Giacomo Leopardi fra Napoli e Torre del Greco. Villa delle Ginestre Storia di una Casa di Campagna

 

a cura di Angelo Di Ruocco

Dall’antica Strada Regia delle Calabrie, ora Via Nazionale a Torre del Greco, percorrendo una stradina in direzione del Vesuvio per circa un chilometro, si arriva tra le due colonne d’ingresso degli antichi poderi dei Carafa d’Andria, da qui parte  Via Villa delle Ginestre, una stradina pavimentata con basolivesuviani che porta fino a Villa delle Ginestre, dimora che in due lunghi periodi del 1836.37, ospitò il poeta recanatese, Giacomo Leopardi.  La villa di proprietà della famiglia Simioli già sul finire del 1600, che nel luogo possedeva un vasto podere molto presumibilmente coltivato per gran parte a vigneto.

In origine era poco più ampia delle case dei contadini ed era usata come dimora di villeggiatura estiva o per sorvegliare il vigneto, una “Casa di Campagna”. Nei primi decenni del ‘700 fu alquanto ampliata per opera del Canonico Giuseppe Simioli che vi eresse anche una piccola cappella dove, solitamente, celebrava messa nel tempo che passava nella Villa; di questa cappella oggi non esiste più traccia. La villa, anche se un po’ fuori dal contesto e dal noto itinerario delle Ville Vesuviane del ‘700, quasi tutte distribuite lungo l’asse dell‘antica Strada Regia delle Calabrie – è di grande interesse, non solo per la sua storia secolare e perché il suo nome è legato al soggiorno di Leopardi, ma anche per le sue bellezze naturali, dovuto sopratutto alla sua posizione geografica, sospesa in una zona collinare, con alle spalle il maestoso Vesuvio e di fronte, tutto il Golfo di Napoli, da Procida a Punta Campanella.   La costruzione a pianta quadrangolare ha due piani ed è circondata per tre lati (tranne il nord) da un portico coperto sostenuto da 20 colonne tuscaniche in muratura ed intonaco. Su di esso poggia il terrazzo scoperto al primo piano che circonda per tutti i quattro lati la costruzione. Il terrazzo con le colonne, realizzato ad intonaco liscio con le basi in pietra vesuviana ed i capitelli con varie modanature, conferiscono alla villa una connotazione Neoclassica, nonostante la stessa sia catalogato quale Villa Vesuviana del ‘700, in pieno epoca barocca. Le opere furono realizzate da Riccardo Carafa (padre del proprietario Antonio Carafa) nel 1907, insieme ad altri lavori di ampliamento rispetto al nucleo originario, quando si insediò la numerosa famiglia Carafa; a quell’epoca risale anche la posa in opera di una bella meridiana sulla facciata principale, meridiana che reca la scritta “Sine Sole Sileo” e che tuttora segna impeccabilmente l’ora esatta. Al primo piano si trova la stanza dove alloggiava il poeta, mantenuta intatta dai vari proprietari che si sono succeduti nell’ultimo secolo e mezzo, una stanza di modeste dimensioni con una finestra all’epoca, ora balcone, che dà sul terrazzo e che guarda verso oriente; in essa sono conservati ancora i mobili originali, il letto, la scrivania con un leggio, un paio di sedie, il cassettone e qualche suppellettile. In epoca più recente, nella Villa dopo decenni di totale abbandono, nel corso degli anni ‘90 si sono realizzati vari lavori di restauro e di ammodernamento, per rendere il luogo fruibile a visite e ad eventi culturali. La stradina, una volta comune, che passava davanti al porticato dell’ingresso principale, è stata spostata una ventina di metri più a valle, così come sul suo fianco meridionale è stato creato un teatro di verzura con circa 400 posti, dove si tengono concerti e spettacoli di vario genere; alle spalle, l’originario giardino è stato ampliato e risistemato con piante tipiche del luogo, albicocco, agrumi e mandorlo, alcune aree sono state destinate ad orto didattico per le scolaresche, all’interno invece, i servizi necessari per la ricezione. Alcuni ambienti, come la meravigliosa antica cucina con i focolai a legna, conservano ancora il rivestimento originale di riggiole napoletane, così come il pavimento della stanza del poeta è stato lasciato com’era in origine, un lastrico battuto di calce, malto, lapillo e pozzolana vesuviana, costruzione tipica del territorio.


Un po’ di Storia

Il Canonico Giuseppe Simioli, un uomo in vista del clero napoletano, con la direzione di varie Congregazioni religiose, dotto non solo nelle discipline ecclesiastiche e con amicizie influenti, di conseguenza la villa di campagna era frequentata da personaggi in vista dell’epoca, come Bernardo Tanucci, giurista straordinario e Primo Ministro alla corte dei Borbone; lo stesso architetto di corte, Vanvitelli, pare che una sera dopo la cena fece uno schizzo approssimativo della scala marmorea, semplicissima ma di giuste proporzioni, che conduce al piano nobile.  Una sorella di Andrea Simioli, di nome Margherita, sposò Diego Ferrigni Pisone, di antica famiglia e la Villa formò parte della dote di Margherita, non si sa se la ebbe per eredità dal fratello o per altro. Comunque sia, la Villa divenne proprietà dei Ferrigni. Questi abitavano la piccola casa immersa nel verde e circondata da vigneti durante l’estate e continuarono le tradizioni ospitali dei Simioli: uomini di spiccato valore artistico e letterario si recavano nella Villa attratti dalla bellezza del luogo e dalla buona ospitalità. Un brutto giorno di fine giugno dell’anno 1806 la famiglia Ferrigni fu costretta a fuggire dalla Villa e a rifugiarsi a Napoli, poichèil Vesuvio in eruzione minacciava seriamente la casa, fortunatamente però dopo aver distrutto quasi l’intero vigneto, il magma lasciò miracolosamente incolume la costruzione. Sulla lava ormai spenta a poco a poco si formò uno strato di terra su cui spuntarono le prime ginestre. Nel 1826, Giuseppe Ferrigni, figlio di Diego, senatore del Regno, magistrato e letterato, sposò la giovanissima Enrichetta Ranieri, dalla cui unione nacquero: Clotilde, Ifigenia, Argia e Calliope (di Calliope troviamo testimonianze nella corrispondenza del poeta) . E dobbiamo proprio ai coniugi Ferrigni- Ranieri, persone di alto spessore non solo culturale, la concessione della villa al cognato Antonio Ranieri per ospitare l’amico sodale Leopardi a villa Ferrigni.

Il Leopardi, su consiglio dei medici Mannella e Ponsiglione, come supremo rimedio ai suoi tanti malanni, l’aria di Torre del Greco notoriamente portava benefici per la cura dell’idropisia, percorrendo con una carrozza la piccola stradicciole di campagna, nell’aprile del 1836, insieme ad Antonio e Paolina Ranieri, una donna di casa Ferrigni e il cuoco torre Giuseppe Ignarra, giungono alla casa, portando con loro solo qualche materasso. Il poeta nelle belle giornate fa delle passeggiate con il Ranieri, conosce e si intrattiene a parlare con i contadini del luogo. Non ci sono dubbi che il soggiorno abbia arrecato gran sollievo all’anima e al corpo infermo del Poeta, grazie soprattutto all’aria balsamica, la quiete del luogo e la compagnia degli amici devoti, ai buoni prodotti della terra, alle tante accortezze della servitù di casa Ferrigni e alla buona cucina del cuoco di casa, il torrese Giuseppe Ignarra, che non solo esaudiva i capricci del poeta che consumava i pasti nelle ore più insolite, ma si atteneva al menu steso dallo stesso, le famose “49 preferite da Giacomo” il cui il manoscritto è conservato presso la Biblioteca Nazionale in Napoli. Tutto questo, nonostante il Poeta riconoscesse il grande giovamento che gli arrecava l’aria del luogo, ritenuta dai medici “prodigiosamente diuretica”, cioè adatta alle cure del Leopardi che era idropico, soffriva la lontananza dalla Capitale, i caffè e le gelaterie di Napoli di cui era ghiotto, gli mancavano. Giuseppe Ferrigni ed Enrichetta Ranieri accolsero Leopardi con grande calore, facendolo sentire a suo agio cercando in ogni modo si soddisfare tutte le sue voglie, un calesse con il cocchiere era sempre pronto, non solo per delle escursioni nei dintorni, come agli scavi di Pompei ed Ercolano, anche per andare a prendere del pane particolare di un fornaio di Torre Annunziata o un gelato al centro della nostra città, se non qualche delizia nella Capitale. Nel giugno del 1836, Leopardi ritorna a Napoli alla casa di Vico Pero, ma non passa troppo tempo che i medici, consigliano di ritornare all’aria benefica della casa di campagna, cosi nell’agosto dello stesso anno, è di nuovo a Torre del Greco. Nel frattempo, a Napoli, per le deplorevoli condizioni igieniche, scoppia il colera, il Leopardi, pur soffrendo la lontananza dalla capitale,  è costretto a rimanere in campagna, costrizione questa, resa gradevole in tutti i modi, dallo stesso Ranieri che cerca di soddisfare le tante voglie dell’amico sodale, pagando un corriere privato che quasi tutti i giorni da Napoli, gli reca le amate ghiottonerie, e dalla servitù di casa Ferrigni, che verso il conte “Giacomino“, ha tutte le accortezze. Durante il suo soggiorno nella casa alle falde del Vesuvio, il Leopardi, oltre alle sue ultime liriche, La Ginestra o Fiore del Deserto e Il Tramonto della luna, che sono il suo testamento letterario, qui compose anche molti dei suoi ultimi pensieri più belli;  per uno strano caso, poco lontano dalla Villa abitava una giovane contadina che aveva il nome di Silvia, rarissimo in quei luoghi. Nelle sue passeggiate, il Poeta giungeva spesso alla dimora di Silvia e s’intratteneva a conversare con lei. Come all’interno del podere dei Ferrigni, ancora oggi esiste un pozzo profondo una trentina di metri, ove si raccoglieva l’acqua piovana,  che il poeta in un bellissimo passaggio del suo componimento La Ginestra, riporta che, il gorgogliare delle acque di questo pozzo domestico, era il segnale che da li a poco sarebbe avvenuta una eruzione vulcanica, poiché si liberavano i gas dal sottosuolo, pertanto le persone del contado, prendevano le poche cose necessarie, i bambini e si mettevano al sicuro. Doveva tornare a Villa Ferrigni per la terza volta, quando a Napoli stava diffondendosi con rapidità il colera, Ranieri da varie volte l’appuntamento al cocchiere, ma la partenza viene spostata di giorno in giorno, fino a lasciar trascorrere la giornata del 13 giugno 1837, la festa di Sant’Antonio e l’onomastico di Antonio Ranieri. Il giorno 13, il Ranieri e la sorella preparano ogni cosa, vanno a salutare l’anziano padre che, regala loro due cartocci di confetti cannellini provenienti da Sulmona. Tornata a casa a Capodimonte, Palina li regala al poeta che, ghiottissimo e senza freni come sempre, li divora quasi tutti. Il mercoledì 14 giugno, verso le 5 del pomeriggio, il cocchiere soprannominato Danzica già da tempo è in attesa con la carrozza giù al palazzo, ma il poeta, sempre sgretolato, dopo aver bevuto una cioccolata e chiesto una granita ghiacciata di limone, tenta di mangiare del brodo ma non ci riesce, chiede di rimettersi a letto. Non si sente bene, chiede del dottore mentre per tre volte tenta di alzarsi e poi di nuovo riadagiato nel letto. L’amico Ranieri si adopera per andare a prendere il dottore e con la carrozza in attesa, trova il dott. Mannella a casa e in un tempo abbastanza breve, sono al capezzale di Leopardi. Il poeta si rallegra alla vista dei due, ma da li in poi, entra in una fase di pre coma, il bravo Mannella tira in disparte il Ranieri e lo esorta a trovare un prete per l’estrema unzione. Questi manda subito a chiamare un frate nel vicino convento dei Frati Agostiniani. Moltoprobabilmente proprio i confettini dolci di Sulmona, il poeta con il capo sostenuto da Paolina, il Ranieri che gli asciugava il sudare dalla fronte, pronuncia le ultime parole e rivolgendosi all’amico gli dice: “Non ti veggo più!” e cessa di respirare.


Dal 1846 i Ferrigni si stabilirono definitivamente a Napoli e la villetta vesuviana tornò ad assumere i caratteri di casa di villeggiatura estiva; ma un triste destino incombeva su di essa. Infatti poco dopo l’unità d’Italia cominciarono i tempi del brigantaggio nelle province meridionali: le falde del Vesuvio e quindi la Villa erano circondate da numerose truppe del temutissimo Pilone (Francesco
Cozzolino), il quale stabilì il suo quartier generale proprio presso la Villa Ferrigni, prendendola con forza cacciando via i custodi. Dopo l’uccisione di Pilone durante un agguato tesogli da agenti Piemontesi con la complicità di un amico compiacente (lautamente pagato) dello stesso Pilone, nei pressi dell’Orto Botanico, la coppia di umili coloni, custodi della villa, accusati ingiustamente di connivenza con lo stesso Pilone, scontarono dieci anni di pena nelle dure galere dei Savoia. Alla morte del senatore Giuseppe Ferrigni, avvenuta in Torino il 29 dicembre del 1864, la villa toccò in eredità alla figlia Argia. Argia sposò nel 1851 Luigi Di Gennaro, il figlio primogenito della coppia, Amerigo Di Gennaro ereditò la Villa nel 1907. Amerigo sposò nel 1897 Adelaide Leopardi (nipote del poeta), e presero a dimora la “Casa di campagna”, ma la bella Adelaide morì proprio nella villa dopo qualche mese dal matrimonio per una malattia fulminante. Amerigo non ne volle più sapere di ritornare alla Villa e, per testamento pubblico del 1907, donò la proprietà di Torre al cugino Antonio Carafa. Da qui inizia il periodo dei Carafa d’Andria, antichissima e blasonata famiglia nobile, con vasti possedimenti fino in Puglia (Andria – Casteldel Monte) e che hanno lasciato un segno del loro vissuto in questi luoghi, per la loro nobiltà d’animo, per la loro generosità e per la vasta cultura. Per alcuni di questi, soprattutto per Eleonora Carafa d’Andria maritata con il marchese Luigi De Cillis, soprannominata “ ‘A Marchesa” che ha vissuto in un palazzotto circondato da un vasto podere a non lontano da Villa delle Ginestre, c’era un vero culto e un enorme rispetto della persona, da parte dei suoi coloni, dei suoi servitori, dalle persone del posto ma anche da persone di rilievo che venivano ad ossequiarla. Antonio Carafa sposò in prime nozze nel 1915 Fiammetta Soderini, alla morte di costei nel 1929, Antonio Carafa decide di stabilirsi fuori Napoli cosicchè sul finire del 1938 vendette la Villa alla sorella Vittoria, moglie del Conte Alessandro de Gavardo; Vittoria ed Eleonora Carafa d’Andria, hanno vissuto a lungo nella villa, e proprio alla mamma, Enrichetta Capecelatromaritata con il senatore Riccardo Carafa, dobbiamo una preziosa pubblicazione del 1934 sulla storia della “Casa di campagna”. La contessa Vittoria, donna coltissima, dai modi gentili e raffinati, rimase in Villa fino alla morte del marito avvenuta nel giugno del 1960. Donna Vittoria parlava correntemente 5-6 lingue, a lei dobbiamo delle preziose traduzione degli autori classici russi (Tolstoj – Cechov) tradotti direttamente dal russo. Vittoria e Alessandro De Gavardo ebbero due figli, Marialivia sposata ad un aviere inglese e deceduta in Inghilterra nel 1988, e Lodovico, che ha lasciato la vita terrena qualche anno fa, persona tenera e dalla vita molto travagliata. Vittoria Carafa d’Andria durante il periodo che ha dimorato a Villa delle Ginestre, battezzata così proprio all’inizio del secolo con la venuta dei Carafa, custodì con amore la memoria ed i luoghi del poeta, non negando la visita alla stanza e le sue dotte elucubrazioni sul poeta a chi andava a farle visita. Negli ultimi tempi in età avanzata e con un bilancio familiare non proprio florido (i Carafa avevano donato in parte ai loro coloni e ceduto per poco i loro terreni in zona) non potendo più reggere la gestione della Villa, un fabbricato voluminoso e bisognoso di manutenzione, mise in vendita la proprietà. Così, nel 1962, il Ministero della Pubblica Istruzione, per impedirne l’acquisizione da parte di privati, diede l’incarico all’Università degli Studi di Napoli Federico II di acquistarla con fondi messi appositamente a disposizione. In tempi recenti, la Villa , Patrimonio pubblico e dichiarata Monumento Nazionale, per concessione della Federico II, è gestita con tutte le attività annesse, dalla Fondazione Ente Ville Vesuviane.

Fonti: Storia di una Casa di Campagna – Enrichetta Capece Latro (1936)

Giacomo Leopardi fra Napoli e Torre del Greco – Ciro Di Cristo (2007)

No Comments

Post A Comment