
26 Mag Leggere e scrivere “Quello che so di te”
di Gianna Cannì
Maternità, pazzia, scrittura e il sole implacabile e luttuoso della Sicilia.
Nell’ultimo libro di Nadia Terranova, Quello che so di te, il punto di partenza è la consapevolezza di una discontinuità biografica e creativa rappresentata dalla maternità: “In quel momento, dentro quel preciso nulla, nell’isolamento dell’ospedale in cui ho appena partorito, capisco cosa non potrò mai più permettermi di fare. Impazzire” (p.10). La pazzia è una forza oscura che chiama dalle radici, da una linea materna fatta di donne che cadono nel silenzio, nel dolore, in una scarpata montana, dallo spalto di un circo e forse persino guardando in fondo alla culla della propria bambina che si fa voragine: “Mi sporgo verso la culla, guardo giù verso il cratere” (p.9), scrive l’autrice nelle pagine di apertura.
Cercare queste donne già morte o ancora vive e farle parlare – etimologicamente inventarle attraverso la scrittura – per “andare a prendere il passato” e trasformarlo è il viaggio di conoscenza che il romanzo racconta. La parola “romanzo” è in parte inappropriata, giacché si tratta piuttosto di un testo autonarrativo che si costruisce via via su ricordi di storie e parole altrui (non si sa quanto attendibili perché tale è la natura della Mitologia familiare), su documenti sopravvissuti alla metamorfosi operata dal tempo anche sui luoghi, su ricostruzioni affidate all’immaginazione empatica e al riconoscimento di un terreno emotivo e biologico comune. “Scrivere è interrompere questa linea di pazzia”(p.105).
L’avvio della quête segue a un’apparizione fantasmatica: la bisnonna, chiamata qui Venera, chiama dal sogno fatto da bambina, “spettro incastrato, che non trova più la strada per tornare indietro” (p.18) e chiede ascolto, lei che dall’internamento in manicomio – per alcuni giorni, in circostanze che sono da chiarire – è diventata “mussu cuciuto” (p.19), bocca cucita, muta. E l’incontro con l’antenata non può che avvenire nel corpo quando la sua presenza – in perfetta continuità con il sogno stesso – si incarna in una macchia scura sul viso della scrittrice e allo stesso tempo si manifesta nella trasformazione redentiva della memoria, quella magia che solo la scrittura può esercitare sul passato. “La famiglia è la storia che ti racconti” (p.112), scrive Terranova.
Perché Venera è stata rinchiusa in manicomio? Cosa doveva sanare? Cosa doveva espiare? Occorre cercare/inventare date e coincidenze per incontrarla nella Messina apocalittica del primo dopoguerra e del dopoterremoto e decifrarne la storia, a partire dalla domanda che potrebbe avere facile risposta e invece no: quanti sono i suoi figli, includendo nel conto chi non è mai nato e chi ha deciso volontariamente di lasciare la vita.
Naturalmente poi la piccola storia di Venera incrocia la grande Storia e allora è naturale chiedersi come il suo internamento si possa inserire in un contesto politico che faceva particolare pressione sulle donne e sulle madri e che non esitava a considerarle degeneri e pazze al primo segnale di disallineamento dall’ideologia fascista.
Ipotesi e invenzioni dialogano con le carte che emergono da quel luogo dei mutamenti che è il Mandalari, il manicomio di Messina, ma l’autrice si mette in ascolto anche di altri luoghi, le case antiche, gli angoli della città che il tempo ha trasformato ma che sopravvivono in vecchie foto: luoghi che non stanno zitti, luoghi che sopravvivono ai corpi. E la rievocazione delle donne e dei luoghi interseca anche quella dei padri, che non è possibile lasciare fuori dalla narrazione anche per una serie di corrispondenze di fatti e numeri che infittiscono la trama che si vuole portare alla luce. Allora, di fronte alle forze oscure che si muovono nella storia familiare, La Dok – guru digitale del DISTACCO (scritto così, in stampatello maiuscolo!), paladina dell’assertività ma soprattutto dell’impresa eroica di separare emotivamente i figli dalle madri – che dalla sua platea social elargisce consigli restituisce perfettamente la pochezza di un approccio alla vita esclusivamente psicologico e individualista tipico dei nostri giorni. La famiglia invece obbliga a stare in una rete di significati che non si esaurisce nella nostra autonomia autoreferenziale né in un tempo appiattito eternamente sul presente.
Il parto, come esperienza iniziatica in cui si sperimenta la fragilità del corpo, la pelle che si disintegra, fa entrare in un’altra comunità salvifica, nella famiglia non biologica della co-madria (p.111), parola spagnola che indica le donne che si fanno madri l’una dell’altra ma che Terranova intende anche nel senso di “sorelle d’anima” che sono madri anche dei figli delle altre oltre che, se ne hanno, dei propri.
Nella ricerca della verità giungono in soccorso, insieme al “lessico famigliare” – quel miscuglio di storie tramandate e fluide, formule fisse, omissioni volute e involontarie – altre parole, che sono quelle delle scrittrici, antenate di tipo diverso, che appartengono non alla genealogia ma all’ordine del genogramma. Spiega l’autrice che il genogramma, a differenza dell’albero genealogico, non si basa su documenti ma sull’intuizione, e include nella sua linea relazioni allargate, non di sangue. “C’è un filo matrilineare di sangue e ce n’è uno invisibile, su un altro piano, della scrittura ma anche della vita che non si può esaurire solo nella famiglia. Le antenate per me sono le grandi scrittrici che hanno tracciato linee…”, ha dichiarato Nadia Terranova nell’intervista rilasciata a “Morel”nel febbraio scorso (https://www.vocidallisola.it/2025/02/06/quello-che-so-di-te-in-dialogo-con-nadia-terranova/). Nel volume sono citate Virginia Woolf, in esergo: “C’è, nella maternità, uno strano potere”; Charlotte Bronte e Jean Rhys che ha riscritto Jane Eyre in un prequel che dà voce a Bertha Mason, la moglie pazza di Rochester; ci sono Angela Carter e Rachel Cusk; e c’è Fabrizia Ramondino, evocata per il suo impegno a inventare una lingua per la psichiatria femminile, cosa che peraltro fa Terranova stessa quando sintetizza la diagnosi/verdetto di Venera con tre aggettivi siciliani, molto più umani dei termini tecnici: scantata, scattiata, streusa (spaventata, agitata, strana). Le parole delle scrittrici amate sono anche una protezione da quelle parole da cui non ci si sente rappresentate, soprattutto rispetto alla nuova esperienza di essere madre (“Non sono protetta nelle parole degli altri e non ho ancora creato il dizionario per noi”, p. 35).
Questa genealogia letteraria è centrale in un libro che affronta il tema della pazzia e della maternità ma che ragiona anche sul potere della scrittura (“Scrivere è creare un incantesimo: se lo scrivo, accade. Scrivere è spezzare un incantesimo: se lo scrivo, non accade più”, p.113) e in relazione ai cambiamenti del corpo e della mente connessi all’esperienza del mettere al mondo un figlio (“Come si torna a scrivere dopo un parto, come si continua a essere spietati nella pagina?”, p. 25).
Questa ricerca, che suscita nel lettore riconoscimento e turbamento, si svolge – come si diceva all’inizio – sotto un sole tragico: la sicilianità è un altro filo della trama del libro. Qui, in Sicilia, “la luce non dà requie, il buio non esiste, niente angoli né nascondigli, solo l’implacabile assedio del sole siciliano, un sole oppositivo, padronale” (p.116) e forse per questo i siciliani si accaniscono nel ragionamento e allo stesso tempo non si fidano delle parole, sanno di essere esposti alla verità senza alcuna via di fuga e provano ugualmente a rifugiarsi – come Venera – nel silenzio. E forse per questo talvolta fa bene provare a liberarsi dai lacci familiari e accogliere come benedizione il regalo degli estranei, evocato nell’ultima pagina: la bugia.
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