
24 Apr Oltre i confini: il fascino della liminalità tra filosofia, antropologia e letteratura
di Corrado Fizzarotti
Liminalità. Quell’attimo in bilico tra la fine della notte e il primo sbadiglio dell’alba, quando il cielo non è più buio e non è ancora luce. Lo stesso strano torpore che avvertiamo nel passaggio dall’infanzia all’età adulta, o quando ci ritroviamo – magari in un lampo di ispirazione notturna – sospesi tra la concretezza del reale e l’elettricità dell’immaginazione. Ecco, un luogo-limite, una frontiera sottilissima, uno spazio di transizione dove tutto può succedere, perché le categorie consuete si sfaldano, si ricompongono e talvolta si mettono in pausa, quasi come se qualcun altro stesse rimescolando le carte della realtà.
Ora, nonostante questo fascino del momento-soglia, la tradizione occidentale (in fondo, lo sappiamo da secoli) ha mostrato un certo feticismo per le nette divisioni, i recinti teorici e quelle forbici cognitive che tagliano il mondo in due: umano vs. animale, natura vs. cultura, reale vs. immaginario. In passato, ci è parso rassicurante immaginare confini chiari e rigorosi come linee di frontiera invalicabili. Ma oggi i muri dell’ordine concettuale stanno prendendo colpi sempre più forti. In campo scientifico e filosofico, le vecchie categorie subiscono scossoni, e l’occhio inter- (o meglio, super) disciplinare ci invita ad avvicinarci proprio a quelle zone di confine. Queste frontiere, un tempo ritenute marginali, adesso si rivelano vivacissime fucine di nuova conoscenza, ipotesi, narrazioni. Ed è qui che giochiamo la partita della liminalità.
I confini rigidi del pensiero occidentale
Come abbiamo appena accennato, la tradizione occidentale è stata per secoli il regno di un implacabile bianco/nero. Non è una questione di cattiva volontà, badate; è che noi europei ci siamo storicamente organizzati così, costruendo dualismi che separano il mondo in coppie oppositive: mente/corpo, uomo/donna, umano/animale, natura/cultura, vero/falso. Da manuale, insomma. Il problema (c’è sempre un problema) è che queste due metà non venivano considerate simmetriche, ma gerarchiche, con una parte al comando e l’altra sottomessa. Affascinante notare come, fin dall’Umanesimo, intaccato com’era dal mito di Prometeo in salsa platonica, l’uomo sia stato collocato – ontologicamente parlando – su un piedistallo ben lontano dal resto dei viventi. L’essere umano, col suo lume razionale e l’identità modellata (dice la tradizione) a immagine divina, viene ufficialmente promosso “fuori” e “sopra” la natura. Da Aristotele in poi, l’animale è definito quasi per sottrazione: i greci parlavano di áloga – privi di logos, sprovvisti di autentico linguaggio. Una “mancanza” che legittima un gap abissale a tutto vantaggio dell’uomo. Nel XVII secolo, Cartesio si spinge addirittura a dire che gli animali non sono altro che automi privi di qualunque interiorità – semplici macchine biologiche che producono suoni, ma non veri lamenti di dolore. E se l’urlo di un cane ferito, per lui, era paragonabile allo stridere di un ingranaggio, capite bene che, a quel punto, l’uomo si trovava del tutto giustificato a trattare quegli esseri meramente meccanici come oggetti.
Allo stesso modo, mentre la scienza moderna decollava insieme all’antropologia filosofica, si cristallizzava la dicotomia natura/cultura. “Cultura” come regno del linguaggio, della tecnica, delle arti, dell’organizzazione sociale e simbolica. Se stiamo a sentire certi filosofi del Novecento – tipo Max Scheler o Arnold Gehlen – l’uomo è biologicamente imperfetto, ed è la cultura a colmare questa sua deficienza innata. In quest’ottica, natura e cultura operano su piani separati: la seconda fornisce scudi, mappe e strumenti. E con Claude Lévi-Strauss e l’antropologia strutturale arriva un ulteriore cesura: natura e cultura sono davvero l’opposizione più universale e radicata di tutte. Il “crudo” e il “cotto” – l’originario e il trasformato – diventano, in molte società, categorie distillate, simboli potentissimi che identificano il passaggio dalla natura alla cultura.
Ora, se “natura” significa la foresta selvaggia, la bestia selvatica, le rocce, le montagne e tutto ciò che si presume non ci riguardi come “civiltà”, è inevitabile che l’Occidente abbia concepito la propria missione storica come un’epica conquista: l’uomo, padrone e signore, addomestica e domina ciò che è (apparentemente) altro da sé, spogliato di qualunque anima o agency. Eccoci allora a scoprire che, nella modernità, la scienza meccanicistica – con la sua tecno-esplosione di strumenti per manipolare il mondo – si è accompagnata a questa visione dell’uomo-estraneo-alla-natura, immaginato come osservatore oggettivo e, perché no, colonizzatore di un cosmo passivo.
Ma non è finita qui. Sul fronte realtà vs. immaginazione, la tradizione occidentale ha tracciato barriere altrettanto severe. Illuminismo docet: la ragione – austera, luminosa, seria – si contrappone alle nebbie superstiziose e al folklore (che in molti considerano un retaggio giusto un gradino sopra la fiaba per bambini). Ciò che sfugge al criterio empirico viene spedito dritto nel reparto “immaginario”, da cui i più fuggono come da un paese delle chimere. La letteratura stessa, nonostante il suo potere di costruire mondi con la sola forza della parola, per secoli è stata considerata un’adorabile evasione, una fiction che non meritava pari dignità rispetto alla “seria” realtà dei fatti. Dalla Repubblica di Platone – ricordate? I poeti, fuorilegge perché creatori di imitazioni illusorie – al più recente positivismo dell’Ottocento, la linea di demarcazione è sempre rimasta netta: da una parte i “fatti” (solidi, tangibili, sicuri), dall’altra i sogni, le fantasie, le ipotesi visionarie. Il tutto al fine di evitare che la “verità” sprofondasse nel caos.
Questi confini, così perfetti nella loro geometria, hanno generato certo conoscenza e ordine – e un progresso scientifico e tecnologico di dimensioni enormi. Ma, come spesso accade con gli argini troppo rigidi, hanno pure bloccato innumerevoli spunti, e lasciato fuori intere regioni dell’esperienza umana. Ora, se invece proviamo a guardare il mondo non più dal rassicurante centro, ma dai suoi margini, da quella terra di nessuno in cui un concetto sfuma nell’altro, ci troviamo costretti a chiederci: “Che diamine sta succedendo?” Si, perchè la contemporaneità sta (in vario modo e a vario titolo) mettendo in discussione proprio tutte queste divisioni che abbiamo elencato e alle quali siamo così affezionati.
Sulla soglia: il concetto antropologico di liminalità
Liminale, dal latino limen, cioè “confine”, ‘’soglia’’. Il concetto è stato messo a fuoco per la prima volta all’inizio del Novecento da Arnold van Gennep, che studiava i cosiddetti riti di passaggio. Ogni rito che segna una transizione – prendete l’iniziazione all’età adulta, il matrimonio o i rituali d’incoronazione – si articola in tre step: separazione, margine (o fase liminale) e riaggregazione.
Durante la fase liminale, l’individuo è “né-né”: non si trova più nello status precedente, ma neppure in quello nuovo. Un perfetto “betwixt and between”, direbbero gli antropologi anglofoni, dove tutto è in potenza, come in una bolla fuori dal tempo e dallo spazio socialmente codificati. Le regole ordinarie, in questo intervallo, si fanno sfumate, rovesciate, o addirittura spariscono, generando un’area (quasi un limbo) di creatività e trasformazione. A metà del Novecento, Victor Turner (l’antropologo britannico che, per inciso, cominciò studiando i rituali africani e poi estese i suoi interessi alle società più “moderne”) sviluppò ulteriormente la faccenda, vedendo nella liminalità un momento potenzialmente dirompente: un frangente in cui l’identità sociale può ridefinirsi da capo.
Quello che intriga Turner è che, in questa parentesi liminale, i partecipanti condividono un curioso senso di communitas – una sorta di momentanea e profonda eguaglianza, un “fare gruppo” che nasce proprio dal trovarsi fuori dai propri ruoli abituali. È in questa “zona di confine” che nascono nuovi modelli e paradigmi, quasi fosse un laboratorio segreto di ibridazioni sociali e culturali. Non a caso, nel rito carnevalesco il servo può diventare re (in senso letterale o metaforico), mentre l’iniziato – nel passaggio da vecchia a nuova identità – si ritrova in un limbo che lo vede morto rispetto al passato e rinato a vita (e status) del tutto inediti.
L’intuizione di van Gennep e Turner, che cioè la soglia sia luogo di passaggio e creatività, si è rivelata feconda ben oltre l’ambito stretto dello studio dei rituali. Turner stesso, attratto dal teatro e dal suo potenziale “stravolgimento” quotidiano, ha suggerito che anche le arti e il gioco siano forme di liminalità: pensiamo alla scena teatrale, dove una storia finta (costruita apposta per l’intrattenimento) si trasforma, ogni sera, in un’esperienza simbolica reale per lo spettatore; e l’attore, come l’iniziato, attraversa una metamorfosi prendendo in prestito un’identità altra, per il tempo della rappresentazione.
A ben guardare, tutta la letteratura (e l’arte in generale) vive di soglie. Basti citare i personaggi liminali e ibridi che popolano da sempre il nostro immaginario culturale: il licantropo che ondeggia tra l’essere uomo e l’essere lupo, il centauro che sconcerta perché è metà uomo e metà cavallo, l’androide che “fa impazzire” le categorie umane per metà macchina e per metà organismo vivente, o il fantasma che non si lascia incasellare né tra i vivi né tra i morti. Di solito queste presenze, proprio perché mandano in corto circuito i confini dati per scontati, vengono percepite come mostruose o perturbanti, un campanello d’allarme che ci ricorda quanto teniamo alle nostre rassicuranti etichette (“umano”, “animale”, “reale”, “irreale”…) e che effetto di spaesamento produca vederle scombinate.
Se spostiamo l’attenzione al genere gotico o al fantastico letterario, troviamo un’ossessione quasi dichiarata per la “soglia”: castelli diroccati, cimiteri nebbiosi, crocevia deserti dove si materializza il soprannaturale. Insomma, la letteratura ha la licenza (o il potere?) di varcare simbolicamente i confini del reale, conducendo il lettore in una terra di mezzo in cui la logica binaria si disfa come neve al sole. Celebre il racconto Le metamorfosi di Kafka: svegliarsi una mattina trasformati in un insetto è un incubo metaforico, certo, ma che mette in crisi la nostra fede in ciò che distingue l’umano dal non-umano. Oppure la penna di Jorge Luis Borges, astuto ricamatore di labirinti fra verità e finzione: in Tlön, Uqbar, Orbis Tertius c’è un’enciclopedia di un mondo inesistente che, colpo di scena, comincia ad “invadere” la realtà, riscrivendola pezzo per pezzo. Borges sembra suggerire che la nostra realtà potrebbe essere (anche) una costruzione narrativa condivisa, e che i suoi confini siano in fondo flessibili: se tutti ci credono, diventa reale. Semplice e spaventoso al tempo stesso.
Arrivando ai giorni nostri, questa “mania da soglia” si ritrova in un fenomeno pop di sorprendente successo: gli “spazi liminali” in Rete, ovvero foto di luoghi vuoti e di passaggio – magari un corridoio scolastico illuminato male, una lavanderia automatica deserta nel cuore della notte – che generano in chi le guarda una sensazione indefinita di inquietudine e nostalgia. Come se qualcosa fosse finito ma qualcos’altro stesse a stento iniziando. La viralità di queste immagini indica, con tutta probabilità, che la società contemporanea si sente a sua volta bloccata in un eterno cambio di stagione, senza un appiglio stabile a cui aggrapparsi, e dunque attratta da tutto ciò che somiglia a uno stato intermedio. In altre parole, forse siamo tutti un po’ liminali, sempre pronti a rinegoziare confini vecchi e ad aprirci a nuove mappe dell’esperienza. Lo spirito di questo nostro tempo è sulla soglia, per l’appunto.
Oltre le vecchie dicotomie: la sfida contemporanea
È un po’ come quando, dopo aver passato anni a delineare muri e palizzate per tenere in ordine casa, ci accorgiamo all’improvviso che quei confini non servono più, perché dentro e fuori si sono fusi in un unico grande spazio. In parole povere, lo scenario intellettuale di oggi sembra voler frantumare le barriere che un tempo venivano difese a spada tratta: chiunque osi guardare con un minimo di attenzione si accorge che umano e animale, natura e cultura, reale e immaginario non si fronteggiano più su due versanti inconciliabili, ma si compenetrano in maniere sempre più imprevedibili. Le scienze della vita, le scienze umane e la filosofia vanno a braccetto per mostrarci che, laddove l’Occidente classico vedeva una netta frattura, in realtà c’è una distesa di sfumature.
Prendiamo il primo, storico colpo al confine uomo/animale: Charles Darwin, nel XIX secolo, ci chiarisce che tutte le specie si ritrovano sul medesimo albero genealogico. Questo scoperchia il vaso di Pandora delle convinzioni secolari: l’umanità non è un’emanazione sacrale sganciata dal regno biologico, bensì uno tra i tanti rami – per quanto con alcune bizzarre peculiarità – cresciuti in milioni di anni di mutazioni e selezioni. Nel corso del Novecento (e pure oltre), la genetica, l’etologia, la biologia evolutiva hanno confermato con un coro sempre più assordante che le frontiere tra l’Homo sapiens e i suoi cugini non umani sono molto meno impermeabili di quanto volesse la tradizione (o di quanto pretendesse Cartesio). Gli scimpanzé sanno usare strumenti, i corvi sembrano dei piccoli geni del bricolage aviario, gli elefanti sono empatici, i polpi possono diventare esperti di puzzle subacquei. Insomma, i segni di intelligenza e socialità non sono soltanto un brevettino privato dell’uomo. Da qui il passo verso il revisionismo filosofico è stato quasi inevitabile: pensatori post-umanisti – Donna Haraway, Rosi Braidotti, Cary Wolfe – ci esortano a eliminare dal vocabolario ogni residuo di “uomo misura di tutte le cose” e a sostituirlo con l’immagine di un umano tutto intessuto di relazioni (animali, ambientali, tecnologiche). Haraway, già negli anni ’80 con il suo Manifesto Cyborg, aveva anticipato come le grandi barriere dell’Occidente – uomo/animale, organismo/macchina, naturale/artificiale – stessero collassando. Anzi, osava spingersi fino a dire che tutti noi, oggigiorno, siamo un pochino cyborg: viviamo in simbiosi con protesi, apparecchiature, farmaci e tecnologie al punto che, se volessimo cercare la pura natura nell’uomo, ci ritroveremmo a guardare nel posto sbagliato. In più, c’è tutta la questione dell’ibridazione animale-umana: dalle valvole cardiache suine trapiantate in pazienti umani ai laboratori di genetica in cui si testano linee cellulari “miste”, fino ai nostri stessi cani e gatti che trattiamo come membri a pieno titolo della nostra tribù domestica. Non sorprende, quindi, che la linguistica comparata con scimmie e delfini si stia affannando a costruire ponti verso quel regno di silenzio animale che Cartesio considerava inaccessibile. Resta sempre aperto il dibattito su quanto l’uomo si distingua, per esempio, per un particolare tipo di razionalità o di autocoscienza, ma lo stile della discussione è cambiato: ora parliamo di differenze di grado, non più di abissi ontologici.
Neanche la separazione tra natura e cultura se la passa tanto bene. L’antica idea di una Natura “laggiù”, incontaminata, in contrapposizione a un’Umanità “quassù”, civiltà e ragione, è stata sbriciolata, forse in modo fin troppo violento, dall’emergenza ambientale del nostro tempo. Con l’Antropocene, l’essere umano si è scoperto capace di alterare su scala planetaria i sistemi climatici, biologici e geochimici. Non c’è più un mare o un bosco che si possa definire davvero “vergine” o immune dall’azione umana. Basta guardare la plastica negli oceani o l’estinzione accelerata di certe specie per capire che la natura come “altra” entità è un’illusione. Donna Haraway lo chiama “naturecultures”: un intreccio inseparabile di fattori naturali e umani. Bruno Latour sostiene che nemmeno nella modernità siamo mai riusciti a separare del tutto Natura e Società: abbiamo sempre prodotto ibridi, come gli animali addomesticati, le città, i campi di grano, le biotecnologie. Semmai, oggi ne prendiamo atto con onestà. Antropologi come Philippe Descola mostrano che il dualismo natura/cultura è peculiare dell’Occidente, mentre per molte popolazioni indigene animali, spiriti, piante e umani fanno parte di un’unica rete relazionale. E quando i tribunali di certi paesi cominciano a riconoscere diritti legali ai fiumi o alle foreste, capiamo che persino il piano giuridico viene riconfigurato: la natura è soggetto di diritti, non oggetto inerte. In pratica, la “grande muraglia” tra natura e cultura si sta trasformando in un ponte, e una buona fetta del mondo accademico (scienze ambientali, etica ecologica, etnografia multispecie) si avventura su questa passerella di concetti ibridi.
Quanto al confine tra reale e immaginario, se già prima era delicato, oggi risulta una vera terra di nessuno. La tecnologia digitale e l’iperrealtà di cui parlava Jean Baudrillard hanno reso la distinzione tra “copia” e “originale” così sfumata da confondere anche gli addetti ai lavori: immagini, simulazioni e modelli costruiti al computer si sostituiscono spesso a ciò che una volta chiamavamo “realtà fisica”. Non è un caso che oggetti inesistenti (criptovalute, NFT) diventino protagonisti di transazioni economiche realissime. E non dimentichiamo la scienza contemporanea, che scompagina ulteriormente le certezze: la fisica quantistica ci spiega che l’osservatore modifica il fenomeno osservato, il che ci fa scrivere (tra l’entusiasta e il confuso) interi volumi sul rapporto fra percezione e realtà. Le credenze collettive, poi, dimostrano come un costrutto immaginario – come il denaro, o addirittura un intero Stato-nazione – possa avere effetti concretissimi se ci credono abbastanza persone. Yuval Harari ci ricorda che l’homo sapiens è leader sul pianeta non perché sia il più forte, ma perché sa immaginare e condividere storie comuni (religioni, ideologie, valori in cui tutti credono). Insomma, la linea di confine tra ciò che è “solo” immaginato e ciò che è “realmente” tangibile è più un nastro adesivo incollato alla bell’e meglio, piuttosto che un muro di cemento armato.
In questo quadro sfaldato, qualcuno potrebbe temere l’arrivo del “relativismo totale” o una perdita di ancoraggio. Ma magari, invece di cadere nel caos, possiamo pensare a un modo più flessibile e creativo di categorizzare la realtà. Come accadeva nei riti di passaggio: si scompigliavano le regole per aprire la strada a una trasformazione. E infatti, proprio quando si indeboliscono i confini tra le discipline, si aprono strade stimolanti: la scienza cognitiva unisce psicologia, neurologia, linguistica e filosofia in un’unica impresa di conoscenza sulla mente; l’etologia incontra l’etica per esplorare la coscienza animale; l’ecologia coltiva approcci olistici che mescolano dati scientifici, storie locali, miti e valori culturali. Lo stesso succede tra scienze “dure” e materie umanistiche, due universi che un tempo si guardavano come estranei. Eppure oggi – volenti o nolenti – fisici, scrittori, neuroscienziati e filosofi finiscono per collaborare e condividere metafore, intuizioni, ipotesi.
Questo è il contesto in cui ci troviamo: un’epoca di liminalità, una gigantesca soglia in cui noi umani ridiscutiamo persino la nostra identità più profonda, cercando di capire che cosa significhi “essere nel mondo” ora che le vecchie dicotomie si sono fatte permeabili. Con un po’ di fortuna (e con un po’ di coraggio), è proprio sulle macerie di quei confini che potremo costruire un nuovo e più dinamico modo di pensare al reale.
Conclusione: abbracciare la soglia
C’è da ammetterlo: stare in bilico su una soglia fa un po’ paura. È come se le certezze di ieri vacillassero e quelle di domani fossero ancora in un bozzolo, non pronte a schiudersi. Ma la liminalità, questa terra di nessuno tra vecchio e nuovo, ha il potenziale di un crepuscolo spettacolare: non è pieno giorno, non è notte fonda, eppure ci offre uno sguardo visionario che a volte illumina più di qualunque sole a mezzogiorno. Quando oggi mettiamo in discussione le linee divisorie tra umano e animale, tra natura e cultura, tra reale e immaginario, non stiamo condannandoci al caos; stiamo piuttosto riconoscendo che, dietro quei confini, c’è un reticolo di relazioni, passaggi, scambi continui. La vita non è (solo) un elenco di cose isolabili, ma un’intricata, bellissima trama di sfumature.
Il concetto di liminalità ci suggerisce di valorizzare proprio quel territorio in cui avvengono gli incontri inaspettati: tra discipline diverse, tra culture lontane, tra sensibilità umana e alterità radicale. I filosofi, gli antropologi e i narratori moderni sembrano tutti convergere sul fatto che, là dove due confini si sfiorano, è facile che si accenda la scintilla di una comprensione più ampia. Giorgio Agamben, esplorando il nodo uomo/animale, ci invita a domandarci come sia nata – e quanto ci costi – l’idea di separarci dall’“altro” non-umano. Altrettanto significativo il messaggio degli ecologisti contemporanei: è accettando di essere parte di un continuum vivente che possiamo sperare di affrontare la crisi ambientale con un pizzico di saggezza in più. E quando la scienza e l’arte ci spronano insieme a immaginare futuri inediti (sociali, esistenziali o tecnologici), stanno dicendo la stessa cosa: per innovare, dobbiamo osare avventurarci in quell’angolo di realtà che non compare sulle mappe ufficiali, ma che fa brillare tutte le potenzialità di ciò che potrebbe essere.
“Ridisegnare i confini” non significa buttare via ogni distinzione. Uomini e polpi, per dire, resteranno comunque piuttosto diversi (con buona pace degli ipotetici scenari in cui un cefalopode s’impossessa del Parlamento…). E, ovvio, la fantasia non diventa tutt’a un tratto un esperimento scientifico. Ma possiamo iniziare a vedere come i due poli – invece di porsi come estremi rigidi – siano in realtà collegati da un corridoio di continuità, un “territorio intermedio” in cui avviene la vera metamorfosi. L’adolescenza fra l’infanzia e l’età adulta, il crepuscolo fra il giorno e la notte, o quella metafora che fluttua fra ciò che già sappiamo e ciò che non possiamo ancora dire. Anziché negare questo spazio, dovremmo abitarlo con curiosità, come un grande atelier in cui il mondo si prepara a cambiare veste.
Il poeta John Keats chiamava capacità negativa la facoltà di tollerare dubbi e misteri senza correre subito a incasellarli in una singola spiegazione. Ecco, abbracciare la liminalità vuol dire esercitare esattamente questa virtù: restare sulla soglia, fiduciosi che dal confronto con ciò che ci è estraneo possa emergere qualcosa di nuovo e inaspettato. Italo Calvino, con la sua inconfondibile acutezza, sosteneva che l’essere umano si trovi sospeso tra i due estremi dell’organizzazione della materia: da un lato l’incessante continuità col mondo animale, dall’altro l’estensione verso le macchine. Una metafora suggestiva, un’immagine di noi come anello intermedio fra farfalle e computer, tra la farfalla che incanta e il processore che calcola, eppure senza coincidere fino in fondo con nessuno dei due. È una condizione liminale, un perpetuo “sì, ma anche…” che ci caratterizza in modo affascinante.
Forse il compito del pensiero contemporaneo, tanto interdisciplinare quanto creativo, è proprio fare luce su queste soglie. Condurci là dove uomo e animale possono iniziare a riconoscersi allo specchio, dove realtà e immaginazione si ibridano a vicenda, dove la cultura si rivela emanazione della natura e la natura un capitolo fondamentale della nostra cultura. In quello spazio di passaggio potremmo, forse, rintracciare l’unità profonda nella varietà del mondo. I confini, una volta demistificati come semplici convenzioni (e non come barriere invalicabili), possono diventare linee di contatto invece che di separazione. Potremmo finalmente vivere nel dinamismo del reale, oltre le asfissianti dicotomie e senza farci risucchiare dall’indistinto caotico. In altre parole, potremmo abbracciare la “polifonia del possibile” che si trova proprio sulla soglia.
In un’epoca in cui tutto pare interconnesso, la liminalità è una disposizione esistenziale e una strategia cognitiva. Riconoscerla e coltivarla significa munirsi di bussola e scarpe comode per affrontare il XXI secolo. Il senso di fragilità che si prova quando si mette piede oltre la linea di confine è ripagato dalla scoperta di stanze che prima non sapevamo neppure esistessero. Ed è proprio lì, in quell’istante di abbandono delle certezze e di slancio verso l’inesplorato, che la soglia rivela il suo fascino più autentico: sussurra che, al di là di ogni confine, c’è un universo più ampio di quanto avessimo mai sospettato. E che a volte basta un solo passo fuori dal tracciato per scoprirne tutta la meraviglia.
- Agamben, G. (2002). L’aperto: l’uomo e l’animale. Torino: Bollati Boringhieri.
- Baudrillard, J. (2022). Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti. A cura di Matteo G. Brega. Milano: Pgreco.
- Borges, J. L. (1955). Tlön, Uqbar, Orbis Tertius. In Finzioni (trad. di F. Lucentini). Torino: Einaudi.
- Braidotti, R. (2014). Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte. Roma: DeriveApprodi.
- Calvino, I. (1996). Lezioni americane. Milano: Garzanti.
- Descola, P. (2014). Oltre natura e cultura (trad. di F. Serra). Milano: Raffaello Cortina.
- Harari, Y. N. (2014). Sapiens. Da animali a dèi (trad. di G. Bernardi). Milano: Bompiani.
- Haraway, D. (2018). Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo. A cura di L. Borghi. Milano: Feltrinelli.
- Latour, B. (1995). Non siamo mai stati moderni (trad. di C. Serra). Milano: Elèuthera.
- Turner, V. W. (2023). Il processo rituale: struttura e anti-struttura. Brescia: Morcelliana.
- Van Gennep, A. (2012). I riti di passaggio (trad. di G. Boursier). Torino: Bollati Boringhieri.

Olivieri Mario
Posted at 09:30h, 24 AprileInteressante e stimolante. Ancora una volta, spero, la capacità umana di creare metafore sia in campo fisico matematico che nella economia e musica ed arte, potrà permettere al nostro essere di seguire e guidare i cambiamenti che riusciamo ad imporre anche alla Natura. Scopriamo nuovi libri nella biblioteca di babele.