Emily Dickinson: per una teologia del desiderio

Emily Dickinson: per una teologia del desiderio

 

a cura di Ivana Margarese

 

A flower expected everywhere-

Emily Dickinson

“Teologia del desiderio” è un’espressione che Lorenzo Gobbi usa per descrivere la poetica di Emily Dickinson nel libro da lui curato, edito da Animamundi (2021), col titolo In Caccia Del Giorno. Sulle Tracce Del Divino.
Il testo, che raccoglie liriche di argomento mistico o religioso, inserite in sei sezioni tematiche precedute ciascuna da una breve introduzione, non ha la pretesa di esaurire la presenza del tema religioso nelle poesie di Dickinson, ma vorrebbe piuttosto offrire una possibilità di incontro e di confronto con questi testi poetici.
Emily contrasta la religione costituita sin dai tempi dell’adolescenza, quando, al Mount Holyoke College, fu l’unica tra le sue compagne di scuola a non fare pubblica professione di fede. La sua attenzione si rivolge piuttosto al mondo naturale, dal momento che per trascendere il mondo, occorre che il mondo ci sia e per attingere il “soprannaturale” è necessario che ci si rappresenti il naturale, ciò che si rivela ai nostri sensi.
La poetessa coltiva una passione per il giardinaggio, trasmessale dalla madre, Emily Norcross, e a scuola, nei sette anni passati all’Amherst Academy fino all’anno trascorso al Mount Holyoke Female Seminary, l’amore per la botanica diviene linea guida nell’educazione di Dickinson: la scienza che incontra lo stupore; la natura nel suo ciclo di nascita-morte-rinascita. Un accostarsi con delicatezza all’idea di immortalità: “Hai mai pensato che un fiore, una volta appassito e fatto rinvenire nell’acqua, possa diventare un fiore immortale… cioè che risorga? Credo che le resurrezioni qui siano più dolci, forse, di quella più lunga e durevole – perché la prima te l’aspetti, e per l’altra nutri solo una speranza” (lettera ad Abiah, maggio 1852, L 91).

Gobbi mette in evidenza l’importanza che ha per la poetessa di Amherst la cifra del desiderio, caratteristica specifica del nostro essere uomini e mortali. Il conatus essendi, la volontà di esistere propria di ogni vivente, di cui parlava Spinoza. Immanenza e indisciplina emergono come parole-corrimano per guidarci nel mondo interiore di Emily Dickinson. Così la descrive Benedetta Centovalli nel suo La stanza di Emily (Mattioni 1885): “Irriducibile e apostata, eretica e libera, sovversiva e radicale, Emily e la sua poesia sono in conflitto continuo con tutto quello che non rimanda alla verità del profondo”. La Dickinson preferisce vivere nel silenzio e nella possibilità  di raccoglimento, accompagnata da una ironia mordace verso regole, pregiudizi  e dottrine che vorrebbero fare da farmaco alle disillusioni quotidiane.

Chi non ha trovato il Cielo – quaggiù –

sarà deluso di non trovarlo – lassù –

perché gli angeli si prendono in affitto la casa

accanto alla nostra,

ovunque noi andiamo a stare.

 

Già Bonaventura nel XIII sec.  scriveva nel suo Itinerarium mentis in Deum che chi vuol seguire Dio deve farsi uomo di desideri (vir desideriorum), valorizzando l’esperienza terrena del divino. Dio non è giudice o telescopio che tutto osserva, così come Cristo non è l’unico a essere stato crocifisso, esistono molteplici calvari e sofferenze, e pochi davvero amano (Few – love at all):

Qualche volta con il cuore

raramente con l’anima

con la forza sì e no una volta

pochi – davvero amano.

Il desiderio si accompagna alla speranza di essere attesi, anche là dove sentiamo la paura di essere gli amici che nessuno aspetta: The Lord a Candle entertains/ Entirely for Thee (Il Signore tiene accesa una candela unicamente per te).

Una gioia selvaggia e debordante come quella che appartiene a chi, dopo essere stato a lungo in mare, getti l’ancora nel porto, senza più bisogno di bussola e mappe. Un riparo capace di accogliere i naufragi, le imperfezioni, le macchie che per vivere ci procuriamo sul grembiule:

Al di là della staccionata –

fragole – mature –

al di là della staccionata –

potrei scavalcarla – lo so – se ci provassi –

i frutti sono belli!

Ma – se mi macchiassi il grembiule –

Dio di certo mi sgriderebbe!

Oh, mio caro – credo che se Dio fosse un ragazzo –

la scavalcherebbe se potesse.

Ciò che è piccolo e silenzioso ha per Dickinson una grande bellezza. Le cose più elevate non si rivelano attraverso parole dette a voce alta, sono semplicemente.
La morte è elemento costante nelle numerose poesie e lettere – la sua produzione recuperata è oggi di circa 1800 poesie e 1046 lettere. Tuttavia il Cielo, la morte, arriva comunque per tutti inaspettatamente. Come scrive Simone Weil in L’ombra e la grazia:

Morte. Condizione istantanea, senza passato né avvenire. Indispensabile per l’accesso all’eternità.

 

Per comprendere meglio i temi di questo progetto, ho rivolto a Lorenzo Gobbi un paio di domande su questo testo, edito da Giuseppe Conoci in Animamundi.

Come è nato il progetto di questo libro?

L’idea di questo testo è nata molto tempo fa: da diversi anni sto sottoponendo a verifica il mio sentire religioso, e scegliendo di conseguenza, dandomi il tempo che mi serve e non precludendomi alcuna strada. Nulla di più naturale, per me, quando cerco luce su qualcosa che mi sta a cuore, chiederne conto agli amici della vita interiore che mi accompagnano da decenni: Emily Dickinson, Chagall, Paul Celan e alcuni altri. Così, ho iniziato a rileggere la Dickinson ascoltando in particolare il timbro spirituale della sua voce e il risuonare del suo rapporto con le istituzioni religiose del suo contesto di vita. Ne avevo parlato con Enzo Bianchi, ai tempi della mia collaborazione con Qiqajon, e ne era nato questo progetto con le edizioni Qiqajon: non una semplice antologia, ma uno studio, un esercizio di ascolto preciso e aperto, attento. Ho poi tradotto in modo completamente diverso da come faccio di solito, cercando di risillabare il testo alla luce delle mie esigenze interiori: interrogandolo più che traducendolo. A Bose, poi, dove da tempo mi sentivo a disagio, la comunità si è spaccata come tutti sanno; così, l’ho proposto a Giuseppe Conoci di AnimaMundi, che da tempo mi chiedeva un lavoro sulla Dickinson, ed egli l’ha accolto.

Vorrei comprendere meglio cosa intendi per “teologia del desiderio”.

Teologia del desiderio mi è sembrata l’espressione più adatta per “definire” il mondo interiore della Dickinson in rapporto al sentire religioso. Provo a spiegarmi, al di là di quanto ho premesso ad una selezione di sue poesie. Mi sembra che il mondo religioso in cui anch’io sono cresciuto fosse più spaventato che altro di fronte a questa dimensione ineludibile dell’animo umano, comunque lo si concepisca: lo slancio, il desiderio. L’ho visto spesso concentrare i propri sforzi nel dare dei limiti, nel rimarcarli, nel reprimerli o nel condannarli, come se nulla fosse più pericoloso o inviso all’Eterno; o nel chiedere al desiderio di concentrarsi sulle adempimento del dovere, sull’esercizio della pietà, sull’acquisizione di “meriti”, sul rispetto delle direttive, sullo zelo nel cosiddetto “apostolato”, o addirittura sull’umiliazione di sé, sulla rinuncia, sul compiacere un’istituzione e sull’identificarsi con le sue esigenze – come se nulla fosse più pericoloso, più indesiderabile e sconveniente di questa incancellabile cifra di libertà che è scritta dentro di noi e che tenderei, personalmente, a identificare con la “somiglianza” tra l’essere umano e Dio: il traboccare gratuito. L’affermazione aristotelico-tomista che Dio non può amare che se stesso e che amasse solo se stesso nella sua creazione, condivisa addirittura da Simone Weil in La pesanteur et la grace, mi sembra esserne la conseguenza diretta, ed è contro questa che la Dickinson si ribella, perché la vede (così la considero anch’io) come il presupposto del potere mortificante che la religione istituzionalizzata ha così spesso rivendicato per sé – devastando non poche esistenze e presentando un Dio cieco e sordo alla nostra sofferenza e indifferente alla nostra gioia, capace di giudicare e di pesare ogni creatura con una bilancia priva di pietà. Una “teologia del desiderio”, invece, restituirebbe (e restituisce) alla religiosità la sua identità profonda: essere slancio capace di accoglienza, di compassione, di gioia e di speranza, perché Dio stesso ne è pervaso intimamente.

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