Diagrammi editoriali

a cura di Muriel Pavoni

 

 

In Italia si pubblicano circa 85.000 libri all’anno, però cala il numero dei lettori. Negli ultimi anni siamo sommersi da contenuti culturali e grandi eventi che rinnovano il rito della promozione, dove il piacere dell’incontro con nuovi libri ed editori, viene sostituito dalla smania del selfie e dell’autopromozione da parte dell’autore esordiente, che spera inutilmente di farsi leggere da qualche editore. Il mondo della cultura sembra puntare unicamente sulla quantità; offre pochissimo spazio alle idee e consuma in brevissimo tempo la vita del libro, che in un paio di mesi è già obsoleto, contro i sei mesi (già pochissimi) di qualche anno fa. I lettori e i “consumatori culturali” soffrono la frustrazione della rincorsa alle nuove uscite e restano indietro rispetto ai libri da leggere, i film da vedere, gli eventi culturali a cui partecipare eccetera eccetera.
D’altro canto gli autori esordienti si scontrano col pregiudizio delle grandi case editrici, che li ignorano, e delle piccole, che li pubblicano senza distribuire e promuove ciò che (in teoria) loro stesse hanno scelto. Si punta principalmente sulla catena di montaggio editoriale (il produrre incessantemente nuove uscite) e sul fatto che poi l’autore esordiente avrà la motivazione necessaria per autopromuoversi e far (finalmente) rientrare la casa editrice nelle spese sostenute, senza applicare una vera e propria scelta sulle proposte editoriali, concorrendo invece alla continua immissione di materiale culturale da dare in pasto al mercato.

Abbiamo chiesto ad alcuni autori un parere a riguardo.

Elisa Audino e il senso di impotenza.
Dare responsabilità al lettore della qualità dei libri in circolazione è come darla all’elettore. Sì, certo, l’elettore è responsabile del proprio voto. Ma cosa influisce sul suo voto? Anni fa ero in una piccola località ligure, era giugno, il mese migliore. In spiaggia accanto a me, tutti i giorni, una donna di una bellezza rara, elegantissima, con un bambino dell’età dei miei figli. Era il 2019, quindi tempi non sospetti. La donna era russa, ma viveva in Italia. Iniziamo a parlare di politica, lei con rammarico mi racconta di alcune sue amiche di infanzia, tutte laureate, una in medicina, l’altra in giurisprudenza, che ricamavano le iniziali di Putin sulle tutine dei figli. Putin aveva già iniziato la sua campagna di intolleranza contro gli europei. Le chiedo spiegazioni, mi parla di quelli che per noi sono diritti civili e che Putin usa come strumenti per definire un noi e un loro. Omosessualità, la deriva dei costumi, cose così. E, poi, la donna conclude con un detto russo: «Quando le rane saltano nello stesso fosso troppo a lungo, poi non riescono più a vedere la luna». Arrivo al dunque. Ieri ero a una presentazione di un autore di discreto successo, grande e rinomata casa editrice, una fortunata serie di libri con lo stesso protagonista, un film all’orizzonte, scuola Holden. Anche a lui viene posta la solita domanda sulla situazione di salute dell’editoria, facendo riferimento al numero spropositato di libri pubblicati e al numero di lettori a picco. L’autore risponde facendo riferimento allo scarso coraggio degli editori, che punterebbero a rassicurare il lettore, a dar loro quello che è in grado di capire, tenendo, quindi, bassa la qualità. Sono d’accordo sulla mancanza di coraggio, i grandi editori mi sembrano del tutto simili all’industria dell’abbigliamento nella quale lavoro. Innumerevoli varianti dello stesso prodotto, pensato sulla base di quello che già funziona e che è già in circolazione. Si ordinano i quantitativi sulla base delle scelte passate di articoli similari. Opinabile, ma prudente. Ma quell’autore, ieri, si è spinto più in là. In sostanza, ha dato la responsabilità al lettore, che trovandosi davanti a uno dei tanti libri di successo commerciale ne risulterebbe soddisfatto, addirittura contento. Uno sciocco? Io ho pensato alla rana nel fosso. Poi, agli editori che ancora rischiano – e che ci sono e spesso sono i più piccoli – , alla grande distribuzione, certo (il mangiatutto), ma soprattutto all’enorme potere dei media. Che nessuno nomina mai.
Non so se avete mai provato l’esperienza di passare un pomeriggio intero in una libreria, non per acquistare dei libri, ma da spettatori. A me è successo, per un firmacopie. È un po’ come stare in una spiaggia attrezzata ad ascoltare i discorsi dei vicini di ombrellone. Ero lì, al mio tavolino, ad aspettare che si avvicinasse qualche curioso – pochi – e, intanto, osservavo. È stata un’esperienza illuminante. Quasi tutti, se non tutti, chiedevano titoli di successo, di cui quindi era già stata fatta ampia pubblicizzazione. Una signora dell’alta borghesia aveva l’abitudine di farsi ordinare dei titoli, sfogliarli seduta sul divano e poi, come nulla fosse, restituire quelli che le sembravano brutti. Usava la libreria quasi come una biblioteca. Un uomo vestito in tuta mimetica, arrivato in orario di chiusura, voleva un libro su uno dei tanti complotti del momento. Una ragazza cercava poesia, per un attimo ho sperato in un Beat, ma era interessata ai soliti autori scolastici. La dittatura della tradizione.
Mi sono sentita piccola. Senza potere. Ma qualcuno ce l’ha.

Francesca Capossele. Leggere: questo antico atto morale.
Parlare oggi della desolante curva in discesa della lettura nella società occidentale, significa fare i conti con una tendenza ben visibile nella realtà culturale almeno fin dagli anni’70 del secolo scorso. Certo, allora era una specie di anemia interna che aveva colpito prima la critica letteraria e poi il romanzo, inteso come capacità semplice di scrivere storie, di raccontare, a patto di avere qualcosa da dire.
Da un lato, la critica era all’inizio di quel processo di rinuncia, appunto, a criticare, demandando questo mestiere non ai professionisti, ma, con tutto il rispetto, a semplici operatori del settore (giornalisti, opinionisti, influencer, negli ultimi decenni), i quali esprimono pareri personali, che sono legittimi nel salotto di casa, dove un lettore deve essere libero di fare del libro quello che vuole, ma in pubblico bisogna rendere conto delle proprie opinioni e lo si fa partendo dal testo e dal contesto (oggi ampiamente confusi o ignorati).
Dall’altro lato, il romanziere è dentro a quel processo dell’arte nel tempo della sua riproducibilità tecnica – descritto ampiamente da Walter Benjamin – che, in un’ottica senza scampo, prima ancora di minare la credibilità dell’opera, la moltiplica in un allucinante gioco di specchi, che erode il tempo, l’attenzione, la visibilità del prodotto artistico, prima ancora che la sua autenticità.
Non viene risparmiata neppure la storia della letteratura, come ben sa chi la deve insegnare, oggi sottoposta non solo alla tirannia di progetti, programmi e controlli arrivati perfino all’università, ma reificata, essa stessa, nel triangolo delle Bermuda di “autore-opera-pubblico”, almeno per quanto riguarda gli ultimi cinquant’anni del 1900.
E se il pubblico è sicuramente un elemento portante, inteso come “campo di reazioni che si sposta nel tempo”, non può diventare, in termini di successo, il principale metro di giudizio per consigliare un percorso, un libro di poesie, un romanzo.
E direi che proprio a scuola inizia quella lenta erosione di lettori che oggi viene lamentata dalle indagini di settore. Se gli insegnanti non sono più liberi di sanzionare l’ignoranza, intesa latinamente come semplice mancanza da colmare, se il voto negativo è un’offesa invece che un’occasione per stare in silenzio un pomeriggio intero, annoiandosi a morte, senza supporti tecnologici, nel tentativo di fare un commento (introduzione, svolgimento, comprensivo delle figure retoriche e non dei pareri personali che non interessano a nessuno, conclusione), allora prendere un diploma non sarà più garanzia di saper leggere testi complessi, come sono appunto quelli che siamo abituati a considerare artistici. In verità non sarà più garanzia di niente.
C’è poi da considerare il contesto: globalistico, anglofono e digitalizzato che non incoraggia certo l’amore per il romanzo storico. Ultima, ma non ultima, viene quindi la famiglia. Osando il ridicolo, si può ricordare che l’esempio è tutto. Leggerò più facilmente se ho visto leggere, se a casa ci sono dei libri, se mi è stato concesso di sprofondare nel silenzio, dove ho dovuto inventare il mondo, oppure se tutto questo mi è stato impedito ed esplicitamente, come succedeva alle ragazze, fino agli anni’50 e dappertutto, e anche oggi continua a succedere dove ben sappiamo, ma non è carino dirlo.
Un’ultima considerazione. Dietro ai numeri c’è un mondo, come abbiamo imparato a nostre spese dopo il periodo della pandemia. Secondo un dato riportato anche al salone del Libro di Torino, sembra che si siano venduti più di ottocentomila libri in meno nel primo trimestre del 2025, rispetto all’anno precedente. Ora, è noto che i metodi di analisi sono cambiati rispetto al 2023; dall’anno dopo sono stati estrapolati addirittura da due origini diverse. Inoltre il valore del venduto fino al ’23 era stato calcolato sul prezzo di copertina, mentre in seguito deve essere stato calcolato al netto di eventuali sconti. Questo è quanto, confusamente, so io e potrei naturalmente avere informazioni imprecise o incomplete, ma è chiaro che vi sono delle varianti che possono sfuggire. Una di queste è sicuramente l’acquisto diretto dagli editori, una pratica largamente usata dai gruppi di lettura, o sulle piattaforme degli editori medesimi o, appunto, direttamente. Sono copie che non vengono conteggiate. Ci sono poi gli sconti, alcuni pervasivi come le “campagne-Amazon”, anche quelli creano cali e fluttuazioni del fatturato.
Più interessante sarebbe sempre differenziare: cosa ha venduto di più, cosa di meno? Ma anche fare questo non è facile, sia pure muovendosi in uno schema di dettaglio, bisogna accontentarsi sempre di dati, diciamo così “ufficiali”.
Personalmente, non sono molto ottimista, ma più per ragioni storico-sociali, che per le attuali oscillazioni verso il basso di un mercato che ha sempre avuto una consolidata tendenza al lamento e che oggi deve fare i “conti della serva” con un pubblico impoverito, che legge, magari, i libri prestati o solo quelli regalati o, anche, presi in biblioteca (io conosco almeno una decina di persone che fanno così).
L’ultima parola resta comunque affidata al libro, non come oggetto di mero consumo, ma come espressione di un’epoca e di un gruppo sociale, e più il libro è grande, più rivelerà alla società il proprio volto. Ora, chiedetevi qual è il profilo del mondo oggi e vedrete che l’oggettiva difficoltà di ritrarlo non potrà che essere evidente.
Il resto non riguarda noi, ma i posteri, perché sono loro che creano i miti, ammesso e non concesso che ce ne siano ancora nel nostro periodo. Il mito nasce dalla estraneità che luoghi e tempi ci ispirano e talvolta dall’alterità rispetto alla nostra stessa vita, si esprime nell’arte, in modo che l’uomo possa tentare di emanciparsi, epoca dopo epoca, dai pregiudizi, dalle paure, dalle ombre del proprio momento storico. Per questo un libro, un romanzo, anche quello che viene definito un romanzetto, sarà sempre una grande porta che si apre sulla realtà, cambiandola di colpo.

Katia Dal Monte: il senso di solitudine dell’autrice esordiente.
Ho cominciato a pubblicare come autrice “singola” abbastanza avanti in età (prima partecipazione a raccolte di racconti di vari autori legate a laboratori di scrittura o pubblicazioni estemporanee in riviste) e questo anche credo che sia penalizzante. Lo scrittore esordiente per avere qualche chance in più deve avere vent’anni e porsi come un fenomeno giovanile. Poco importa al mercato e alle case editrici la maturità della scrittura.
Ho pubblicato due romanzi con la stessa casa editrice che mi ha chiesto in entrambi i casi l’acquisto di cento copie
E questo dà di per sé il senso della “scelta” operata dalla casa editrice che di fatto pubblica moltissimo e si occupa pochissimo della promozione vera di ogni libro. La promozione e la vendita di fatto è affidata all’autore che si sbatte a cercare occasioni di presentazioni.
Le quali presentazioni sono a volte assolutamente improduttive. Non ci sono notizie sui media, le vendite sono ridicole, il pubblico spesso di poche persone. E quelle persone che ci sono in gran parte sono invitate direttamente dall’autore.
Quindi la ripetitività e la frustrazione, la sensazione di parlarsi addosso, sono predominanti.
Nel mio caso anche la partecipazione a concorsi è stata affidata unicamente a me, con carico economico a volte sostenuto, tanto che in diversi casi non ho partecipato.
L’esperienza che ho avuto con il primo libro, “La casa dell’aviatore” è stata positiva da altri punti di vista, trattandosi di un argomento legato alla storia locale ha dato modo ad alcune scuole di utilizzarlo come testo per spettacoli o letture, ma niente di tutto ciò fa capo al mondo editoriale.
In realtà il sentimento dominante è la solitudine e la casualità.

 

 

 

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