
08 Mag “Poveri a noi” di Elvio Carrieri
di Elisabetta Imperato
Un romanzo di esordio quello di Elvio Carrieri (classe 2004), lo scrittore più giovane tra i candidati al Premio Strega.
Col suo “Poveri a noi”, ambientato nella città di Bari, offre ai lettori uno sguardo ironico e disincantato, su una intera generazione di giovani. Nel corso delle pagine si dipana la fenomenologia dell’amicizia tra Libero, il protagonista, e Felice Camporaletti, che sostiene di essere diventato Plinio il Vecchio, per proteggersi dagli eventi. “Perché niente spaventa chi va incontro al Vesuvio”. La storia copre un lungo arco di tempo: dagli anni delle scuole medie ai ventinove anni dei due, con cui si chiude il romanzo. L’amicizia nasce dopo un atto atroce di bullismo che colpisce Plinio, vittima undicenne di un bambinetto fascista che lo riduce “sventrato come una carogna che appassisce sul terreno”. Libero e Plinio sono figli traditi dalle generazioni precedenti e da una storia definita “autosabotatrice e masochista, che accoltella sé stessa”. Passano gli anni dell’adolescenza e ritroviamo Libero, insegnante in un carcere di massima sicurezza e Plinio, studente fuori corso, segnati dalla stessa incapacità di fare.
La scrittura di Carreri, diretta e informale, caratterizzata da dialoghi di taglio cinematografico, risente molto dell’oralità ma a tratti si fa colta, con guizzi improvvisi di sapienza antica. Una scrittura di denuncia col martello, la sua, ricca di echi letterari e filosofici (il ricorso a pseudonimi e il pungolo nelle carni che rimandano a Kierkegaard, il tema degli spatriati che ricorda il romanzo di Mario Desiati, il riferimento a Baudelaire e a Bataille, a Svevo e Zola, la chiusura sulla ginestra di Leopardi).
Sullo sfondo di una Bari decadente, colpita a morte dalla speculazione edilizia, si sviluppano parallelismi e simmetrie. La geometria urbana incastona nel paesaggio “container, gazebi, capannoni industriali, prefabbricati in legno e in lamiera”, così come, nella scrittura si incistano lingue diverse. Ne risulta un Frankenstein di contrazioni dialettali ed elementi latini. Anche Plinio, come la città che fa da sfondo alla lunga amicizia, diventerà un uomo decostruito, vittima delle stesse cicatrici che deturpano il volto di Bari.
Dunque, una simmetria tra corpi vivi e corpi di pietra. Così le dita di Letizia, psicologa del carcere dove Libero presta insegnamento, e di cui il protagonista si innamora, “a tratti appaiono arterie cittadine e vicoletti di pietra”, la distesa del suo monte di Venere sembra fondersi con le pianure della Valle d’ Itria, e l’avambraccio ricorda una pista ciclabile.
Il tempo della storia è quello post moderno della caduta dei miti, tanto al nord quanto al sud. Non vi è Eldorado possibile in quella che era la Milano da bere e tra le ville che estendono Bari nella zona di Poggiofranco, affacciandosi sull’Adriatico. La lingua stessa, insieme ai corpi, si decostruisce, mescolando elementi eterogenei. Pasticci linguistici e architettonici. Ovunque abusi. In tale contesto tutto appare governato da Polemos, padre di tutte le cose: il conflitto tra città e provincia, il dialogo a tre (Libero, Plinio e Letizia), il rapporto tra i sessi. Inettitudine e cinismo fanno da padroni tra le righe ma si annuncia anche la speranza dell’Io narrante in una giustizia poetica.
Nella seconda parte del romanzo, più ariosa, le brutture denunciate nei primi capitoli e che traspaiono con qualche ingenuità nella lingua forte e diretta (la bocca puzzolente di Plinio, ragazzo goffo con alitosi e lardosi, la docente definita vecchia cessa cariatide in stato di semidecomposizione, gli individui scomposti) lasciano spazio allo spiraglio di una salvezza possibile. È lo sguardo di Letizia sul palazzetto di via Piccinini, scampato alla distruzione della speculazione edilizia, che spinge Libero a guardare la città con occhi nuovi. Ed è infine la scrittura (insieme alla musica dei Genesis), a rivelare la sua potenza salvifica, contraddicendo la profezia di Libero che a quindici anni scriveva “non sarei mai diventato uno scrittore”.
Tra le scene del romanzo che procede in parte come flusso di coscienza, si distingue quella del dialogo di Libero con il carcerato Niko, nell’ottavo capitolo, sulla ginestra di Leopardi. È proprio la ginestra “quella cosa che dopo tanti anni a non far niente e a stare male ti fa sperare un poco” a rimodulare la speranza nella giustizia poetica, cara all’Io narrante.
Diciotto anni separano la pagina con cui si apre il romanzo dall’ultima, che ci presenta lo stesso Plinio pestato a sangue da cinque uomini, sotto un grande albero d’ulivo.
Un’apertura e una chiusura degna del principio drammaturgico definito il fucile di Cechov che riprende in un circolo narrativo il tema principale nell’ultima scena. La storia si conclude alla maniera delle tragedie classiche, con uno sguardo su un sacrificio: l’immagine di Plinio, un tempo “sventrato come una carogna sul terreno della scuola media” e ora di nuovo vittima di uno scandalo che ha colpito sua madre, finita nel registro degli indagati per una questione di mazzette e scambi di favori. Ma non tutto sembra volgere al peggio ed è forse proprio nella poesia e nella forza delle parole che si ripone la speranza di un riscatto possibile. Una speranza dei disillusi che resta fissata per sempre, ai piedi dell’ulivo sacro a Minerva, ara tribale ma anche simbolo di protezione e di pace. Accomunati dalla stessa sorte, sangue dell’uno mescolato al sangue dell’altro, ci lasciamo commuovere dallo sguardo verde di Libero sull’amico. Sono le sue ultime parole a dare senso al romanzo, “mentre le loro ossa massacrate compongono nell’aria una musica dolce, accompagnata dal canto notturno delle civette e degli assioli: Sono qui per te, poveri a noi”
No Comments