Vivian Maier, la fotografa della soglia

Vivian Maier, la fotografa della soglia

di Ivana Margarese e Monica Mazzolini

 

Forse nessuna esperienza è capace
di dare più maturità
all’uomo della scoperta del tempo.
Maria Zambrano, Seneca

 

Vivian Maier, come Emily Dickinson o Cristina Campo, sembra essere una creatura aurorale, una  figura della soglia capace di intrecciare delicatezza e decisione. Come scrive Francesca Diotallevi in Dai tuoi occhi solamente:

Io, Vivian, sono quella che nessuno nota, quella che nessuno vede. Io li vedo, invece. Anche qui, da questa panchina, mentre la neve copre i contorni di Chicago. Vedo le loro vite incrociarsi e sovrapporsi sull’asfalto spolverato di bianco, le impronte che restano, le ombre che si allungano. Indago le pieghe della pelle, dove resta inciso il passato, scruto gli incavi dei gomiti e delle ginocchia, i bordi sfilacciati dei cappotti, le mani che si stringono, i segreti sussurrati tra i capelli, la rabbia di un gesto, la tenerezza in uno sguardo, l’insopportabile caducità di ogni istante. Questi istanti io li rubo. Li porto via a quelli che, in fondo, non sanno che farsene di quei frammenti di vita destinati a dissolversi nel momento stesso in cui accadono. Custodisco le storie che le persone non sanno di vivere.

 

Vivian Maier lavorava come bambinaia e allo stesso tempo si dedicava con passione alla fotografia senza mai mettere in mostra le sue immagini. Aspetto questo senza dubbio inconsueto in un tempo come il nostro che si affanna dietro il bisogno di celebrità. Fare fotografie è spesso un’attività che isola, ma è anche una maniera per sentirsi parte del mondo, verificare, confermare e costruire una visione della realtà. Gli scatti di Maier rivelano una poetica dell’ordinario che sembra alla maniera arendtiana un’azione di pensiero, un avanzare una domanda recondita, esistenziale. I suoi ritratti esprimono non un bisogno di sublimare la realtà quanto piuttosto l’esigenza di confrontarsi con ciò che la vita può fare a ognuno di noi e prenderne coscienza. Essere vivi infatti significa abitare un mondo che precedeva la nostra venuta e sopravviverà alla nostra scomparsa. Procediamo, ma ignoriamo dove arriveremo.
Proviamo a raccogliere indizi. Nel suo lavoro, nascosto, compulsivo e accumulatore, in oltre quarant’anni di attività, sono ricorrenti alcune tematiche: scene di strada, ritratti di persone sconosciute, bambini e soprattutto se stessa. Una documentazione attraverso street photography di ciò che succedeva intorno a lei, nel suo quotidiano ma soprattutto un modo per esprimere la sua presenza. Le immagini e il metodo compongono una sorta di diario per visioni. La fotografia è “scrittura di luce” e Vivian Maier la usa per de-scrivere le giornate, i luoghi frequentati, le persone incontrate per caso, i bambini di cui si prende cura: una costruzione di memoria metodica e ossessiva. Il parallelo trova corrispondenza nella segretezza del diario, la stessa che, fino alla sua morte hanno avuto le cose che le appartenevano: cumuli di giornali, oggetti, video, registrazioni vocali e tante fotografie, di cui davvero poche stampate. Intuitivo ancora il paragone con Emily Dickinson scrittrice di molte poesie tenute nascoste, poi ritrovate e pubblicate postume.

Riflessi: Una delle fotografie più significative di Vivian Maier è stata fatta a New York nel 1959: rappresenta il cartellone di un cinema e tra le scritte dell’insegna luminosa compare “I am a camera” (sono una macchina fotografica), una sorta di dichiarazione di quello che probabilmente sentiva di essere, una definizione nella quale riconoscersi: lei stessa era uno strumento per registrare ed assimilare tutto ciò che la circondava. La sua fisionomia è inconfondibile. Spesso abbigliata con uno stile austero, gonna lunga e camicetta, la vediamo attraverso vetrine e specchi di tutte le dimensioni e in differenti situazioni in cui l’autorappresentazione è caratterizzata da immagini dove emerge il tema del doppio. La scelta di raddoppiare, già insita nell’autoritratto, diviene un rafforzamento, una tautologia. Il riflesso dà spazio a un inganno poiché inverte e il doppio, diventa paradigma, archetipo, modello della molteplicità e complessità della natura umana. Importante anche la silhouette, estremizzazione del concetto di ombra, che cancellando tutti i dettagli la riduce ad una sagoma. In altre immagini la macchina fotografica sostituisce parzialmente o totalmente il volto e gli occhi, un altro nascondimento. Tale nascondimento è una delle caratteristiche distintive di Vivian Maier, che non solo non mostrava le sue fotografie ma spesso si faceva chiamare con falsi nomi, nel rispetto di una privacy tanto cercata. È noto che fuori dalla porta della sua camera fosse scritto: “Vietato entrare”.

Andanze: Le scene e le espressioni catturate con il suo obiettivo sono molto diverse. Talvolta ironiche, felici, talvolta alla ricerca di atteggiamenti meno sereni fino ad arrivare a situazioni drammatiche. Ancora una dualità tipica del suo carattere.  Quello che emerge con il passare del tempo, e ben visibile nel trasferimento da New York a Chicago, è un cambio di atmosfera. Nella prima città le scene sono più delicate e distese mentre nella seconda, durante le sue esplorazioni nel centro, cattura momenti che vanno dalla spensieratezza fino all’angoscia. Sorriso, pianto, severità ma anche dolore e morte: oggetti abbandonati o gettati via come la poltrona bruciata o la bambola nelle immondizie, animali morti, incidenti, edicole con i giornali e le differenti classi sociali.

Sguardi: Colpiscono gli sguardi dei soggetti ritratti che talvolta sono rivolti verso lo spettatore – in direzione di chi stava scattando la foto – e in altri casi divergono guardando qualcosa che non è possibile vedere. Come spettatori non vediamo che sguardi, gesti delle mani, posture del corpo, consapevoli che esiste qualcosa che non vediamo. Ci troviamo sospesi dentro un’immagine. Ecco che allegoricamente Vivian Maier diviene una guardiana delle esistenze altrui, una fotografa della soglia che ci avvicina ai soggetti che ritrae e al contempo ce ne allontana: noi non sappiamo dove stanno andando e loro non sanno che lei/noi li stiamo guardando. Colpisce lo sguardo obliquo di Vivian nei suoi autoritratti, in alcuni dei quali è un’ombra che si proietta sulla strada, in altri solamente un riflesso allo specchio.

Contatti: Vivian Maier fotografava persone che si tenevano per mano o si abbandonavano l’una all’altra a cercare un contatto. Siamo qua insieme. Sono per lo più coppie di adulti, appartenenti a differenti classi sociali, in cui emerge il senso di protezione, spensieratezza e complicità, talvolta l’ironia. L’inquadratura è stretta su di loro e, seppur presente, il contesto passa in secondo piano mentre emergono le espressioni, gli atteggiamenti, l’azione delle mani che raccontano tanto quanto gli occhi. Entrambi elementi fondamentali talvolta tagliati dall’inquadratura o sapientemente celati mettendo in risalto l’uno o l’altro. Differenti sono le situazioni descritte e diverse le sensazioni che riceviamo guardando queste immagini. Una panoramica dei moti dell’animo a descrivere la complessità della società ma anche il carattere molteplice della stessa fotografa che in queste situazioni, forse, cercava d’immedesimarsi. Lei donna solitaria, della quale non sappiamo se abbia mai avuto legami sentimentali e di cui conosciamo una sola amica molto più grande di lei. Attraverso lo sguardo fotografico Vivian Maier stabiliva un contatto, custodiva ciò che le passava intorno.
Scrive Cristina Campo in Il mio pensiero non vi lascia: “Ho tante cose da dire! Quasi direi da salvare: tutta la tragica bellezza di ciò che è passato in noi e vicino a noi – cose che io sola sento di aver visto e sentito fino alla sofferenza e che assolutamente non devono morire”.

3 Comments
  • Giulio D'Ercole
    Posted at 14:28h, 02 Maggio Rispondi

    Complimenti. Questo articolo é scritto molto bene e ci fa capire, in relativamente poche righe, chi fosse Vivian Maier e quale fosse la sua poetica. Sicuramente mette voglia, a chi non dovesse già conoscerla, di andarla a scoprire. Come molti altri probabilmente, mi chiedo quanto questa visibilità improvvisa e “virale” si direbbe oggi, sarebbe stata accolta dalla fotografa. Probabilmente l’avrebbe vissuta come una violenza e noi tutti siamo complici di uno, perdonate la crudezza del termine, stupro di massa. Fortunatamente tutto questo sta accadendo anni dopo la sua dipartita e quello che Vivian Maier, morta poverissima, ci lascia é un’eredità tanto immensa da essere impossibile da valutare e di cui dovremmo esserle tutti profondamente grati.

    • Ivana
      Posted at 14:42h, 02 Maggio Rispondi

      Grazie, condivido il tuo pensiero su Vivian Maier seppure lascio aperta la domanda : Davvero Vivian non voleva essere trovata? L’essere riconosciuti penso sia profondo desiderio di ogni essere umano. Non ho comunque e immagino non avrò una risposta definitiva alla domanda.

    • Monica Mazzolini
      Posted at 07:58h, 18 Giugno Rispondi

      Caro Giulio, grazie per il tuo interesse ed il tuo commento. Anche io concordo con le tue parole e concordo con Ivana e la sua domanda alla quale non è possibile dare risposta. Quello di Vivian Maier è un “diario” e come tale, è pensiero comune che, la sua caratteristica principale sia la segretezza. Ma mi chiedo se è davvero così nel caso specifico. Forse chi non vuole lasciare traccia di sé non lascia alcuna traccia dei suoi pensieri o delle sue fotografie ma dobbiamo anche considerare il come lei si sia relazionata con questo suo modo di fotografare in maniera compulsiva e ossessiva. Tante fotografie. Alcune (davvero poche) stampate e moltissime nascoste anche a sé stessa. Rullini non sviluppati, come se le bastasse vedere con gli occhi e ricordare con la mente. Fissare su pellicola, quasi fossero più importanti la vista ed il gesto che non il risultato ottenuto e la conseguente prova tangibile dell’evento da rivedere a posteriori come si riguardano gli album di fotografie… Quello di Vivian Maier è un atteggiamento che ha, con le differenze del caso, dei rimandi con il modo odierno di fotografare. Una modernità fatta di bulimia dell’immagine in cui siamo propensi a scattare molto, conservare su supporti hardware, spesso non riguardare le fotografie fatte, se non per il momento effimero della condivisione con il mondo virtuale.

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