
04 Mag Devozione
di Giorgio Zabbini
Era l’inverno della seconda ondata pandemica e, con l’avvicinarsi del periodo natalizio, decisero che avrebbero ripreso ad andare a messa.
D’altronde, non potendo più andare al cinema, a teatro o ai concerti e accedere a mostre e a musei (e neppure al ristorante, attività che per lui aveva sempre avuto una chiara valenza sociale), dovevano pure trovare altre forme di intrattenimento e di ricreazione. In mancanza di altro, entrare in una chiesa e presenziare la messa domenicale gli pareva una attività tutto sommato soddisfacente permettendogli di uscire di casa e trovarsi insieme con altre persone. Almeno per lui, non era di certo una questione di fede, quella l’aveva già persa molto prima quando, intorno ai vent’anni, non era più riuscito a trovare in sé una ragione profonda per continuare a partecipare alle funzioni. Non era stata una via di Damasco a contrariis ma un progressivo scoloramento di quei valori che l’educazione famigliare e il catechismo dell’infanzia gli avevano inculcato. In realtà, era sempre stato attraversato da una vena di scetticismo unita a una razionalità poco propensa al soprannaturale (come poteva pensare all’anima come un’entità che sarebbe sopravvissuta alla sua morte fisica, concepire una vita ultraterrena e altre questioni come il giudizio universale e la resurrezione dei corpi?) ma fino a quell’età non si era mai sottratto all’abitudine di santificare le festività confessandosi e comunicandosi a settimane alterne così come facevano sua madre e, meno assiduamente, il padre. Già negli anni dell’adolescenza, però, la messa gli era apparsa sempre più qualcosa di estraneo al suo sentire e la commozione che sentiva da bambino in certi momenti della cerimonia si era fatta sempre più fioca fino a svanire del tutto. Insomma, la messa era diventata nel tempo una convenzione sempre più gravosa e stucchevole; finché, dopo essersene allontanato spiritualmente, aveva deciso di disertarla anche fisicamente.
I suoi genitori non l’avevano presa troppo bene a quei tempi, sua madre in particolare si era mostrata contrariata e addolorata. Come famiglia non avevano mai fatto autentica vita di parrocchia ma la presenza alla messa, il regolare adempimento dei sacramenti, le periodiche offerte in danaro per questa o quella iniziativa, li aveva idealmente arruolati tra quei fedeli tenuti in una certa considerazione. Quando il parroco (coadiuvato da due chierichetti che, a dispetto del trascorrere del tempo, sembravano sempre identici, quasi bloccati nella crescita, ma in realtà ogni anno diversi da quelli precedenti) entrava nella loro casa per la benedizione pasquale si lasciava intrattenere volentieri, beveva la bibita o il caffè che gli venivano offerti e raccontava qualche aneddoto da sagrestia prima di congedarsi dopo avere praticato un’abbondante aspersione di acqua benedetta nei diversi vani dell’appartamento, servizi esclusi.
Da allora non era andato più alla messa se non per battesimi, matrimoni e funerali. Tra i matrimoni c’era stato pure il suo, nonostante Eugenia non avesse mai avuto una frequentazione religiosa che fosse andata oltre la cresima. I suoi genitori avevano insistito per la cerimonia in chiesa (ma non ci sarebbe stato bisogno, perché sia lui che la fidanzata aborrivano, seppure solo per ragioni di forma, il matrimonio civile in municipio al cospetto di un assessore annoiato infagottato nella fascia) e così si erano sposati nella parrocchia di lui, sugellando con quel rito la loro futura estraneità a ogni manifestazione di natura confessionale.
Quando propose a Eugenia di andare alla messa di Natale, quella di mezzanotte anticipata alle ventidue per l’emergenza sanitaria, sua moglie non si stupì poi troppo trovandolo un piacevole espediente per evadere dal coprifuoco imposto pure in quei giorni di festività. Inoltre, l’atmosfera natalizia, con le istanze di raccoglimento e intimità, esercitava adesso su entrambi un certo fascino. Decisero quindi di andare alla Chiesa del Carmine, quella della sua infanzia e giovinezza di osservante e praticante, la stessa dove si era comunicato, cresimato e sposato e dove potevano contare sulla collaudata presenza di un organo e di un coro.
Quell’esperienza non dispiacque a Eugenia ed emozionò lui più di quanto si sarebbe aspettato anche escludendo un ritorno di fiamma alla fede. Si accorse che la messa era diventata per lui un fatto estetico e mentre da ragazzo provava insofferenza per l’apparato liturgico preferendo le scritture e l’omelia, adesso, al contrario, era proprio l’aspetto rituale a conquistarlo (le sue labbra, con soddisfazione, articolavano automaticamente le frasi ai passaggi che ricordava a memoria) e invece era l’omelia del sacerdote ad annoiarlo lasciandolo insoddisfatto e un poco sprezzante.
Alla messa di Natale seguì quella di Capodanno in cattedrale, celebrata dal vescovo, che trovò però abbastanza fredda, forse perché all’interno di un edificio troppo ampio e dispersivo per il suo gusto che ora prediligeva chiese di dimensioni più ridotte. Meglio andò all’Epifania nella più accogliente San Domenico, seppure gelida (non per niente erano state collocate qua e là delle stufe a riscaldare l’ambiente) e poco partecipata (contò non più di venti presenti) eppure, in quella mattinata fredda e grigia di inizio gennaio, avvolta da un singolare calore (non termico ma devozionale) che quasi lo commosse.
Finite le feste, non si esaurì il suo desiderio della messa domenicale e disse a Eugenia che gli sarebbe piaciuto passare in rassegna tutte le chiese cittadine, una domenica dopo l’altra. Sorprendendo lo sguardo perplesso e vagamente ostile di sua moglie, si corresse subito specificando almeno quelle del centro. Capì che il suo progetto non la entusiasmava ma fece leva sul fatto che la semiclausura pandemica non permetteva molte occasioni di socialità e già era accaduto che all’uscita dalla chiesa si imbattessero in amici o conoscenti con cui scambiare qualche battuta tirandosi su il morale, abbastanza depresso in quei giorni di contagio quando bastava accendere la televisione per trovarsi immersi in una atmosfera di allarme e minaccia.
Così, di domenica in domenica, parteciparono a varie funzioni, come una curiosa coppia di devoti che non trovasse requie nella frequentazione di una unica chiesa. Dalla messa ai Servi (celebrata da un team di sacerdoti decrepiti la cui presenza gli fu in seguito spiegata con l’esistenza dell’attigua casa di riposo del clero) a quella frequentatissima di Santa Maria in Regola (dove infatti convergevano le milizie di Comunione e Liberazione), da quella di Sant’Agata, la loro attuale, trascurata parrocchia, a quella centralissima del Suffragio (in un tempo remoto chiesa elettiva dell’aristocrazia cittadina) dove, sorprendentemente, all’ingresso , a ognuno dei fedeli veniva misurata la temperatura con il termometro a pistola e persino consegnata una mascherina protettiva (potevano anche darcele con l’immagine di qualche santo stampigliata sopra, ironizzò Eugenia) arrivando in questo modo fino a febbraio inoltrato, tiepido e quasi primaverile.
Quando la moglie dichiarò che ormai di messe e di chiese ne aveva francamente abbastanza ci rimase un po’ male ma non se la prese, anzi si stupì che l’avesse assecondato così a lungo considerando che non condivideva il suo retaggio cattolico-apostolico-romano. In ogni caso, d’accordo con lei, decise che non avrebbe rinunciato comunque al suo programma proseguendo in solitudine la ricognizione sistematica delle chiese del centro.
La domenica successiva lo vide nella chiesa di Valverde, accanto al luogo in cui duemila anni prima si diceva avesse soggiornato un grande poeta latino. Durante la funzione si chiese cosa lo spingesse a continuare quell’esperienza senza la compagnia di Eugenia. Scartato ancora una volta un rinnovato interesse per la religione, non credeva neppure che tutto si riducesse all’appagamento esteriore, che pure aveva la sua importanza. C’era quindi qualcos’altro che non riusciva neppure lui a precisare, accadeva soltanto che in quei quaranta, quaranta minuti (i celebranti più prolissi si allungavano fino all’ora) si sentisse curiosamente confortato, quasi protetto da quella cosa orribile che ormai da un anno imperversava all’esterno seminando lutto, ansia e depressione. Persino a livello olfattivo, il sentore stagnante di incenso, fiori e cera di candele (dove non sostituite dal raccapricciante simulacro di cilindretti elettrici) l’inebriava come la più preziosa delle essenze.
Finché decise di prendere la messa nella chiesa di Sant’Agostino, finora a lui quasi sconosciuta. C’era entrato per curiosità qualche tempo prima una mattina mentre si stava celebrando una funzione che aveva pensato inizialmente fosse una normale messa cattolica. Solo in seguito si era reso conto che si trattava invece di un qualche rito ortodosso e infatti la chiesa (una chiesona in realtà, che però non gli dispiaceva) era affollata di praticanti provenienti da un Esteuropeo non meglio precisato ripromettendosi di tornaci. L’unico rito cattolico non si teneva però al mattino ma unicamente alle sette della sera; per una volta avrebbe quindi derogato alla nuova abitudine dell’uscita della domenica mattina
Ci arrivò con un certo anticipo perché voleva visitarla con agio prima della iniziasse la funzione. La chiesa era completamente deserta e si permise dunque di percorrere in lungo e in largo la sua unica navata con modalità turistiche. Rimase colpito dal suo biancore abbagliante che si estendeva persino ai confessionali e dal complesso scultoreo che sormontava l’ingresso dove un santo implacabile infieriva su un povero demone al cospetto di due angeli. Poi cominciò a entrare gente e allora si accomodò in una delle panche.
Poco prima dell’inizio della messa una figura femminile occupò l‘unico posto utile nella panca davanti a lui (le altre sedute erano infatti inibite dai cartelli collocati per evitare una pericolosa prossimità tra i fedeli) e subito ebbe la curiosa impressione che quella nuca non gli fosse completamente sconosciuta. Poi non ci penso più per buona parte della messa finché, come da prassi contingente, il celebrante abbandonò l’altare per distribuire l’eucarestia tra coloro che, rimanendo in piedi tra i banchi, mostravano l’intenzione di comunicarsi. La donna davanti a lui rimase dunque in piedi in attesa dell’arrivo del sacerdote e solo quando questo le si avvicinò con l’ostia da consegnare nelle sue mani si voltò nella sua direzione mostrando fugacemente il profilo destro pure se seminascosto dalla mascherina chirurgica. In quell’attimo la riconobbe: era Agnese.
Non la vedeva da molti anni, forse da più di un decennio, e le rare volte che ormai pensava a lei la immaginava in un’altra città in seguito a qualche trasferimento, come a volte capita agli insegnanti. Suo malgrado, sentì un piccolo tuffo al cuore.
Qualcosa come trent’anni prima era stato molto innamorato di lei (almeno nel modo in cui ci si innamora da adolescenti), anzi poteva dire che era stata il suo primo vero amore; il primo di una serie di amori giovanili unilaterali e non corrisposti. Si ha un bel cercare di dimenticare o rimuovere nell’età adulta i sentimenti che ci hanno segnati da ragazzi ma il loro ricordo, tenero o crudele, nitido o sfocato, è destinato a visitarci per il resto della vita. Quando, nei giorni successivi all’esame di maturità (come se il superamento del traguardo scolastico sancisse anche un’evoluzione nelle dinamiche amorose fino a quel momento ancora puerili), aveva trovato finalmente il coraggio di dichiararsi (purtroppo nel modo goffo e letterario dettato dalla sua inesperienza) Agnese l’aveva respinto con grande garbo e delicatezza. Anzi, non poteva neppure dire che l’avesse respinto, piuttosto si era sottratta con un breve giro di parole che faticava a ricordare. Ricordava invece il sorriso quasi materno con cui si era congedata da lui e dal suo approccio maldestro.
Terminata la funzione, uscì rapidamente dalla chiesa per attenderla fuori dal portone e, appena la scorse, l’affrontò facendo appello quel poco di faccia tosta che era riuscito a mettere insieme negli anni. In realtà non ce ne fu bisogno più di tanto perché la sorpresa di lei, seguita dal sincero piacere di rivederlo, facilitò il suo piano. I loro primi scambi, abbastanza impacciati, consistettero in un aggiornamento delle rispettive vite in uno stile biografico approssimativo e lacunoso. Seppe così che Agnese insegnava da alcuni anni nel liceo scientifico cittadino dopo avere girato tra vari istituti della ragione ma senza mai abbandonare la città. Non si era sposata e non aveva figli, viveva da sola in un piccolo appartamento poco distante e le era rimasta solo la madre, inferma e mezzo svanita, ospite di una casa di riposo a una ventina di chilometri. La visitava un paio di volte a settimana sentendosi puntualmente in colpa per la propria incapacità di essersene fatta carico rifiutando le insidie di una convivenza che temeva sfiancante. Comunque, fuori dall’insegnamento (era professoressa di scienze), dalle camminate in collina e di qualche viaggio organizzato, la sua vita sociale era estremante ridotta e questo spiegava come non l’avesse mai incontrata in tutti quegli anni nonostante le rispettive abitazioni non distassero neppure un chilometro in linea d’aria. A un certo punto, anche allo scopo di non lasciare cadere una conversazione così promettente, prese a raccontarle della consuetudine contratta in quei mesi e della messa domenicale ogni volta in una chiesa diversa e rimase sorpreso scoprendo che anche lei faceva altrettanto da quando quella della sua parrocchia era stata momentaneamente chiusa al culto per ragioni sanitarie. La sceglieva in base ai criteri più vari: la distanza, gli orari delle funzioni o il semplice capriccio.
Si era fatto tardi, praticamente l’ora di cena, troppo per proseguire quella chiacchierata. E così, tra improvvisazione e premeditazione, le propose di rivedersi a messa la domenica successiva in una chiesa scelta da lei. Era quasi sicuro che Agnese si sarebbe sottratta a quella richiesta, ambigua per le sue stesse orecchie, e rimase invece sorpreso quando accettò senza difficoltà indicando la messa delle undici nella chiesa del convento dell’Osservanza. Sebbene l’ubicazione, a rigore, fosse extra moenia (a due passi dalla cattedrale però) e derogasse per una volta il suo programma, non fece questioni.
Quando tornò a casa era talmente soddisfatto che impiegò qualche tempo a interrogarsi su quell’insolito stato d’animo e solo nel momento in cui si sorprese a rispondere, tra l’evasivo e il reticente, alle domande di Eugenia (se c’era molta gente e qualcuno che conoscevano, com’era stata l’omelia ecc.) senza accennare minimamente ad Agnese (forse per lei solo un nome tra i tanti della vita antecedente la loro frequentazione), si rese conto che l’omissione non era casuale o innocente ma sintomatica di una colpevolezza di pensiero e forse di propositi. Perché rivedere Agnese tra una settimana, parlarle e stare in sua compagnia anche per un’ora soltanto si stava rivelando una prospettiva eccitante e già di per sé erotica. Si chiese allora cosa era diventato il suo matrimonio con Eugenia. Il loro rapporto, come per tanti coniugi coetanei e amici, lo avrebbe definito solido ma di una solidità basata su una assenza di ulteriori curiosità, aspettative, novità dell’uno verso l’altra, cementato da una distrazione confidente, da un leggero disincanto elaborato e accettato senza drammi da entrambi. Un’avventura con Agnese, per quanto allo stato improbabile, poteva rappresentare diverse cose: un bagno di giovinezza o, più biecamente, la rivincita di un antico smacco amoroso; in ogni caso, un corroborante diversivo all’abitudine coniugale.
Lo stato d’animo con cui la domenica dopo si presentò all’appuntamento davanti alla chiesa dell’Osservanza era di nervosa, tribolata contentezza. Agnese era già lì e lo accolse con un sorriso che gli apparve subito di buon auspicio. Dopo rapidi convenevoli entrarono e presero posto nello stesso banco ma rispettando il distanziamento prescritto. La messa iniziò di lì a poco ma lui faticò a concentrarsi sul rito e le letture perché non riusciva a smettere di pensare alla donna che stava a neppure due metri da lui. Anche quella domenica Agnese prese l’eucarestia e questo gli fece ricordare che da ragazza era molto osservante e domandandosi se questa circostanza giocasse in senso sfavorevole al suo intento. Quale poi fosse l’intento a dire il vero non lo sapeva bene neppure lui; sapeva solo che voleva continuare a incontrarla, parlarle e, insomma, fare tutto il possibile perché quella frequentazione appena inaugurata continuasse in qualche modo.
Finita la messa, appena usciti, le confessò che l’interno della chiesa l’aveva un poco deluso ricordandolo più bello di com’era. Come risposta Agnese sorrise dicendogli di seguirlo fino alla vicina cappella che lui non aveva mai visitato, una deliziosa bomboniera riccamente affrescata nel soffitto e nelle volte. Gli chiese con trepidazione se questa gli piacesse di più e, a seguito della sua risposta affermativa, aggiunse che qualche volta ci veniva per raccogliersi e pregare.
Adesso era intenzionato a non mollarla troppo presto e, usciti anche dalla cappella, la invitò a prendere un caffè nella vicina pasticceria trovandola, anche in quel caso, inaspettatamente arrendevole. La consumazione era vietata all’interno e l’accesso regolamentato solo per l’asporto, così entrò lui solo e ne uscì poco dopo con un caffè per sé e un cappuccino per lei, quindi si spostarono di qualche decina di metri, sotto il torrione merlato che era quanto rimaneva di una delle antiche porte cittadine.
Con la mascherina abbassata, la osservò attentamente alla luce del giorno ricevendo l’impressione che il tempo fosse stato benevolo con lei, che conservava i tratti e la figura sostanzialmente immutati. Certo, il viso era più pieno, rughe sottili s’irraggiavano intorno agli occhi e la carne sotto il mento cominciava a cedere un poco ma chiunque l’avesse esaminata con sguardo obiettivo non le avrebbe dato la sua età reale. E poi c’erano i suoi occhi, di quell’azzurro stupefacente che non si era sbiadito negli anni e adesso lo guardavano con una intensità che lui non aveva dimenticato.
Mentre sollevava la sinistra per portare il bicchierino del caffè alla bocca, Agnese indicò la fede in bella vista sul suo anulare e, per la prima volta, gli chiese di sua moglie. Il tono della domanda era vago e lo sguardo privo di malizia, tuttavia l’argomento si presentava teoricamente insidioso e decise allora di evitare di dare un’immagine di Eugenia che non fosse lusinghiera. Mantenendosi oltretutto nel vero, si limitò a dire che la mancanza di un figlio, molto sofferta dalla moglie, li aveva un poco allontanati, come il rifiuto di lui di tentare un’adozione perché sentiva che solo un figlio carnale avrebbe soddisfatto una esigenza di paternità peraltro abbastanza tiepida. Fu anche per stornare la conversazione da quel tema che contrattaccò domandandole come mai non si fosse sposata o comunque non avesse un compagno, pentendosi subito della sua indiscrezione. Ma Agnese rispose senza esitazioni e, dopo avere ammesso una relazione esauritasi molto tempo prima, aggiunse che non aveva evidentemente trovato l’uomo giusto (frusto luogo comune che le perdonò volentieri) e che forse, alla fine, non era poi così tagliata per il matrimonio. Seguì una seconda domanda tutt’altro che neutrale, cioè se questa situazione non la facesse sentire sola. Questa volta la donna gli scoccò uno sguardo addolorato nel rispondergli che sì, qualche volta le capitava di sentirsi sola; ma quello era comunque il prezzo, previsto e accettato.
A un passo dal congedo, augurandosi di non stare facendo un passo falso, le chiese se potevano scambiarsi i numeri dei rispettivi portatili e Agnese, ancora una volta, acconsentì senza difficoltà. Solo allora, con la precipitazione del giocatore d’azzardo deciso a giocarsi tutto in una mossa e fingendo di dare la cosa quasi per scontata, le chiese a quale messa si sarebbero incontrati la domenica successiva, che era Pasqua. Agnese non si scompose né tergiversò ma, quasi per metterlo alla prova e rendere quella specie di gioco tra loro più complicato propose (e non sembrava un dato negoziabile, il tono aveva una sfumatura imperativa) di trovarsi invece per la via crucis del Venerdì Santo, alle sette del mattino nella chiesa del convento delle Clarisse. Preso in contropiede, stupito ma anche divertito, accettò tutte le condizioni.
Non era mai stato nella chiesetta incastonata nel convento di via Cavour pure essendoci passato innumerevoli volte ma sempre a portone chiuso mentre si immaginava là dietro qualcosa di esotico. L’esistenza stessa delle suore di clausura gli sembrava un affascinante anacronismo, che contrastava con tutto quello che il mondo era diventato con la brusca accelerazione degli ultimi decenni. Anche se adesso, per un bizzarro caso dell’attualità, la loro clausura elettiva si accordava curiosamente con quella, parziale ma coattiva, alla quale il resto della popolazione si era dovuta adattare. Si ricordò della figlia della ex-titolare del forno a due passi da casa dove si serviva abitualmente, una ragazza che aveva preso i voti entrando in quell’ordine estremo di monache. Una scelta apparentemente improvvisa, almeno per lui e Eugenia, rimasti di stucco alla notizia. Non solo perché non avevano mai intuito in lei una vocazione di quel genere (e neppure il minimo fervore religioso) ma, soprattutto, perché la sua personalità sembrava contrastare clamorosamente con quella svolta. Infatti, la ragazza appariva spesso scostante se non addirittura villana, soprattutto con clienti anziani e persone semplici, un atteggiamento poco coerente non solo con qualsiasi virtù cristiana ma anche con una basica deontologia bottegaia (a meno che, ripensandoci, la sua non fosse in fondo che una reazione esacerbata a quel tipo di vita lontanissima dalla sua vocazione) di cui la madre era invece grande osservante. E forse era stato anche a causa della sua improvvisa defezione che la gestione famigliare del forno era cessata di lì a poco per essere rilevata da una coppia di coniugi nordafricani.
Agnese gli aveva detto che, questa volta, si sarebbero incontrati direttamente all’interno della chiesa e quindi quando entrò (confidando di trovarcela e constatando invece che ancora non c’era) rimase un poco deluso ma non si allarmò troppo. A quell’ora c’era una mezza dozzina di fedeli solitari sparpagliati tra i banchi, persone anziane soprattutto, con l’unica vistosa eccezione di un giovane punk nerovesito dai capelli rasati sulle tempie.
Quando la voce microfonata di una invisibile monaca (forse la figlia della fornaia?) iniziò a recitare la prima delle stazioni della via crucis capì che, diversamente dalle sue aspettative, la cerimonia non prevedeva un officiante e nessuno si sarebbe presentato davanti all’altare. Lui e i pochi altri si sarebbero dovuti accontentare di quella voce disincarnata e un poco raggelata dalla stereofonia che illustrava le tappe del supplizio del Cristo intervallandole con una reiterata litania.
Santa Madre, deh, voi fate
Che le piaghe del Signore
Siano impresse nel mio cuore
Solo alla terza stazione si accorse che Agnese era arrivata collocandosi nella fila di banchi parallela alla sua, ma più indietro, quasi non volesse farsi vedere da lui o comunque a marcare un distanziamento. Perso nelle mille congetture di quel comportamento, non seguì più con attenzione lo svolgimento della via crucis dalla voce che adesso pareva giungere da una regione remota se non proprio ultraterrena.
Quando la cerimonia terminò e la piccola congrega di fedeli sciamò all’esterno, si accorse di avere perso di vista Agnese, uscita prima di lui, e temette per qualche istante che non l’avrebbe trovata fuori ad aspettarlo. E invece, eccola, c’era. Ma da come lo stava guardando, seria e valutativa, capì subito che qualcosa si era modificato nel loro bizzarro e indefinibile rapporto; in modo asimmetrico, unilaterale e, purtroppo, ineluttabile.
I primi scambi furono impacciati per entrambi in una conversazione fatta tutta di indugi e arabeschi. Intuiva oscuramente che lei stava per dirgli qualcosa di imbarazzante che, proprio per questo, la metteva in seria difficoltà.
Erano fermi su un marciapiede esiguo, prossimi a un incrocio, e allora lui le propose di accompagnarla fino a casa immaginando che parlarsi camminando insieme avrebbe facilitato quel discorso che sembrava affiorare a ogni momento sulle labbra di lei per poi venire soffocato e ricacciato indietro. Agnese acconsentì, ma questa volta con scarsa spontaneità, quasi pentita.
Procedettero silenziosi per oltre un centinaio di metri e solo nel momento in cui deviarono all’interno del giardino pubblico, la donna si arrestò improvvisamente, all’altezza della fontana da tempo priva d’acqua collocata di fronte all’ingresso della pinacoteca. Finalmente gli disse che, un paio di giorni prima, era andata a parlare con il suo padre spirituale. Non era sicuro di sapere cosa fosse di preciso un padre spirituale e non aveva mai conosciuto qualcuno che ne avesse uno ma intuì che rappresentasse un guaio. Infatti Agnese aggiunse che gli aveva parlato di lui, del loro incontro casuale in Sant’Agostino, del loro rivedersi alla messa dell’Osservanza e infine dell’appuntamento che si erano dati per la via crucis alle Clarisse. E il padre spirituale (chiunque egli fosse, alla fine non gli importava più di tanto) l’aveva scoraggiata a frequentare un uomo sposato in assenza della moglie (e questo anche se i loro incontri fossero comunque innocenti e irreprensibili) consigliandole infine di non presentarsi alla messa di quella mattina. Lei però non se l’era sentita di sottrarsi venendo meno alla sua parola né disdire con una telefonata al numero che le aveva dato. Era quindi venuta, come poteva vedere, anche solo per spiegargli come fosse meglio per entrambi lasciar perdere, non continuare a vedersi. Non so se mi puoi capire, gli sussurrò guardandolo per un istante con una specie di smarrimento. No, effettivamente faticava a comprenderla oscillando tra conclusioni diversissime; la consapevolezza di non piacerle abbastanza e la scoperta di quanto potesse influire sulle decisioni di una persona l’inibizione religiosa o uno scrupolo morale. L’unica certezza era che, anche stavolta come trent’anni prima, le sarebbe sfuggita. Era evidente che Agnese aveva intuito quali fossero le sue non dichiarate intenzioni (anche se in realtà neppure lui sapeva in fondo fin dove si sarebbe spinto), era anche possibile che ne fosse stata tentata, ma alla fine aveva preferito evitare ogni complicazione, forse davvero per un principio superiore, forse per timore di sviluppi incontrollabili o per un’abitudine inveterata alla solitudine, nascondendosi dietro la tonaca di un fantomatico padre spirituale, che chissà se esisteva veramente o era solo un pretesto per togliersi da quella situazione.
Ormai non avevano altro da dirsi. Non gli passò neppure per la testa di recriminare, in fondo non era successo niente tra loro; anzi, non era neppure cominciato. Si guardarono per qualche istante ancora negli occhi, l’unica parte espressiva del loro viso non nascosta dalle mascherine chirurgiche, cercando ognuno di verificare quali emozioni si agitassero nell’altro. Per quanto lo riguardava la sua gamma comprendeva delusione, amarezza e rinuncia; quella di lei non avrebbe saputo dirlo, forse un piccolo rimpianto o solo una semplice curiosità rimasta insoddisfatta.
Dopo qualche altro passo insieme si lasciarono senza cordialità ma neppure acrimonia prendendo direzioni diverse, Agnese attraversando la parte dei giardini verso il centro, lui uscendo di nuovo in strada diretto verso casa, da Eugenia, ignara di quel piccolo sconquasso che però non avrebbe cambiato nulla nella loro vita.
Adesso faticava ancora più del solito a respirare dentro la maledetta mascherina, anzi gli sembrava di soffocare e quindi se la tolse. In quel momento decise che l’avrebbe finita una volta per tutte con il giro delle chiese e la messa domenicale.
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