Pigliare occhi per aver la mente. Dialogo con Laura Pasquini

“Pigliare occhi per aver la mente”. Dialogo con Laura Pasquini

A CURA DI GIOVANNA DI MARCO

In un suo recente saggio dal titolo Pigliare occhi, per aver la mente. Dante, la Commedia e le arti figurative (Carocci 2020), Laura Pasquini indaga il viaggio di Dante nei mondi ultraterreni, accompagnato non soltanto dalla memoria dei tanti testi studiati, ma da una biblioteca visiva altrettanto corposa e variegata che egli portò con sé nel suo sofferto peregrinare, da esule, per l’Italia. Per la figurazione dei tre mondi dell’Aldilà, Dante ebbe dunque il supporto delle arti visive che aveva visto ed elaborato nei loro significati. Significati corrispondenti all’immaginario di un tempo, dove i manufatti provenivano e aderivano a dei testi (apocrifi e non). Il bisogno della figurazione, necessario in letteratura, vede Dante ricettivo al tema, attribuendogli i dovuti riferimenti che, attraverso le forme sensibili, riconduce ai concetti: Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu (niente è nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi), sembra ribadirci accostandosi a uno dei suoi filosofi più cari, ovvero San Tommaso d’Aquino. Secondo Pasquini, l’originalità di Dante in relazione alle arti visive consisterebbe nel comprenderne con precisione le forme rispetto ai temi da declinare, ma soprattutto nell’effrazione dei modelli conosciuti, attraverso una interpretazione tanto originale quanto sublime.

 

Qual è stato il punto di partenza per questo suo nuovo studio? Attraverso questa ricerca vi è approdata o è giunta a nuove e inaspettate scoperte?

Mi occupo delle relazioni fra Dante, la Commedia e le arti dagli anni ’90 del secolo scorso (detta così sembro Matusalemme!); nel 1995 è stato pubblicato il mio primo articolo su questo tema. Col tempo la ricerca si è approfondita, i rimandi implementati. Continuo a pensare che questa sia la chiave di lettura più stimolante; lo è almeno per me, più ancora dell’analisi di ciò che è accaduto dopo, di come la Commedia è stata figurata nel tempo, a partire dai manoscritti miniati dei secoli XIV e XV, sino alle più moderne illustrazioni di Blake, Doré, Dalì e tanti altri. Il punto è che non si arriva né si approda a una scoperta; semmai ci si abitua e si impara a guardare l’arte tardoantica e medievale con gli occhi del poeta, con gli occhi di un uomo nato a cavallo fra due secoli cruciali per l’arte, capace di cogliere gli aspetti innovativi di quella a lui contemporanea e di riconoscere le intense differenze che la separavano da quella classica e bizantina, di cui comunque apprezzava la potenza evocativa e la profonda simbologia. Ponendosi dal suo punto di vista la corrispondenza fra le terzine e l’immagine viene da sé e talvolta appare addirittura scontata.

 Dante, sensibile alle arti visive, aveva intuito la grandezza di Giotto, come ben apprendiamo dal Purgatorio. Un immaginario vicino a quello di Giotto però lo riscontriamo nelle figurazioni escatologiche dell’Inferno. Per Dante e per Giotto il denominatore comune è certamente il mosaico del Giudizio universale del Battistero di Firenze. Il poeta e il pittore arrivano però a esiti diversi.

Esatto, se anche si sono conosciuti e confrontati, magari dinanzi alla controfacciata della Cappella degli Scrovegni a Padova, mentre Giotto la ricopriva del suo Giudizio universale, questi due geni della letteratura e dell’arte, che ebbero di certo il mosaico fiorentino come innegabile punto di riferimento, ci forniscono tuttavia immagini sostanzialmente divergenti del mondo infernale. L’inferno dantesco è rigidamente compartimentato e suddiviso in sottosettori in base ai peccati che le anime sono tenute a scontare, sulla base di precisi contrappassi. L’inferno di Giotto è confuso affollamento e affastellamento di anime dannate indiscriminatamente vessate dai diavoli e gettate alla rinfusa negli enormi crateri rocciosi che si aprono ai piedi di Lucifero. Esistono in verità alcune pene chiaramente differenziate: vi sono dannati appesi, cotti allo spiedo, fustigati, ingozzati, malmenati, eviscerati, ma ciò che prevale in Giotto è un caotico, terribile e comune tormento. Vi sono in effetti alcuni spunti comuni fra i due testi, quello dipinto e quello scritto: le borse appese al collo di alcuni dannati presenti nell’affresco giottesco e recuperate da Dante per la figurazione degli usurai nel canto XVII dell’Inferno, derivano in entrambi i casi dall’iconografia dell’avaro, diffusa e condivisa in epoca medievale; Giotto desume dal mosaico eseguito da Coppo di Marcovaldo nel battistero fiorentino la posizione a testa in giù con le gambe scalpitanti verso l’alto, attribuita a un gran numero di dannati, specie a quelli gettati dai diavoli nei crateri rocciosi: Dante recupererà questa immagine per rappresentare la pena dei simoniaci nel canto XIX dell’Inferno. Entrambi ricaveranno dalla pratica invalsa nell’uso medievale per punire pubblicamente le prostitute e i loro lenoni, fustigati in pubblico, le immagini dei diavoli che sferzano taluni dannati, vagamente ammiccanti in Giotto, precisamente identificati come ruffiani e seduttori in Dante. Ma si tratta di corrispondenze dovute a una tradizione iconografica diffusa e non certo a scelte condivise. Diversa è inoltre l’immagine di Lucifero. Il tema della cruenta defecazione delle anime, molto apprezzato nelle rappresentazioni infernali del Medioevo e che Giotto recepisce da alcuni noti racconti visionari, molto diffusi al tempo, non trova nessun riscontro nella scenografia del XXXIV canto dell’Inferno: il mostruoso angelo ribelle concepito da Dante è un ordigno gigantesco, che alle pale di uno smisurato mulino sostituisce le immense ali membranose per il cui movimento ineluttabile si gelano le acque di Cocito imprigionando, sino alla cintola e nella totale impotenza, lo stesso artefice di quella ghiaccia, assieme ai peccatori della Giudecca. Insomma, se anche questi due grandi innovatori nelle reciproche discipline incrociarono le loro strade, se furono consapevoli della reciproca grandezza, ispirati dai medesimi modelli, di certo non si imitarono né si sovrapposero nella loro originale figurazione dell’inferno.

I leoni stilofori fuori dalle cattedrali – elementi decorativi dell’architettura che Dante poté vedere – sono da lei messi a confronto con le tre fiere dell’inizio della Commedia (anche attraverso puntuali richiami in arte e letteratura). Proprio a proposito dei bestiari, spieghi l’aderenza di Dante ai modelli delle arti visive, ma anche agli esiti originali del poeta.

Per rispondere a questa domanda ci vorrebbe in realtà un libro intero che per fortuna è già stato scritto da Giuseppe Ledda, sottile studioso di Dante, e si intitola Il bestiario dell’Aldilà. Gli animali nella Commedia di Dante (Longo, Ravenna 2019). Io per la verità, nel mio libro, mi occupo principalmente di un bestiario infernale che il poeta poteva trarre, già carico di significati noti e condivisi, dalle decorazioni degli edifici di culto, dai mosaici pavimentali, dalle sculture dei portali e dei protiri. Fra gli animali annidati ovunque nelle chiese e nei manoscritti miniati del Medioevo e quelli messi in scena nella Commedia vi è la stessa differenza che intercorre fra un testo scritto e la sua trasposizione teatrale. Il bestiario romanico e gotico, per quanto ricco e parlante dal punto di vista della simbologia, è sostanzialmente statico, quello della Commedia è invece potentemente dinamico. Oltre a caricarsi di tutti i sensi che la tradizione letteraria aveva nel tempo attribuito loro, gli animali della Commedia interagiscono con i protagonisti della scena: le fiere si oppongono al cammino e spaventano, le cagne sbranano, le arpie straziano, le serpi addirittura compenetrano le anime dei ladri in vivide e spaventose metamorfosi. Dante vivifica la pietra scolpita attraverso la poesia e trasforma in azione drammatica un monito cristallizzato nell’arte.

Il Purgatorio è la cantica di un Aldilà abbastanza recente per Dante, peraltro parla dell’unico Aldilà che avrà un tempo. Per questo è il luogo della nostalgia, degli amici perduti, di una dimensione umana di affetti ancora vicini. Così per l’arte, Dante qui mostra la sua sensibilità verso le nuove correnti della scultura. Ribadisce sì che i bassorilievi con gli esempi di umiltà che incontra nel Purgatorio siano opera di Dio, ma è chiaro il riferimento a una nuova sensibilità artistica (soprattutto a Giovanni Pisano) che ritorna al classico. In questo senso, per Dante questo ritorno all’antichità potrebbe leggersi come l’intuizione della nuova modernità che in effetti si avvicenderà?

L’arte dei Pisano cui Dante sembra ispirarsi nella descrizione dei bassorilievi magnifici che ornano la prima cornice della montagna del purgatorio, nel X canto, rappresenta certamente un ritorno alla coerenza delle forme classiche, a una spazialità di nuovo plausibile, a un naturalismo nuovamente intenso e compiaciuto. Il poeta conosceva quella nuova tensione verso il vero insita nell’opera di Nicola Pisano, conosceva l’equilibrato classicismo gotico di Arnolfo e l’espressionismo inquieto e drammatico di Giovanni Pisano, delicatamente imbrigliato nel rigore delle forme classiche; ma soprattutto percepiva la vera novità di quest’arte che non si limitava a recuperare il naturalismo algido della classicità greca e romana e neppure si accontentava di quello patetico e scomposto dell’arte ellenistica. Nell’arte che mutava ai tempi suoi vi era la ricerca tutta nuova di uno “spazio per l’uomo”, fatto di sentimenti e relazioni, di storie e racconti, di intense condivisioni, di vita insomma, quella reale. E lui di questo cambiamento profondo che aprirà le porte all’Umanesimo, nell’arte come nella letteratura, era perfettamente consapevole: lo dimostrano i versi agonici del canto XI del Purgatorio in cui lucidamente ci dice di come l’arte di Giotto abbia superato quella di Cimabue, di come la poesia di Guido Cavalcanti abbia superato quella di Guinizelli, e di come la sua, che invece rimarrà insuperata, segni il passo successivo.

Come aveva già intuito Giovanni Pascoli, i mosaici ravennati ispirarono Dante per le visioni del Paradiso. Lei aggiunge anche che pari importanza ebbero i mosaici romani. Allora è vero: questo ritornare indietro nel tempo, alla potenza dell’astrazione bizantina avvicina la mente ancor di più all’intellegibile?

Credo proprio di sì. Il naturalismo distrae, interpreta il contingente; la natura è terrena, è spazio umano, coinvolgimento emotivo, racconto e mutazione. Se l’arte contemporanea alla Commedia andava riscoprendo il vero per potervi ambientare l’essere umano nuovamente pacificato con una natura non più ostile, l’arte bizantina sintetizzava i concetti e i dogmi in potentissime astrazioni che implicavano una profonda meditazione per essere decodificate e godute appieno. Nella terza cantica, dovendo descrivere l’indescrivibile, dovendo figurare il palesarsi delle anime sante nell’Empireo, il loro movimento fittizio, la visione di Dio e la luce eterna della sua Gloria, il poeta sceglie di seguire gli spunti figurativi suggeriti dai mosaici tardoantichi e bizantini di Ravenna, Roma e Venezia. Quell’arte profondamente evocativa aveva da tempo codificato immagini intensamente simboliche, capaci di indirizzare il fedele al cielo senza mai indugiare sulla coerenza naturalistica delle forme e delle relazioni prospettiche. Quelle luminose e cangianti dei mosaici erano immagini concise, totalmente allusive, smaterializzate e prive di tutti quegli elementi sensibili che potevano in qualche modo ostacolare l’espressione della trascendenza e della spiritualità. Dante sceglie la luce, il colore la perfezione geometrica e la gerarchia simbolica dell’arte bizantina, più adatta a indicare la via diretta per la trascendenza. Certo, quelle dei mosaici ravennati, romani e veneziani, sono immagini che difficilmente consentono una distrazione sul dato reale ma che connettono direttamente con il dogma espresso. Se questa sia la maniera per avvicinare con certezza la mente all’intellegibile, dipende da ciascuno, da quanto ognuno desideri investire nella comprensione quella stessa immagine. Ma questo vale per ogni cosa. Di sicuro le composizioni splendenti dei mosaici, così sapientemente astratte, non concedono spazio alla distrazione, eliminano l’ora e l’adesso, istituendo un canale diretto con il trascendente. Bisogna tuttavia volerne approfittare.

La mercificazione dell’immagine a cui assistiamo su vari piani ai nostri giorni svilisce quel mondo di simboli e allegorie che, un tempo, camminavano insieme ai testi. Quale strada è possibile per educare le nuove generazioni a uno sguardo più complesso sul mondo e allo studio da intraprendersi nell’ottica dell’interdisciplinarità?

Che domanda difficile! Come contrastare Facebook, Instagram, o peggio, Tik Tok? Come contrastare questa virtualità subita e difficilmente consapevole? E come farlo ora, che siamo in qualche maniera costretti al “remoto”? Remoto che non è il passato, che può costruire e fondare le radici del futuro, ma è il lontano, l’assente e gelido rapporto consentito dagli strumenti informatici che ci privano delle relazioni, che ci sottraggono i gesti, gli sguardi, gli entusiasmi e persino i malumori dell’altro, fondamentali per capirlo e sentirlo veramente. La conoscenza non può che essere dimidiata da tutto questo. La strada? Tornare appena si potrà, appena questo morbo che ci assedia ce lo consentirà, all’arte sperimentata di persona, tornare nei musei, tornare nei teatri, alle opere dei grandi, alle loro colonne sonore. Tornare ad ascoltare e ad ascoltarci, a guardare e guardarci, camminando insieme nella storia che in Italia si annida in ogni angolo e catturare di nuovo l’attenzione dei giovani attraverso la “grande bellezza” che ci rende unici al mondo. Solo sperimentando di nuovo tutto questo potremo forse distrarre le giovani generazioni dal virtuale che dissecca e inaridisce, accompagnandoli alla riconquista di quel patrimonio infinito che davvero li può arricchire.

Biografia

Laura Pasquini

Storica dell’arte medievale ha affrontato in varie pubblicazioni temi attinenti all’archeologia cristiana, fra Ravenna e Costantinopoli. Si è quindi orientata verso tematiche di iconografia medievale, in prospettiva iconologica, con particolare riguardo ai pavimenti musivi dei secoli XI-XIII, intesi come veicoli di rilevanti motivi simbolici. Gli interessi di ricerca vanno dall’approfondimento di specifiche tematiche iconologiche dalla Tarda Antichità all’Età moderna con particolare attenzione all’iconografia dantesca, alla rappresentazione figurata della città di Bologna e alle immagini del diavolo e dell’inferno nel Medioevo. Autrice di numerose pubblicazioni ha curato e tuttora segue l’allestimento di mostre tematiche.

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