Tutti i nascondigli

di Marco Bisanti

riduzione dalle prefazione in curatela di Carte segrete, raccolta di scritti (poesie, racconti, diari, corrispondenza) del pittore e poeta Scipione  uscito per Red Star Press a settembre 2023

Il merito più grande di Scipione, forse più della sua stessa pittura, consiste in questa dichiarazione aperta del mondo umano o se si vuole letterario, non estraneo alla pittura, anzi mischiato ad essa, come un medesimo fatto, senza la separazione dei regni.

Renato Guttuso, 1942

In un bilancio tra le arti dove si ha maggior bisogno e possibilità di frequentarlo, molti hanno vissuto la pittura di Scipione come tramite inatteso per giungere alla sua poesia: un canto «del tutto individuale e difficilmente classificabile»i che l’autore non pubblicò mai in vita ma è traccia incandescente della sua più intima ricerca. Ricerca condotta nel nascondiglio che era per lui la scrittura – uno fra i tanti. Perché la terra è generosa, la terra ha tutti i nascondigli, ripete in due liriche segnando così, nella densità verticale delle sole dieci composte, l’importanza di questo verso per sintonizzarci sul miglior ascolto della sua poesia.

Qualcuno dirà: si può “essere poeti” avendo dato alla vita solo dieci testi? Davanti ai testi di Scipione non possiamo che rispondere di sì, seguendo la sua stessa esigenza di smarcarsi – in pittura come in poesia – da un’accademia che fissa requisiti, gestisce patenti di creatività per imporre esperienze e modi espressivi nel magma dell’esistente, facendo a fette i vari settori dell’arte. Che invece è un medesimo fatto, indagine sul nucleo fondativo e mutevole al fondo dell’umano. Dieci semi bastano a svelare un poeta dietro l’infaticabile pittore. Perché la terra ha tutti i nascondigli, ancora, la terra secca, quella che ha sete / e si spacca: la terra, che si apre sempre due volte – la prima, inghiottendoci nel suo ascolto; la seconda, aprendosi alla nostra fioritura.

Ma chi era Scipione? Il suo nome è un altro nascondiglio.

Gino Bonichi nasce a Macerata il 25 febbraio 1904. A cinque anni seguendo la carriera militare del padre si trasferisce con la famiglia a Romaii, città la cui predilezione ribadì, per storia e incontri ispiratori, firmando dal 1927 quadri e disegni con l’appellativo quirite di Scipione. Per alcuni il soprannome rimandava anche all’imponente statura, al fisico sano e massiccio educato dalla passione per l’atletica leggera. A quindici anni vinse il campionato allo stadio nazionale romano: lancio del peso, del giavellotto, salto in lungo e in alto, nuoto, sollevamento pesi. Un trionfo vitalistico pagato con la polmonite che più tardi degenerò in tubercolosi e, dopo vari periodi in sanatorio, tra brevi migliorie e improvvise ricadute, lo stroncò a soli ventinove anni, il 9 novembre 1933, nell’ultimo ricovero ad Arco, in Trentino.

L’intensa brevità della sua vicenda umana ha in sé l’ardore di una cometa che non smette di cadere accesa fino ai giorni nostri. La sua scia letteraria fu avvistata su qualche foglio e alcuni quadernetti da Enrico Falqui che, nei primi dieci anni dalla morte dell’amico, mentre scavava nei meandri della vita di Dino Campana, attratto forse dalla raffinata barbarie che accomunava i due autoriiii, raccolse e organizzò col titolo di Carte segrete per vari editori anche i testi che qui riproponiamoiv. Dieci poesie abbaglianti, un appunto identitario sulla pittura di El Greco e un breve racconto onirico, alcune pagine mistiche dal diario e una serie di lettere a un anonimo reverendo, al fratello Goffredo e ai compagni di una vita: i suoi nascondigli.

Scipione tenne la scrittura lontana da ogni chiasso ma il valore delle sue poesie private è pari a quello pubblicamente riconosciuto alla sua pittura. Ottant’anni dopo la prima uscita di queste carte, vari studi – tra cui il saggio di Alvaro Valentini che si offre in coda al volumev – hanno mostrato la dignità del suo linguaggio letterario, estinguendo la pregiudiziale nata dalla storica premessa di Falqui. Fu lui che, definendo questi testi quasi degli «appunti per i quadri», aprì all’idea che si potessero giudicare le poesie dell’amico solo in relazione alla sua attività figurativa, alludendo a una loro derivazione non autonoma, quindi secondaria sul piano estetico.

La fama dell’artista in vita si lega certamente alla sua attività figurativa, tra ispirazione barocca e espressionismo antiaccademico. L’inquietudine visionaria delle tele spesso abitate dal popolo e dal clero di una Roma alterata in erotici rossori decadenti, tra connotazioni tragiche e spunti esotici, nonché il tratto continuo e tormentato dei disegnivi di cui riportiamo alcune tavole, gli valsero con Mafai, Raphäel e Mazzacurati la fondazione della “Scuola di via Cavour”. Il successo di questa Scuola nacque però in seno a una rete di connessioni tra poeti e pittori e critici il cui dibattito culturale, dentro e fuori le rivistevii, negli anni Trenta non implicava solo un modo di intendere il disegno e la pittura ma anche la letteratura.

Anche per questa vocazione all’espressione totale, senza «separazione dei regni»viii, nell’immediato dopoguerra Cesare Pavese lo include tra le migliori intelligenze che incarnarono «il carattere ombroso, nevrotico, futile o disperato» della nostra cultura in età fascista, vivendo nella «continua coscienza di non aver via d’uscita se non nella fine di un mondo»ix. Il tema della fine è quello che in effetti connota maggiormente i suoi testi, nutriti da un’urgenza di redenzione personale, in una sorta di attrazione biologica verso Dio.

La sua poesia ha rimandi all’immaginario cristianox elaborati attraverso l’esperienza di un corpo che include nelle sue membra l’intera natura, come per ben più pagane e faunesche metamorfosi, diventando pulsante soglia tra due mondi, aperta in entrambi i sensi del creato: a volte, morente San Sebastiano che il sole trafigge con le sue mille frecce; altre volte, nascente Adamo che cammina bianco come un albero senza corteccia / e tutte le cose create vogliono toccarlo. La tensione irrisolta fra il carattere terminale e quello inaugurale della fine, come insegna l’alternarsi delle stagioni dove a una morte segue sempre nuova vita, è dinamica assoluta, vale anche se nessuno aspetta il rinnovamento, e si risolve in un’atmosfera allucinata di continuo presentimento. Perché il cielo è in attesa e, in un coro di grida animali e contrazioni vegetali, la disperata speranza di Scipione è che l’uomo poserà la sua mano sul suo ventre. Il ventre del cielo. Una ricerca estatica irrorata dalla predilezione personale dell’autore per le pagine dell’Apocalisse, per l’Inno a Caino di Ungaretti e gli scritti profetici di Blake.

In tal senso, il dato biografico è centrale per riflettere su risultati letterari che tessono lo splendore epifanico di una resa. Nel nascondiglio del tempo ormai breve imposto dalle sue condizioni, la sete di autenticità lo porta infatti a liberarsi della stessa letteratura facendo letteratura, perché Ognuno ha un suo ritmo, come tutte le creature del mondo, scrive sul diario il 5 marzo 1932. Bisogna essere quel ritmo, quella creatura e non diventare un’altra cosa. A questo regime di necessità si deve l’eccedenza inattuale, la commozione che suscita ancora oggi la grazia della sua poesia, informata da un’ossessiva ricerca di significato che lascia nelle sue pagine un’impronta abbacinante, evocando la tangibilità dell’esistente in tutte le sue forme, secondo un motivo ancora attuale nella riflessione poetica e letteraria: il corpo di tutte le cosexi, dimora di segni contrastanti. Come fu il suo stesso fisico, nella descrizione di un altro amico: «Acceso dalla supernutrizione a cui aveva dovuto assoggettarsi per far fronte al male e, sotto queste spoglie felici, simbolo del più esaltante benessere fisico, fragile per il sistema vitale tutto sospeso a un filo»xii.

Filamenti di vita sospesi nell’aria appaiono in effetti il 21 giugno 1933, sul diario. Descrivendo la musica di Bach, quanto di più immateriale esista, Scipione annota: Non c’è luce perché non c’è corpo, legando così la possibilità stessa di luce all’esistenza di un corpo, in una plausibile conferma della lettura giovannea di tutta la sua poesia. Con la quale egli recupera anche la dimensione sonora, costitutivamente assente nell’opera pittorica e qui, invece, diffusa sia in termini di prosodia sia in termini di figurazioni acustiche. Dalle suggestioni uditive della natura che stanno al centro di un intero raccontoxiii, il suono arriva infatti a inglobare il mondo cromatico in un rumore di verde, quando Una notte il pensiero della via mi prese, nella poesia “Andavo ad appostarmi…”, piena di echi orfici a “La Verna” di Campana.

Una ricognizione dei suoni e dei silenzi enunciati nelle liriche, oltre a sollevare dubbi sulla «calma e la tranquillità non espressionistica» attribuita da Rosselli a queste poesie, offre osservazioni forse ancora inedite sul nascondiglio di Scipione, considerato anche il montaggio completamente diverso delle poesie che Falqui stesso operò, tra la prima edizione del 1938 e le successive. Confrontando i due indici quasi antitetici, in un parallelo centrato sulle figure di sonorità e il soggetto poetico a esse legato, si arriva infatti a proposte di lettura piuttosto diverse dell’opera.

Nella prima edizione, il montaggio dei testi esalta l’intento celebrativo dando al volumetto il sapore di omaggio funebre che hanno i saluti postumi, in un’atmosfera fedele alla recente morte dell’amico, la cui passione era negli ultimi giorni tutt’uno con la scrittura. L’ordine quasi antitetico delle poesie nelle successive edizioni, invece, ribalta tutto configurando la presenza dell’autore come punto di arrivo, vista l’apparizione sonora del soggetto maschile nelle liriche finali. I montaggi diversi certificano storicamente l’effettiva impossibilità di conoscere l’ordine temporale in cui l’autore scrisse le poesiexiv e quello in cui le avrebbe messe in sequenza, fondando in un certo modo l’idea che Carte segrete sia un libro “di” Falqui quanto di Scipione, il cui magnetismo originario dei testi è tale da trasformare chi li legge nel loro stesso autore (aspirazione che nutrì i sogni di Borges) senza alterarne la forza attrattiva.

L’inespugnabile segreto della loro genesi garantisce la portata della loro risonanza in noi. Siamo davanti a un grumo lirico che, per il suo irriducibile carattere di frammento, si distende nel moto di un’unica rapsodia grazie al dialogo ricorsivo tra poesie e prose, generando una costante vibrazione delle figure evocate. Come i volteggi a spirale di un rapace sulla preda. Forse per questo Betocchi ammise: «Scipione mi serra addosso e io non posso scuotere la sua presenza; quello che esige da me è che io riconosca il diritto del suo canto»xv.

Se per Maltesexvi Scipione concepiva la pittura come linguaggio, l’impressione che si ricava qui è che la genesi di queste Carte segrete, nella storicità dei montaggi diversi operati da Falqui, legittimando il senso di un ordine ma anche del suo rovescio, inviti a considerarne la scrittura come totalità pittorica, organismo unico il cui valore supera la somma dei singoli elementi, per l’indugio non sequenziale sui testi a cui rimanda. Solo così potremo comprenderli in profondità: superando il problema cronologico per entrare nel ritmo interno all’opera, andirivieni tematico e stilistico cui accordare l’ascolto e, come raccomanda l’artista sul suo diario, essere quel ritmo, presente e solo nostro. Nel segreto incandescente di un infinito nascondiglio:

[…] Io voglio fermare i miei occhi, le mie mani e non vagare. Voglio far uscire dalle mie mani le cose di cui il mio cuore è stato pieno. Voglio stringere, non carezzare.

Voglio, forse avrei dovuto scrivere; vorrei, perché infine non faccio che rivoltarmi in questo spazio e l’infinito è grande come un lenzuolo. In esso ci si riposa; è un morire…

Scipione, lettera a Libero De Libero, 1° settembre 1930

i Così lo definisce Amelia Rosselli in “Scipione panteistico”, all’interno di Carte segrete, Einaudi (1982).

ii Nel 1909 la famiglia Bonichi segue la carriera militare del padre di Scipione trasferendosi in via Caio Mario 8 e, successivamente, in via Cola di Rienzo 190, in un appartamento dove, rispetto al pantheon di oggetti attestante l’ascesa dei Bonichi nei quadri dell’Arma dei carabinieri, la cameretta di Scipione con le pareti tappezzate di scritte, fotografie e riproduzioni di opere d’arte, è ricordata dall’amico Alfredo Mezio come «una specie di grotta magica, di presepio metafisico, di scenografia surrealista per balletto» (Appella G., I segni nascosti, catalogo mostra 2014, p. 15).

iii Dino Campana morì nel 1932, un anno prima di Scipione. A Enrico Falqui si deve l’edizione critica più nota dei Canti Orfici, pubblicata da Vallecchi nel 1941, e una raccolta di Inediti uscita nel 1942 per lo stesso editore. Una stessa vicenda accomuna i due poeti, entrambi maculati dallo stigma della diversità, da una alterità che spaventa. Campana, come riferisce Valentini nel saggio in coda a questo volume, era tra le letture predilette di Scipione, insieme a Ungaretti, Rimbaud, Mallarmé, Lautremont e Gongora, che andava declamando in giro per Roma di notte.

iv Si deve alla cura di Enrico Falqui l’uscita, il 30 aprile 1938, dei 230 esemplari di Le civette gridano, raccolta di nove poesie per la raffinata collana “all’Insegna del Paese d’Oro” di Mia Scheiwiller. Il 22 marzo 1942 esce una ristampa ampliata col titolo Carte segrete per le edizioni Corrente di Ernesto Treccani, nella collana di poesia diretta da Luciano Anceschi, stampata in 500 copie, con l’aggiunta di una poesia (Andavo ad appostarmi…), quindici pagine di diario, quattro lettere a un anonimo reverendo, ventidue lettere a Falqui e la lettera al fratello Goffredo. Nel 1943 l’editore Vallecchi ripubblica il volume con lo stesso titolo e l’ulteriore aggiunta del saggio sul pittore El Greco e altre lettere a Mafai, Mazzacurati e Libero De Libero. Nello stesso anno, con una nota critica di Alfonso Gatto, e poi nel 1953, le poesie di Scipione vengono incluse da Anceschi nelle sue antologie sui Lirici nuovi edite da Hoepli, tra poeti come Ungaretti, Quasimodo e Montale. Nel 1965 Scipione viene inserito da Carlo Antognini in Antologia di poeti marchigiani per l’editore Bucciarelli e, dallo stesso curatore, in Scrittori marchigiani del Novecento, I Poeti, II, uscita per Bagaloni nel 1971. Sarà Einaudi a ripubblicare le Carte segrete nel 1982, all’interno della sua collana bianca, con prefazione di Amelia Rosselli e nota di Paolo Fossati. Con il titolo Le stelle cadono accese l’editore Raffaelli ha ripubblicato nel 2017, a cura di Davide Brullo, le sole poesie di Scipione, senza le prose, che qui si ripropongono interamente col benestare degli eredi di Falqui suddividendo le lettere per destinatari e non in sequenza cronologica, come invece fatto nell’edizione Einaudi.

v Alvaro Valentini, “Sulla poesia di Scipione”, in A. C. Toni (cur.) Scipione e la scuola romana, Multigrafica editrice, Roma 1989. Essendo cronologicamente successivo all’ultima edizione Einaudi di Carte segrete, questo saggio fonda l’ulteriore novità della presente edizione anche presso i lettori già amanti di Scipione.

vi Cfr. su questo G. Appella, 306 disegni di Scipione, edizioni La Cometa 1984

vii Prima ancora di fondare lui stesso per interessi artistici e letterari nel 1931 la rivista “Fronte”, insieme a Mazzacurati, a cui parteciparono anche Falqui e Ungaretti, dal 1929 Scipione collabora a “L’Italia letteraria”, diretta da Giovan Battista Angioletti e Curzio Malaparte. Dentro e fuori le riviste, frequenti scambi ebbe anche con Sinisgalli, Beccaria, De Libero, Barilli, Cardarelli, Cecchi e tanti altri.

viii «Il merito più grande di Scipione, forse più della sua stessa pittura, consiste in questa dichiarazione aperta del mondo umano o se si vuole letterario, non estraneo alla pittura, anzi mischiato ad essa, come un medesimo fatto, senza la separazione dei regni». Cfr. Renato Guttuso, Beltempo. Almanacco di lettere e arti, Edizioni della Cometa, Roma 1942, pag. 184

ix Cesare Pavese, “Il fascismo e la cultura” (inedito, ottobre 1945), in Saggi letterari, Torino: Einaudi 1968, p. 207

x L’immaginario cristiano è l’unica “traccia” dell’Urbe che, pur stando al centro dei quadri, è invece del tutto assente nelle liriche, dove le suggestioni neotestamentarie affiorano comunque libere da ogni catechismo istituzionale.

xi La nomenclatura anatomica ha un posto rilevante in Scipione che, in sole dieci poesie, nomina labbra, mani, occhi, narici, braccio, testa, radice dei capelli, spalle, ventre, seni, dita ritorte dei piedi, viscere, ginocchi, dita delle mani, reni, membra, testa, braccia, ossa, gambe, cuore, corpo, saliva, sangue, carne, petto.

xii Altra citazione, stavolta del critico Alfredo Mezio, riportata in G. Appella, I segni nascosti, catalogo mostra 2014, p. 15.

xiii Vedi nella sezione delle prose, il racconto che abbiamo intitolato La strada e il fiume.

xiv L’indicazione di Falqui, tratta dalle uniche due poesie che hanno un titolo e una data, colloca alcuni componimenti tra il 1928 e il 1930, ma ciò non esclude automaticamente la stesura di alcune liriche prima e/o dopo quelle date.

xv Così scrive Carlo Betocchi su “Frontespizio” nell’agosto 1938.

xvi Cfr. Corrado Maltese, “Scipione e il suo tempo”, in A. C. Toni (cur.) Scipione e la scuola romana, Multigrafica editrice, Roma 1989

(Nelle immagini: dipinti e manoscritti di Scipione)

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