nero, e si erra incalzati dal vuoto, dall’assenza e da una primigenia ferita, alternando abbattimento ed esaltazione, combattendo al vento per la morte e la vita,  mentre la realtà ci corre appresso come un branco di lupi.

Anche Croce Taravella è nato sotto Saturno e nel suo stemma è impresso il sole nero, combatte per la pittura all’ultimo sangue, a mani nude contro l’assedio della notte. Sotto l’urto estremo della realtà la materia nelle sue opere si contorce, scola o si raggrinza, la figura si deforma come una grande piaga, e il colore è allo stesso tempo splendore di vita e cancrena mortale. Dipinge il dramma della carne, la tragedia iscritta in ogni volto umano, il fasto straordinario della terra, il fulgore di ogni relitto, la luttuosa città delle rovine e lo scenario vivido delle metropoli pulsanti di vita. E modella i corpi di martiri senza Dio, l’orrore di creature straziate e condannate ad imputridire dentro una gabbia o in una cantina, gli apocalittici cavalieri che marciscono nelle proprie corazze fatte di rifiuti,  i macabri reperti dei briganti suppliziati, tremendi “ecce homo” della violenza agita e subita. A loro modo tutti guerrieri e vinti, dannati di una forza oscura, potente, assurda ed eterna che è legge di natura, e che nei suoi quadri di paesaggio erompe al sole, e inturgida la pietra, stria i campi di solchi incandescenti, sigilla un cielo senza scampo.

Anche per Croce ogni sacrificio è senza ritorno, ma ciò nonostante affronta impavido l’immenso disordine della terra, perché ne ama sia la brutalità che lo splendore. La pittura è la sua personale corrida con il caos per configurarlo in una struttura, imponendo alla bestia vivida e atroce un momentaneo dominio. Senza fini morali o edificanti, poiché non è in definitiva la  catastrofe del mondo a inchiodarlo al suo lavoro, ma la catastrofe della rappresentazione: la discontinuità tra percezione e memoria, lo scontro tra le superfici, il movimento di trasformazione che lavora internamente la figura, il dissesto dell’oggetto, la scoperta della sua ossatura, la sfida tra la manualità della pittura e la tecnologia. Infine, la possibilità stessa della pittura, il suo essere ancora lingua viva nonostante tutto, atrocemente attuale nel suo pathos senza distanza né oblio, atrocemente inattuale di fronte agli algidi reportage, al minimalismo anemotivo, al feticismo tecnologico e tautologico di tanta arte contemporanea.  

Croce ci spiazza perché sovverte “la legge del silenzio dell’arte”, che il filosofo Paul Virilio ha indicato come il critico paradosso dell’arte contemporanea, sopraffatta dal totalitarismo mediatico. E ci spiazza perché, per quanto agisca d’istinto, è sempre pienamente consapevole dell’impossibilità nel mondo contemporaneo di un linguaggio integro e unitario, sa che ogni rappresentazione deve necessariamente comprendere in sé la sua disgregazione, e che la pittura e la scultura si danno come situazioni-limite. A renderle vive non è la scorciatoia dell’anacronismo o della citazione, che sanciscono solo la morte di quel mondo di cui ripropongono i vocaboli, piuttosto la storia è lievito di immagini nuove che si nutrono del passato così come del bombardamento visuale del presente. Grünewald, Mantegna, Caravaggio, così come Rembrandt, Van Gogh, Monet, gli impressionisti e i fauves, Soutine, Kokoschka o Dubuffet e l’Informale, Bacon , il Gruppo Cobra, Rauschenberg,  l’Arte Povera, e perfino l’Azionismo viennese, i Nuovi Selvaggi…: Croce è un divoratore di immagini, che costituiscono un alimento così assimilato e metabolizzato, posseduto nel profondo, da diventare un  amalgama che sostiene la sua possibilità di mutare registro, padroneggiare tecniche e possibilità di rappresentazione diverse, aprirsi alla continua sperimentazione di nuovi materiali e nuovi supporti, aspirare ancora e di nuovo alla totalità, mantenendo sempre intatta la sua coerenza di fondo.

 

La manipolazione della materia ha un ruolo fondamentale: che si tratti di cemento da modellare  e intridere di colore, stracci da annegare nella colla, plastiche da bruciare, rifiuti da riciclare e assemblare, ossa da intingere di resine, nel dialogo con la materia progetto e processo coincidono, pensiero ed esperienza si corrispondono. D’altra parte la sapienza  manipolatoria, insieme alla necessità di inventare nuovi procedimenti artigianali, afferma il suo irrimediabile antagonismo al dominio tecnologico dell’immateriale, e nella sua enfasi reattiva denuncia il malessere sfuggendo all’opposizione moderno-antimoderno.

Altrettanto importante è il supporto, dove Croce trascorre da gomma, linoleum , carta catramata o lamiera che respingono il colore anziché accoglierlo, alla classica tela che consente limpide e plurime stesure senza spessore, fino alla trasparenza delle lastre di plex dove stendere inchiostri ed inglobare il cielo, come nella grande installazione all’aperto realizzata per Villa Cattolica.

Quella pittura, che oggi aspira alla sindone, all’impronta, alla radiografia smaterializzandosi nella mutevolezza reale del cielo, per anni invece ha aggettato in fuori  come un altorilievo, conducendolo con naturalezza verso la scultura, intesa come assemblaggio da plasmare e rimodellare, fino alla reinvenzione recente dello stucco nella serie dei Briganti. E, aspirando ad esserci fuori dai luoghi deputati, a ingigantire il proprio impatto comunicativo, la pittura di Croce è uscita dall’atelier per agire su grandi spazi urbani o naturali: si è depositata sulle rovine della Vucciria di Palermo, diventando uno straordinario e struggente murale di 2000 metri quadrati, e si è coagulata in un grande intervento ambientale nella campagna di Mazzarino. O ha chiazzato i sudari di cento sculture nella megainstallazione nei sotterranei del Tacheles di Berlino.

 

Anni di formazione

Ho visto i primi lavori di Croce nel 1986 in una mostra collettiva, Il lungo sguardo, presentata da Federico Incardona all’Opera Universitaria di Palermo. Fu in quell’occasione che decisi di fare un’inchiesta a puntate per il “Giornale di Sicilia” sulla nuova generazione di artisti che si stava affacciando all’orizzonte, e di intervistare alcuni di loro. Incontrai Croce una mattina al Bar del Viale, non si tolse mai gli occhiali scuri durante il nostro colloquio, ostentava un’aria perentoria da duro, si dichiarò siciliano fino all’osso e si definì un’espressionista moderno. Diffidava delle metropoli, mi disse, e considerava la natura un nemico interessante.

“Mi piace vivere a Palermo, non mi interessano i grandi centri né l’industria culturale. Sono situazioni che sento estranee e non amo la competizione. L’isolamento non mi fa paura, anzi penso che la periferia, una certa arretratezza possa perfino difendere la pittura dalla trappola dei condizionamenti e delle influenze. Di Palermo mi piace questa sua combinazione africana di vita e macerie, disorganizzazione, traffico, caos, odori, immondizia. E’ piena di fantasmi e di energie. Io vivo bene tra i suoi scarti e le sue sfide”.

Croce aveva allora 22 anni e frequentava il terzo anno di Accademia. Il primo anno vi aveva incontrato un giovane docente molto stimolante, l’artista Alfonso Leto, poi era partito per il servizio militare che aveva fatto a Napoli tra il 1983 e il 1984, dove aveva conosciuto il celebre gallerista Lucio Amelio, che, apprezzando il talento del giovanissimo pittore, lo aveva coinvolto nella frequentazione del proprio ambiente. Così Croce aveva conosciuto di persona Beuys e Warhol, ma anche Cucchi, Paladino, Longobardi, aveva collaborato nel 1984 agli allestimenti della celebre mostra TerraeMotus, aveva aiutato Rauschenberg a montare la sua esposizione: tutte esperienze formative importanti per un giovane artista, delle quali credo che soprattutto l’ultima abbia dato qualche spunto agli esiti successivi.

Quando lo conobbi aveva al suo attivo già alcune mostre di gruppo. Circolava tra i giovani artisti palermitani di allora,  e soprattutto tra i suoi compagni come Guido Baragli, Marco Incardona, Dario Taormina, l’onda di rimbalzo del successo internazionale della Transavanguardia e del Neoespressionismo tedesco, che alle soglie degli anni ’80 aveva riaffermato la seduzione della pittura d’immagine, abbassato di molto l’età anagrafica degli artisti emergenti, proposto una figurazione parossistica, centrata sul riciclaggio disinvolto di reperti visivi e sul tema del corpo da esibire, enfatizzare, violentare. Lo spirito del tempo sembrava abitare in città inselvatichite tra rovine urbane e guerre di bande, a Berlino o nel Bronx. Dovunque, a Palermo come a Chicago, si avvertiva, magari con declinazioni diverse, che memoria e cultura erano diventate un relitto captato per impulso discontinuo, frammenti e isole di senso senza collante. E, questa disinibizione pittorica non priva di ossessività si innestava a Palermo su una tradizione locale che non si era mai lasciata catturare dall’arte concettuale e non aveva mai messo da parte la pittura.

Nato nel 1964 a Polizzi Generosa, paese delle Madonie ricco d’arte e di tradizioni che gli lascia dentro l’impronta gelosa e fiera della montagna insieme a una ancestrale diffidenza per il mare, Croce ha le idee chiare fin da bambino: “Ho capito che volevo fare il pittore a 7 anni, mia madre mi dava alcuni “santini” da copiare e io li disegnavo molto bene, poi il mio gioco preferito era fare dei grandi disegni sui muri”.  Del resto uno zio di parte materna è stato pittore, e la famiglia appoggerà sempre con convinzione la sua scelta.

Croce è determinato e impetuoso, sulle sue intemperanze di quegli anni circolano alcune leggende, ma la sua unica vera passione è la pittura: “La pittura è il concetto del totale, è l’arte che coniuga emozione e realtà, immagine e non immagine, pathos interno e regola mentale, scienza e irrazionale”. E Palermo, “una città in cui a notte alta, al cospetto degli arcigni palazzi corrosi dall’incuria, o lungo le strade, è ancora possibile parlare di Dio, come gli eroi di Dostoievskij”, in  quegli anni – sono gli anni di piombo, dei grandi delitti di mafia, di una diffusa cupezza esistenziale – alimenta la sua vertiginosa attrazione per le macerie e quel senso del tragico, la lusinga di morte che si porta dentro da sempre. Lo individua bene Francesca Alfano Miglietti, curatrice della mostra Necrofilia (a cui, oltre Croce, partecipano nel 1985 Guido Baragli e Dario Taormina), che scrive: “Nietzsche dice che bisogna scorgere il tragico e poterne ridere, e il sorriso dell’immagine di Croce Taravella l’ha esplorato e fatto esplodere sotto le sembianze di una sessualità colpevole solo perché finalmente mortale: è solo nell’ultimo momento che s’annienta il desiderio di dire”.

Fin dall’inizio il lavoro di Croce si pone come singolare rispetto al neoespressionismo diffuso in quegli anni e della sua iconografia voracemente metropolitana, nei suoi lavori è già centrale la figura ma condotta ai limiti della defigurazione, quasi un agglomerato astratto di tratti vorticosi di colore: un vocabolario di filamenti, cellule, macchie, gocce e ghirigori che si muovono come branchi di pesci sul foglio o sulla tela, che a loro volta ne sgranano la coesione come fondali dotati di energia propria. Un modo originale di trascorrere dal Divisionismo all’Informale, un banco di prova per quella energetica padronanza del segno-colore, che caratterizzerà la sua produzione successiva.

In una seconda fase, inizia a sperimentare le possibilità offerte da nuovi tipi di supporto: dapprima pellicole di plastica trasparente, scarti di tipografia, dove il colore si raggruma e acquista rilievo come un gonfiore o una cicatrice, mentre ogni spazio lasciato libero diventa una sorta di cratere o di ferita; poi sarà la volta delle superfici di gomma telata, del linoleum, della carta catramata, e sul supporto respingente il colore si costituisce come pasta spessa che più in là ingloberà al suo interno anche altri materiali, come stracci, che ne accrescono il rilievo. Bave di colore rappreso, lucido e vischioso che  figurano e contemporaneamente sfigurano un mondo violento in cui si divora o si è divorati, uomini hamburger, lacerti di vitello, umori della carne, che già circoscrivono quei temi drammatici che saranno al centro dei suoi interessi. Il supporto non si limita a fare da base e condizionare la stesura del colore, ma entra in gioco come elemento alla pari della pittura: in Pisciacrocium (1988), ad esempio,  la plastica nera si panneggia in onde segnate da un rosso incandescente, come flutti di una lava infernale che erutta fuori il corpo carbonizzato e crocifisso, disperatamente incrostato sulla superficie.

Nel 1987 Croce realizza il primo ciclo importante: la serie dei Santi Martiri  che sarà esposta quell’anno in una galleria di tendenza come la Neon di Bologna (dove espone subito dopo, ad esempio, l’allora sconosciuto Maurizio Cattelan), e nel 1988 a Palermo presso la Galleria Voltaire, in quel periodo importante spazio della vita artistica cittadina, alternativo e insieme rabdomantico, diretto da Toti Garraffa. E, sempre nel 1988, anche  alla Galleria d’Arte Moderna  nell’ambito di una mostra collettiva Made in Palermo che noi, critici dei due quotidiani palermitani di allora ( per il “Giornale di Sicilia” io e Sergio Troisi, e per il giornale “L’Ora” Laura Oddo e Eduardo Rebulla), volemmo dedicare alla situazione emergente.

La materia dei Santi Martiri è scabra, stesa con brutalità dubuffetiana e sgraffiata sulla tela come se il colore fosse filo spinato sul lenzuolo della sindone; i corpi squartati sono essenziali e primitivi; i volti digrignano come maschere dai capelli irti. Il loro selvaggio sacrificio non ha nulla di edificante e di devoto, manifesta unicamente la primordiale necessità di crudeltà che ci accompagna dall’alba della storia, e circoscrive un motivo centrale nel lavoro di Croce: il dolore della morte e dell’assenza del sacro.

Forse la chiave di questa sua violenza pittorica è racchiusa nei celebri versi autoriflessivi di Baudelaire: “Sono la piaga e il coltello/ lo schiaffo e la guancia/ sono le membra e la ruota/ la vittima e il carnefice.” Sembra accennarvi anche Gaetano La Rosa che, a proposito di queste opere, scrive: “I nomi esotici dei martiri paleocristiani di Croce Taravella straniano l’effigie del loro martirio. La pittura, come la carne, le viscere e le gocce di sangue rovente del corpo del santo, è per l’artista tanto materia di santità quanto l’oggetto del proprio martirio. La tensione compositiva di questi lavori giocata anche con la complicità dei formati per gran parte irregolari, ed esaltata dai tagli deformanti di quest’artista, riesce nell’arduo compito di costringere le esuberanze brutalistiche del segno recuperando in profondità il patrimonio geometrizzante-astratto di certo informale.”

Nel ciclo pittorico si evidenzia anche già un motivo che resterà centrale nel suo lavoro fino ad oggi, la memoria come scarificazione e cicatrice corporale, il nodo che lega la sofferenza alla funzione mnemonica così efficacemente affermato da Nietzsche: “Quando l’uomo ritenne necessario formarsi una memoria, ciò non avvenne mai senza sangue, martiri, sacrifici; i sacrifici e i pegni più spaventosi  […], le più ripugnanti mutilazioni […], le più crudeli forme rituali di tutti i culti religiosi – tutto ciò ha la sua origine in quell’istinto che colse nel dolore il coadiuvante più potente della mnemotecnica.”

( Il testo di Eva Di Stefano è un estratto da “ Il campo di battaglia. Croce Taravella dagli esordi a oggi” contenuto nel catalogo della mostra a cura di E. Di Stefano, Falcone editore, Bagheria 2004).

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