Antonio Clemente e la pittura come regola del mondo

Antonio Clemente e la pittura come regola del mondo

 

di Vincenzo Maria Corseri

 

Antonio Clemente è un artista siciliano. Nativo di Castelvetrano, si è formato all’Accademia di Belle Arti di Palermo, per ultimare successivamente i suoi studi all’Accademia Linguistica di Belle Arti di Genova, città dove attualmente vive. Uomo riservato e schivo, non ancora quarantenne, ha al suo attivo un articolato itinerario artistico che attraversa con netta consapevolezza creativa pittura, poesia e musica.
Non amo, per natura, etichettare i miei interlocutori, credendo fermamente nell’unicità della persona e nell’irriducibilità dell’individuo a qualsiasi tentativo di categorizzazione. Ci sono però degli accostamenti che possono favorire un riconoscimento, ovvero un campo semantico cui riferire dei percorsi di vita e, tra questi, direi che il profilo di Clemente potrebbe rientrare nel solco di quegli artisti che hanno dedicato un’intera esistenza a promuovere le intersezioni tra i linguaggi sommi dell’arte. E, nella fattispecie, tra musica, poesia e pittura. Pensiamo, in tal senso, alla funambolica figura di Alberto Savinio, artista geniale alla continua ricerca di una coesione capace di muovere il proprio discorso culturale e artistico «dalla musica alla poesia, dalla poesia alla pittura e dalla pittura al pensiero “puro”», o a Toti Scialoja, pittore e poeta romano, dalla personalità in costante tensione tra «dolcezze infinite» e «ire funeste» declinate con ricercata sapienza ugualmente sulla tela e sulla carta. Tra gli innumerevoli nomi, anzitutto per una “isolanità” condivisa, non possiamo non ricordare pure quello di Franco Battiato, rammentando ancora una volta la grandezza e la purezza del dato spirituale e creativo che ha contraddistinto la sua arte, anche qui tra poesia, musica e pittura, quest’ultima coltivata per più di un ventennio (con precisone, a partire dal 1993), come «terapia riabilitativa» per individuare e superare con estrema coerenza, attraverso la figurazione di immagini su fondo oro, le contraddizioni intrinseche alla vita.

È, in sintesi, la dimensione del sacro, tanto cara anche ad Antonio Clemente, autore tra l’altro di una toccante silloge di versi, Terra di nessuno (Medinova, 2016), in cui il proprio personalissimo rapporto con la terra d’origine si intreccia ad una rilettura, intima, drammatica, sotto certi aspetti conflittuale, della percezione del paesaggio, concreto e spirituale allo stesso tempo, che fa da cornice alla propria dimensione emotiva; ovvero un’“educazione sentimentale” dello sguardo che si apre al destino di un’intera comunità, e di un territorio, trasfigurandosi in versi:

«nella disperazione/ di campi trebbiati/ o nelle brughiere/ […]/ ho udito canti e lamenti/ antichissimi/ e incomprensibili/ a causa del forte rumore/ del cuore e del mare/, penso ad un luogo/ eterno, irreale/ illuminato/ da un sole tenue/ […]/ che mi rivela/ l’ambiguo profilo/ di qualche rudere/ […] di una bellezza/ quasi allarmante,/ da cui proviene/ un flebile canto/ impercettibile/ se non dal cuore».

Sono versi che scavano negli ondeggianti sentieri della memoria e che si nutrono di luce materiale, una luce che accoglie le oscure vibrazioni di un’anima che insiste nello scrutare il microcosmo di provenienza – un microcosmo che è però imago mundi, un microcosmo che vive – facendosi specchio di una realtà che non perde mai di mira la sua unità etica ed estetica e che privilegia uno sguardo che non vuole prevalere sull’immagine, uno sguardo che non prende ma riceve, uno sguardo che specialmente nei dipinti di Antonio si fa memoria, passione, sentimento, umanità: «un raggio/ di luce abbagliante/ discende fitto/ ma delicato/ nella mia penombra/ accecandomi l’anima».

Al cospetto della produzione pittorica di Antonio Clemente, la prima impressione è certamente quella di trovarsi di fronte a un artista – sotto certi aspetti inattuale perché volutamente figurativo – ispirato da Sironi, da Rosai e da Carrà, autore quest’ultimo profondamente indagato durante gli studi accademici, per via delle atmosfere rarefatte e di quella sorta di immedesimazione con le cose che porta le figure alla loro essenzialità e le linee di fuga spesso a una ribellione: esse non sono più ancorate alle reali convergenze prospettiche, ma sono veri e propri trampolini di lancio verso la dimensione surreale del soggetto e dei paesaggi rappresentati. I tagli di luce sono hopperiani, dati non soltanto dalla soluzione netta luce/ombra, ma anche da un utilizzo del colore in grado di restituire all’occhio dell’osservatore la luminosità riflettente delle superfici e al contempo censurare il non detto, il non rilevante, attraverso vortici di sfumature, nuvole sbiadite, zone d’ombra in cui ormai nulla è più nitido. Eppure, se ci soffermassimo soltanto sulla dimensione fortemente lineare, sull’impatto visivo che le case, le palazzine, con le loro finestre scure, o le strade deserte e silenziose ci offrono con la loro ieratica presenza, scorgeremmo un ulteriore omaggio a un maestro della pittura quale è Giorgio Morandi, perché, sebbene ci ritroviamo alle prese con scorci di Sicilia e delle sue campagne (si percepisce, ad esempio, una particolare tensione metafisica nel modo in cui vengono raffigurate certe località balneari del trapanese, come Triscina di Selinunte e Tre Fontane, o nella gamma cromatica che descrive un campo di avena selavatica che si apre sul mare), rispetto alle tavole apparecchiate, l’essenza non è dissimile.
Clemente con la sua proposta visuale ci sta invitando a una passeggiata nelle vie che ama riprodurre? O non è forse quello stesso paesaggio, spazio pubblico nella sua superficiale forma, in realtà uno spazio privato, lo stesso spazio in cui un oggetto può farsi e disfarsi allo stesso modo, esattamente come un flusso di pensiero? A quel punto non più soltanto Morandi, ma anche Magritte o Delvaux? Se approcciato in questo modo, Clemente nasconde dietro le finestre e i prospetti delle case delle vere e proprie porte, dei portali attraverso i quali si apre il pensiero, come l’alternanza luce/buio di un treno in transito che riflette sul terreno le linee sfuggenti dei suoi rettangoli di luce, dove questo stesso movimento binario non è più la diade luce/ombra, dove l’ombra ne è un suo prodotto, ma luce/buio, dove il secondo è assenza della prima.
Questa essenzialità degli elementi descritti dal pennello può essere goduta nella sua rassicurante alternanza del gioco cromatico, nella sua primaria rappresentazione del paesaggio come scena teatrale, pannello di cartapesta o, come nel caso del dipinto Pomeriggio, una porta del sole che conduce verso la distensione del pensiero, la sospensione del giudizio, in grado di catturare l’occhio dello spettatore in una conversazione ipnotica con il proprio spazio dell’intimità domestica: la strada è sempre deserta, nel paesaggio di Clemente, perché nessuno se non noi stessi possiamo passeggiarvi, apparenti vuoti narrativi come maschere di scena messe lì apposta per darci la possibilità di recarci a trovare la nostra essenzialità travestiti da qualcos’altro, mimetizzati col resto, così da non esporci troppo innanzi alla verità.

Coloro che immergendosi nella intimistica contemplazione di queste tele accettano di entrare nelle rarefatte atmosfere suggerite da questo singolare artista, aderiscono a dei valori plastici che rimandano a una sintesi estetica che chiede alla mente, meglio all’anima, di partecipare all’esecuzione stessa del dipinto. La tela, pur trattenendo il suo segreto imperscrutabile, non concede momenti di distrazione. Ci riporta anzi all’ordine della forma come suprema mediazione tra emozione e ragione, immobilizzando sotto l’unità della luce ciò che nel frenetico scorrere del nostro quotidiano nessuno oserebbe mai fermare, né comprimere: il tempo. E bastano le poche decine di dipinti che Antonio Clemente ha realizzato per intendere che la sua operosa ricerca, anche in ambito musicale – è del 2020 il suo ultimo album, I confini del giorno (La Stanza Nascosta Records) –, non si esaurirà facilmente. Con lui continuiamo a credere che «ogni attimo/ è così immenso/ che ogni distanza/ è troppo breve».

 

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