Térésah. Il sentimento e la finezza dell’ironia

di Maria Grazia Ferraris

Tra le tante donne-scrittrici del primo Novecento, forse la più dimenticata è stata Térésah, pseudonimo di Corinna Teresa Ubertis (1877 –1964), che è autrice di alcuni volumi di poesie, numerose raccolte di novelle e parecchi romanzi.

Leggendo gli Abbozzi del 1931 de L’incendio di via Keplero di C.E. Gadda si incontra un interessante capitolo che porta il titolo di Térésaaah . Carlo Emilio Gadda costruisce un ritratto di lei un po’ svagato, considerandola solo come poetessa, e gioca da par suo in modo parodico con lo pseudonimo allungandolo, alla lombarda in Térésaaah… Il ritratto è gustosissimo.

“Voi siete stato molto gentile con me, Gadda, molto buono con i miei singhiozzi dell’Anima…che sono realmente gli aneliti della mia anima…”

“Forse, più che per Voi, sono stato buono per gli aneliti della mia, che da tanto desiderava incontrarvi……”..

“I vostri versi sono voci della divina poesia… come i palpiti stessi della natura…”

“Vi piacciono dunque davvero i miei cieli?…anche tempestosi?, disse deliziosamente provocatrice Térésaah”..

“ E i tramonti? Vi pare che io renda i tramonti?”

“Sono meravigliosi, Térésaaaah..Voi avete superato i romantici da una parte e i frammentisti dall’altra, che è tutto dire….”

“Sapete che sono stata invitata dal Corriere del Pomeriggio? Non vi stupite!”

“Non me ne meraviglio affatto, Téresaaah, mi meraviglierei del contrario…Oggi la sensibilità…è tale…”

…”.. È vero che avete dei nemici…”

“Non crederei… non ho mai fatto del male a nessuno.. e a nessuna… Coloro che mi leggono non corrono altro pericolo che quello…di addormentarsi…”

..” Suvvia Gadda, io vi predico che voi emenderete e scriverete il più bel romanzo del 900; sarà un romanzo d’anime, tutto ombre, luci, chiaroscuri…”

Chi era, al di là dell’ironia gaddiana, davvero la scrittrice Térésah?

Nacque a Frassineto Po (Piemonte) nel 1877 (data incerta), visse a lungo a Firenze e a Roma.

Collaborerà negli anni con “Il Corriere della Sera”, “Il resto del Carlino”, e le riviste “La Donna”, “La Riviera Ligure”, “La Lettura”. Pubblica in tutto circa cinquanta libri, le raccolte di poesie Il libro di Titania (1908), Il cuore e il destino (1910); le novelle; i romanzi Pare un sogno (1906), Il glicine (1926), Dobbiamo vivere la nostra vita (1941); i racconti per l’infanzia (furono tradotti anche nelle principali lingue europee), I racconti di sorella Orsetta (1910), I racconti della foresta e del mare (1915), Storia di una coccarda (1917), Ombrone, il fiume che piange e altre novelle (1926), Balillino di suo papà, una ne pensa e cento ne fa (1928), Apparizioni del viandante (1939). Tranne qualche racconto antologico nulla è stato ripubblicato in tempi recenti e la critica, molto distratta, non sempre è stata per lei positiva. Penso a Giovanni Boine (1887-1917), critico dilettante molto ascoltato, che in Plausi e botte parla di lei, recensendo Il salotto verde, pubblicato da Treves nel 1914 con queste parole: “Complicatezza passionale, vellutata e femminea, che incuriosisce e interessa. Manca in questo volume una tramontana morale fissa, ed anche una impronta stilistica unica: non si può definire. Ma s’intravede un’anima e c’è, disugualmente sparsa, dell’arte”. In un articolo apparso sull'”Almanacco Italiano” del 1922 si legge : «L’immagine che si profila nella mente di chi si lascia cullare dal fascino di questa sua arte soave è, come ben definì Luigi Tonelli, un’immagine di madonna fiorentina, alta e sottile, passeggiante solitaria e silenziosa lungo prode fiorite nel crepuscolo mattutino».

Un ricordo di Riccardo Rovere, lontano parente, che le faceva visita quando era bambino, con la madre, ricostruisce le atmosfere crepuscolari e malinconiche di decadenza che dominano il ricordo della ormai vecchia scrittrice, che morirà a 87 anni:

“ Tutto intorno, a perdita d’occhio vedevo solo enormi, altissime librerie piene di libri. Migliaia di libri, di ogni tipo, di ogni grandezza…in fondo alla casa, in una grande stanza dove, seduta sempre in una poltrona fin de siècle di raso rosso, c’era lei che ci aspettava… Era davvero molto, molto vecchia e incredibilmente piccola… Mamma mi raccontava che la vecchina era stata una grande scrittrice e poetessa…. Un tempo era stata bellissima, nella sua vita era stata una donna famosa e invidiata e aveva frequentato gli ambienti più esclusivi, re, nobili, politici, grandi imprenditori. Io ascoltavo e m’incuriosivo. Cominciavano a parlare, di cose che io non spesso non riuscivo a capire. … Era restata sospesa nel tempo… e da quella volta anch’io, come lei, sono rimasto sospeso nel ricordo di quel giorno.”

Questo ricordo sottolinea una componente della scrittura di Téresah, quella riflessiva-analitica un po’ sognante e melanconica. Ricorda vagamente la malinconia pacata e dimessa dei crepuscolari. Si incontrano nei suoi racconti anziane signore e beghine praticanti, zitelle di lunga data, figure femminili candide e sprovvedute, contrapposte spesso a donne moderne tormentate e inconcludenti come appare per esempio nella novella L’ordine:

“Voleva essere felice: un’inezia! Il modo, il dove e il quando della sua felicità, le sfuggivano poi completamente. Era, la sua, un’aspirazione oscura di essere scontento; il malessere indefinibile di chi sente l’atmosfera appesantirglisi intorno e gli pare di naufragare senza scampo in uno stagno insidioso dove si affonda a poco a poco: ma non vede cielo più limpido, non conosce riva alla quale giovi approdare. Ella non era ricca, non era né intelligente né ribelle né disonesta; non era neppure una carne tormentata: la carne sa infrangere i gioghi. Era un’anima in pena e nulla più. Con un bagaglio così modesto, non si va lontani.”

È convinta che la felicità non esiste, ma per farne esistere almeno una parvenza, bisogna evitare di mettere a fuoco con chiarezza i contorni del reale. La felicità nasce sempre da un equivoco, da una mistificazione, da una visione offuscata delle cose che vengono provvidenzialmente mal comprese. Così come non esiste la bontà, ma esiste forse solo il desiderio della bontà, il compiacimento dell’ideale, dell’azione positiva, anche se compiuta per caso, fortunosamente e senza merito.

“A lui piaceva moltissimo vedere il suo amico in qualche guaio. Gli era sinceramente affezionato e non avrebbe potuto durare in quell’affetto se Franco fosse stato sempre fortunato: l’amicizia ha le sue macchie, come il sole.” Così è per l’amore.

Térésah fu un’interventista convinta, ma distinguendosi dal clima acceso e retorico di molti scrittori del tempo, riesce a parlare della guerra senza retorica con la sua particolare forma di ironia leggera, che è una delle caratteristiche della sua scrittura. Racconta con umorismo e disincanto, con lucidità la realtà, misurandosi con il mondo, non certo umanamente ideale che vuol descrivere.

Esemplare il racconto Piccola storia patriottica in Allegretto ma non troppo (1920).

I protagonisti sono una coppia di droghieri benestanti, il signor Enrico e la signora Clementina.

Eccone un passo esemplare:

“La guerra? Sciocchezze!

Quando scoppiò (non pareva vero) ne furono un po’ meravigliati, un po’ scontenti, per la forma. In realtà non se ne occuparono. In che cosa li disturbava? Avevano dei figlioli? Avevano dei nipoti? No, nessuno. Non avevano altro che una bella casa, dei bei vigneti e una bella drogheria, che faceva affari d’oro anche con la guerra.… Alla guerra, poi, a pensarci bene, come fenomeno sociale, rimanevano piuttosto contrari. Non molto. Tra il sì e il no. La gente malignò e disse: quando il grasso sale al cuore non c’è più rimedio. E la gente malignava senza logica. Infatti il grasso, quando sale al cuore, provoca disturbi seri. I disturbi seri fanno pensare alla morte. Il pensiero della morte rende più cara la vita, e che cosa c’è di meglio, per gustare la gioia di vivere, che immaginarsi con patetica nostalgia (se fossi giovane! ecc.) la morte eroica che si potrebbe, per avventura incontrare?

Il signor Enrico e la signora Clementina, per quanto tondi e rubicondi, godevano ottima salute. … C’era la guerra, sissignori: ma loro i giornali li passavano rapidamente, da gente che non ha tempo da perdere. […] Quell’idea delle calze ai soldati, quando scoppiò improvvisamente, parve al signor Enrico il colmo dell’assurdità. La guerra, chi l’aveva decisa? Il Governo. E ci pensasse il Governo alle calze e al resto. […] Andassero pure al Comitato altri due bei calzerotti, usciti precisi precisi da quell’avanzo di lana delle sei paia di calze che la signora Clementina aveva fatto per il marito.

Al Comitato la reazione davanti alle calze donate non è benevola: tutti sanno che i due commercianti guadagnano moltissimo e quella donazione appare ridicola. Ciononostante alle calze viene attaccato un bigliettino per il soldato che le riceverà «Da Enrico e Clementina Bianchi. Caro soldato, Dio ti benedica».

Il soldato risponde con una letterina «ingenua, enfatica, sgrammaticata, eroica e piena di fervida rassegnazione, di dolorosa bontà». Il signor Enrico e sua moglie si persuadono di averla meritata e comincia per loro una nuova vita, un nuovo gustoso piacere.

Il signor Enrico finirà col prenderci gusto. In certe avarizie quello che manca è l’abitudine di dare. Uno che non ha mai provato ad aiutare nessuno, non può dire se non nasconda nel suo intimo un fervente, un appassionato, un maniaco, un fanatico dell’assistenza…Ora lui parla di «figli di Roma», di «razze latine», di «bandiera della civiltà». Lei si commuove quando sente i bambini dell’asilo cantare «Gioia bella». Sanno dov’è Trieste, che non confondono più con Trento, vogliono la guerra fino in fondo, e sono madrine tutti e due di soldati senza famiglia. La signora Clementina, come madrina, ha la specialità delle conserve; il signor Enrico, pare impossibile, quella delle lettere. Non sapeva d’essere grafomane. Quante cose non sapevano! E tutto per un miserabile paio di calzerotti! Il più bello è che ci ingrassano. Mangiano meno, eppure ingrassano. È la felicità.

Conclusione: bisognerebbe essere un po’ indulgenti per il signor Enrico e per la signora Clementina. Ma il piccolo Comitato paesano ha i suoi difetti, scusabili: non perdona che lo si trascuri e non sdegna, se può, la mormorazione. Innocente, però, innocente. Parlano spesso di quel fervore così inopinato, di quella conversione rumorosa.

«Finita la guerra» dice uno «non sapranno più che cosa fare».

Dice un altro: «Si divertono»….”

Si dedicò anche ai racconti per l’infanzia. Racconti leggeri, graziosi, che raccontano di quella sua vena malinconica e crepuscolare. I bambini che descrive, spesso sono incompresi e in difficoltà, piccoli, ingenui, disorientati e sensibili, immersi dentro i loro sogni trasparenti, fedeli alla parola data, sono più vicini a quella parte di ideale che gli adulti non conoscono e nel migliore dei casi si sforzano di inventare. Anche in questo lavoro Térésah riesce a evitare ogni retorica banale sull’infanzia, con un realismo preciso e minuto e un andamento a tratti onirico, poetico, che si può leggere ancora senza fastidio, come nella novella Duccio e l’uomo che vola, sempre nella raccolta Il salotto verde (1913).

Il protagonista ha cinque anni e mezzo e fa parte di una famiglia numerosa. È l’ultimo nato e non viene mai preso in considerazione nelle sue fantasie e nei suoi perché….

La domenica la famiglia va a vedere gli aviatori al Campo di Marte. Per Duccio è un’esperienza intensa, sconvolgente. Vede l’uomo dal berretto rosso che partì, tra un palpito d’aria smossa. Salì, salì, salì.

“Fu come un nodo di nastri bianchi, come un fuscello bruno e sottile, come una piuma: fu un punto. Andava in cielo, spariva… gli occhi di Duccio si riempirono di lacrime: non vide più…”

Nella sua emozione non vide la discesa, non udì l’applauso: piangeva sempre.

“Più tardi, quando si riebbe, il cielo era sgombro. Guardò in su, timorosamente: dov’era l’uomo? Non si vedeva. Era ancora su, era andato chissà dove! Lo attese. Tutto finì; la gente si mosse, sfollò; Duccio fu tirato per un braccio dall’Armida. Si andava via. …

Duccio si fece coraggio: «Se l’uomo discende stanotte e non trova nessuno?» chiese”, ma nessuno lo ascoltò né gli rispose. A casa, solo, pensò di non poter dormire con tale preoccupazione…

Nascose i datteri e i biscotti che aveva avuto per sé e pensò: «Caro uomo sei salito fino in cielo e ti hanno dimenticato!» : aveva il cuore gonfio, amareggiato dal ricordo di quell’ingiustizia.

Esce di nascosto e “corre fuori, verso il Campo di Marte, seguendo la linea del tram, che trova e perde, lungo il cammino. Le luci fra le case lo guidano e finalmente raggiunge il posto che cercava. Per un attimo il rumore del treno lo illude, ecco l’aeroplano che scende! Poi si rifà il silenzio.

C’è qualche timido cri in mezzo al prato; i primi grilli si arrampicano lungo gli steli del trifoglio. C’è anche un odore acuto di acacia fresca che sventola grappoli bianchi, come bandiere.

Duccio capisce d’essere solo, d’aver freddo, d’aver paura; capisce che ha fatto il viaggio per nulla,

che l’uomo è morto o è già disceso, già andato via, e che, in ogni modo, non ha più bisogno di mangiare. Allora, adagio adagio, prende dal panierino un dattero, poi un altro, poi un altro: mangiare gli tiene compagnia. E mangia tutti i datteri e tutti i biscotti, tremando di freddo e di febbre … le palpebre gli ricascano su quegli occhi che non ne possono più, la testa ciondola per un po’, di qua, di là; Duccio cade rovescioni e dorme. Dorme e sogna che tutti volano.”

Una scrittrice ecletticamente deliziosa.

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