La fatica di essere pigri: Intervista a Gianfranco Marrone

“So che mi accusano di superbia, e forse di misantropia , o di pazzia. Tali accuse (che punirò al momento giusto) sono ridicole. È vero che non esco di casa, ma è anche vero che le porte (il cui numero è infinito) restano aperte giorno e notte agli uomini e agli animali. Entri chi vuole. Non troverà qui lussi donneschi né la splendida pompa dei palazzi, ma la quiete e la solitudine”.
J.L. Borges, La casa di Asterione

 

Questo numero di Morel, voci dall’isola, è dedicato al mito di Arianna e al suo labirinto, immaginando scene possibili di rilettura. Asterione, il Minotauro, è una figura costretta all’isolamento. Alter ego di Teseo, l’eroe che vuole essere riconosciuto come eroe, che cerca plausi e consensi, abbiamo pensato di poterlo accostare a certe figure dell’inoperosità. Scrive Borges ne La casa di Asterione:

«Lo crederesti, Arianna? – disse Teseo – Il Minotauro non s’è quasi difeso».

La fatica di essere pigri.

Intervista a Gianfranco Marrone di Ivana Margarese

Da poco è stato pubblicato per Raffaello Cortina Editore un saggio denso di Gianfranco Marrone che racconta la fatica di essere pigri e l’esigenza di non voler fare in un’epoca, come la nostra, governata dal mito della prestazione. Un’indagine a tutto tondo, che coinvolge una serie di autori e spazia da Oblomov a Paperino, mostrando come la pigrizia non sia solo una inclinazione individuale, ma sia una passione collettiva, una forma di resistenza alla corsa e al rumore del mondo.

 

 

La fatica di essere pigri già dal titolo ci pone davanti a un ossimoro e conduce a considerare come in un unico concetto possano svilupparsi più punti di vista o addirittura in maniera dialettica dei capovolgimenti.

Dipende dai periodi storici. A lungo il lavoro è stato considerato una disgrazia, derivante dalla maledizione biblica contro Adamo ed Eva. Lavoravano solo gli sfigati, e l’ozio era per i nobili, ossia per i ricchi. A poco a poco le cose si son invertite: il lavoro è diventato azione che nobilita l’uomo e l’accidia un peccato mortale. Fino ad arrivare alla odierna società della prestazione, in cui il pigro non è manco considerato come figura sociale pertinente. Motivo in più per faticare per riuscire a essere pigri: gesto rivoluzionario.
Mai come oggi, in quella che è stata chiamata società della prestazione, la pigrizia ha un senso e un valore. Essere pigri, riuscire a esserlo, è una forma di resistenza. Il problema è rivendicare questo spazio di esercizio. E le vie che vedo sono due. O spegniamo tutto, e scappiamo via. Che è una posizione radicale. Oppure proviamo a pervertire i flussi comunicativi dall’interno, aggirando le richieste a essere sempre prestanti, operando con quella che Umberto Eco chiamava guerrilla semiologica. Per esempio, stiamo connessi ma cambiando i messaggi, cambiando i ‘generi’ della comunicazione. È una posizione situazionista che mi piace molto.

In una intervista del 1979, che tu ricordi nel finale del tuo saggio, Roland Barthes scrive : “La vera pigrizia sarebbe in fondo una pigrizia del «non decidere», dell’«esserci». Come i somari in fondo alla classe, che hanno il solo attributo di esserci. Non partecipano, non sono esclusi, ci sono, punto e basta, come dei sacchi. Di questo qualche volta si ha voglia; esserci; non decidere nulla. Esiste, penso, un insegnamento del tao sulla pigrizia, sul «non far nulla», nel senso di «non muovere nulla», non determinare nulla”. La pigrizia appare da questa prospettiva una strategia, una forma di saggezza.

Certamente, una forma di saggezza, perché è il recupero della possibilità di determinare il ritmo della propria esistenza, di decidere dunque cosa e come fare, ma anche cosa e come non fare. Non a caso la pigrizia ha molto a che vedere, come Barthes sapeva molto bene, con la cultura orientale, una cultura orientale forse un po’ immaginaria, stereotipa, ma comunque operativa. Fonte di importanti suggerimento teorici ed esistenziali.

Vorrei farti una domanda in ambito pedagogico: Mai fermi, mai pigri: è così che educhiamo oggi i bambini. Nel saggio citi Russell, che nel 1932 in Elogio dell’ozio propone un’utopia educativa: insegnare ai giovani il non far nulla. “Se ciò accadesse davvero – commenta – non sarei vissuto invano”.

Sì, l’aspetto didattico è centrale. Oggi educhiamo i nostri figli a essere iperattivi, con la giornata piena di cose (scuola, compiti, palestra, sport, lezioni di strumento, di inglese, di cucina…), senza la possibilità di avere un attimo libero per decidere se e cosa fare. Mi ricordo da bambino quando, d’estate, nei giorni festivi, nelle lunghe vacanze di Natale, a un certo punto provavamo il senso della noia. “Mamma mi annoio!”. Che meraviglia! Era tutta una possibilità di immaginarsi il proprio tempo, di gestire la propria esistenza.

Camus in Il Minotauro o La sosta di Orano scrive: “Ma in ogni uomo c’è un istinto profondo che non è di distruggere né di creare. Si tratta solamente di non assomigliare a nulla. Sembra che, per un certo tempo, chi vi cede non sia mai deluso. Sono le tenebre di Euridice e il sonno di Iside. Ecco il deserto in cui il pensiero si riprenderà, con la mano fresca della sera su un cuore agitato. Su questo monte degli Ulivi la veglia è inutile; lo spirito ritrova gli Apostoli addormentati e li approva. Avevano veramente torto? Hanno ugualmente avuto la loro rivelazione”.

Grazie per la citazione, che rientra abbastanza bene nel mio discorso sulla pigrizia. Andar oltre il distruggere o il creare. Benissimo.

“Soltanto coloro che prendono comodamente quello per cui si affaccenda la gente del mondo possono affaccendarsi per quello che la gente del mondo prende comodamente”.
Ho trovato questa frase del filosofo e traduttore cinese Lin Yutang assai significativa per una riflessione sulla valenza positiva della lentezza.

La lentezza è un mito tanto quanto la rapidità. Non a caso uno come Calvino le faceva convivere. La pigrizia è diversa, non è un elogio della lentezza ma una decisione a monte sui ritmi da tenere. La pigrizia non è slow tanto quanto non è fast: semmai è iscrizione puntuale di storture in un itinerario già tracciato da altri, è la spigolatura, il nonsense.

Il termine siciliano per pigrizia è lagnusia. Parola che fa riferimento a qualcuno che si lagna e che fa di questa lagnanza una specie di litania, un lamentarsi continuo, una insofferenza verso ogni tipo di attività. Leonardo Sciascia in Occhio di capra riporta questo modo di dire : “O santa lagnusia un m’ abbannunari ca mancu spieru abbannunari a tia”.

Sciascia dedica due pagine a questo detto. E lo usa come situazione esemplare della doppiezza della cultura siciliana. Da una parte esso va letto ironicamente: c’è un io che si rivolge alla pigrizia, pregandola di non abbandonarlo e promettendole di non abbandonarla a sua volta; ma in effetti è il parlante che sta riproducendo, con critica sottintesa, quel che secondo lui l’interlocutore è solito dire a se stesso. D’altra parte, questo adagio veniva usato anche quando i contadini lo dirigevano ai loro padroni nullafacenti e ricchissimi, verso coloro i quali essi, privi di pigrizia, lavoravano spaccandosi le ossa. Ma in Sicilia, ne concludeva Sciascia, poi finisce tutto in teatro, e anche la più rigida morale viene agitata non per credenza profonda ma per tattica sottile, per gesto controffensivo nei confronti dell’altro, o, che in fondo è lo stesso, per enfatica manovra di autocommiserazione.

Nel capitolo intitolato “ Politiche dell’oblomovismo” spieghi come il termine oblom in russo voglia dire isolamento, ma anche frammento, scheggia. Sono interessata a questa doppiezza, a questo cambiamento di senso, che è possibile anche rintracciare nel termine “ isola” che a noi di Morel sta particolarmente a cuore.

Oblomov è uno che si isola, ma tutti vorrebbero riportarlo alla socialità forzata. Nel romanzo il protagonista è tanto più pigro quanto più il suo amico Stolz è iperattivo. Ma alla fine vince lui, il pigro, che smonta pezzo per pezzo l’ideologia dell’operosità.

Nel saggio parli anche della prassi rivoluzionaria messa in scena dalla logica di preferenza di Bartleby, dal suo “ avrei preferenza di no” che non è né una affermazione né una negazione ma è piuttosto un cocciuto, irragionevole, scansarsi.

Si parla moltissimo oggi di Bartleby, giustamente. Penso ai saggi di Deleuze e di Agamben, ma anche alla interpretazione di Celati. Si tratta di personaggio inquietante e insieme lampante: a Wall street non c’è spazio per lui, che si distacca pian piano dal mondo, fino a lasciarsi morire. E senza dare spiegazioni. Preferisce soltanto di no.

Biografia

Gianfranco Marrone, saggista e scrittore, lavora sui linguaggi e i discorsi della contemporaneità.E’ professore ordinario di Semiotica nell’Università di Palermo. Ha tenuto corsi, fre le altre, nelle università di Bologna, Bogotà, IULM, Jyväskylä, Limoges, Meknès, Pollenzo, São Paulo.

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