08 Ago Neroconfetto
Giulia Sara Miori: Neroconfetto
di Sara Manuela Cacioppo
Fotografie di Nadia Mezzatesta
Perturbare [dal lat. perturbare, comp. di per e turbare «turbare»]. Turbare profondamente, sconvolgere, portare agitazione o alterazione in un ambito di natura sociale, fisica o psichica (Treccani).
Neroconfetto, l’esordio di Giulia Sara Miori, edito da Racconti edizioni, si inserisce nella rappresentazione del perturbante in chiave moderna, restituendo ai lettori i più intimi e cupi pensieri della psiche umana, le sue perversioni, fobie, paure, ossessioni.
In un vortice di sincerità che trascina, ogni racconto lascia in bocca un sapore di “amaro buono” che dà assuefazione.
La scrittrice trae ispirazione dai grandi autori della letteratura gotica, tra cui Edgar Allan Poe, Bram Stoker, Robert Louis Stevenson, Henry James, H. P. Lovecraft, si rifà alle atmosfere stranianti e turbative di Shirley Jackson e impara dall’eclettismo di Joyce Carol Oates, donando alle storie il gusto del macabro, del simil-gotico e del soprannaturale in alcuni casi.
La scrittura è chiara, con una predilezione per le frasi corte, le ripetizioni e un susseguirsi di domande, spesso senza risposta.
Il titolo è stato scelto con l’auspicio di donare al lettore dei racconti che si leggessero d’un fiato, come si consumano le caramelle, anzi i confetti, perché sono questi ultimi che vengono usati per le cerimonie, per le occasioni da ricordare (come la pubblicazione di un libro), ma confetti neri, oscuri, dark, appropriati alle sue protagoniste.
Per tentare di decifrare le complessità e le tipicità della mente umana, il lettore passa infatti con voracità al secondo racconto, poi al terzo e così via, cercando una parola che possa descrivere il suo stato d’animo. A mano a mano che si prosegue nella lettura quella parola si avvicina al termine stupore, trouble, ripugnanza del vero, accettazione del macabro, riconoscimento o allontanamento dallo stesso.
I 21 racconti, seppur diversi, sono legati da un filo rosso sottilissimo che sembra dire: io sono se tu non sei; io esisto se tu esisti, esisto se tu non esisti; vivo per te e muoio per te; non mi importa del mondo ma il mondo mi ha uccisa. Le protagoniste sono donne allo specchio, donne nel baratro, donne sul piedistallo, donne fantasma, donne a metà.
La raccolta comincia con il racconto La giacca, ispirato a Scarpette rosse di Andersen. Laura è più bella di Clara, tutti la guardano, tutti la desiderano, al contrario di Clara che rasenta la trasparenza. Quest’ultima prova verso l’amica sentimenti contraddittori, quali invidia, rabbia, rivalità e ammirazione. Se ne vergogna, tuttavia non può fare a meno di provarli e riesce addirittura ad ammetterli: è come se Laura le togliesse qualcosa, le attenzioni che gli altri riservano all’amica non le spettano mai, «perché lei sì e io no?», si chiede. Forse è colpa di Laura se nessun uomo la vuole, se nessuno la sceglie mai.
Un giubbotto magico o per meglio dire ‘malefico’ stravolgerà i ruoli delle due ragazze, generando un finale inatteso di violenza e sangue.
Il racconto Alice prende il nome dalla sua protagonista, una ragazza additata e sbeffeggiata dai compagni per il fisico robusto. Alice viene dipinta come una ragazza malata, perché nella società di oggi chi non cura l’aspetto esteriore è malato (e quello interiore invece?). Non siamo nella società dell’apparenza ad ogni costo? (triste realtà da gettare sotto le scarpe). Eppure Alice non se ne cura, cammina per la scuola portandosi appresso il suo peso e il suo “odore forte”. Alice non si lava abbastanza, non lava i pantaloni perché si restringono e non avrebbe più nulla da indossare. È già tanto per lei aver trovato dei pantaloni in un mondo in cui se non sei taglia 38 sei squalificata.
Alice vive nel suo mondo delle meraviglie, va avanti senza temere il giudizio dei compagni, che quasi devono sentirsi in difetto perché non la vogliono frequentare. Chi sono quelli sbagliati, loro o Alice? (sappiamo la risposta). Alice sembra forte, ma è fragile. Si sente un botto all’improvviso e Alice non c’è più.
Nel racconto Lucille, Miori descrive la figura contorta di una madre che fa fatica a tagliare il cordone ombelicale. Lucille, la figlia, soffre di una malattia misteriosa a cui neanche i medici sanno dare un nome. Solo la madre comprende il male che affligge Lucille, lei che l’ha creata e la conosce meglio di chiunque altro: «E quindi stai a casa Lucille, fai la brava, non vedi che non stai in piedi, non capisci che non sei come le altre bambine, fai la brava e vai in camera tua, e smettila di fare i capricci, smettila di piagnucolare, Lucille, non serve a niente, e vedrai come sarà bello avere la mamma accanto a te: ti misura la febbre e ti prepara la minestra e ti dorme accanto. »
In questo rapporto morboso la madre ama Lucille, la cura e le fa del male, fa del male a se stessa. Dove finisce la malattia della figlia e dove inizia quella della madre?
«Prima di tutto invidiavo la sua pelle fresca, tanto che l’avrei staccata a morsi.» L’incipit del racconto Camilla rivela un’ossessione d’amore, quella della voce narrante femminile per Camilla, la ragazza che venera come si fa con le statue che si possono toccare, accarezzare, ma restano fisse, immobili, fredde, di marmo e non si può far nulla per cambiare le cose se non romperle per frantumarne l’immobilità.
La voce senza nome ama a tal punto Camilla da volerla assaporare, quasi divorare. E questo amore-specchio fa cadere nell’ombra ogni altro aspetto della sua esistenza, persino il suo fidanzato Mauro precipita, come se la vita avesse preso il nome di Camilla, dipendesse da Camilla, dai suoi sorrisi, baci, risate: «Ho capito che non c’era più posto per Mauro nemmeno se avessi voluto, perché di Camilla invidiavo la pelle liscia e anche i silenzi, e invece di Mauro non invidiavo nulla, perché Mauro aveva le mani perfette e io non avevo mai desiderato essere Mauro come invece desideravo essere Camilla.»
Ma la relazione fra queste due ragazze acerbe non è fortunata, si spegne, anzi viene interrotta bruscamente da qualcun altro: con che diritto la società eterenormativa pone dei limiti all’amore?
Nel racconto Isabel, parola, amore e morte si combinano per concepire una storia in cui la mancanza di ascolto e comprensione si traducono in follia e voglia di evasione. La voce narrante (anche in questo caso senza nome perché “nessuno” è “tutti”) preferisce una giovanissima ragazza morta alla propria moglie, che “parla troppo”, invece Isabel “non parla mai”: «Era questa la magia di Isabel, questo il suo potere: lei mi guardava sotto le sue ciglia buie e non parlava mai, lei non parlava ma mi ascoltava, Isabel mi ascoltava sempre, qualsiasi cosa le dicessi mi ascoltava senza interrompermi, e siccome io odiavo mia moglie perché parlava troppo e non ascoltava mai, mi sono innamorato di Isabel perché era tutto l’opposto di mia moglie…»
C’è una differenza fra essere soli fisicamente e sentirsi soli con qualcuno intorno: a detta di molti, il secondo caso è più devastante del primo, perché si percepisce la solitudine acuita dalla frustrazione di una presenza assenza.
L’amore malato, descritto nel racconto, è dunque fatto di due solitudini, è l’incontro di due punti fermi che non sanno o non possono andare a capo nella pagina della propria vita.
Per leggere Giulia Sara Miori bisogna prepararsi a un viaggio: quando si parte per una meta ignota, che sia una mente o un luogo, si torna sempre arricchiti dall’esperienza vissuta.
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