“Perfect days” di Wim Wenders: lo zen e l’arte del cinema

di Guido Di Muccio

L’opera d’arte sposta al centro dell’attenzione le cose su cui l’occhio distratto dell’uomo comune scorre sopra senza vederle. Lo sguardo dell’artista – del poeta, del pittore come del cineasta – somiglia quindi a quello dell’adepto zen: è retto da una mente che si sforza d’essere sempre concentrata su ciò che è presente, senza scartare nulla di quel che le cade davanti. Il monaco buddhista e poeta vietnamita Thich Nhat Hanh la chiama “presenza mentale”: “Quando lavate i piatti, lavare i piatti deve essere la cosa più importante della vostra vita”; “Di qualunque compito si tratti, fatelo lentamente e con naturalezza, consapevolmente. Non fatelo tanto per togliervi il pensiero”1.

Ogni dettaglio della realtà è importante; ogni istante della giornata è prezioso; tutti i giorni sono perfetti, ciascuno a modo suo. Lo sa bene Wim Wenders, che nel suo ultimo film (Perfect days, 2023, sceneggiatura di Wenders e Takuma Takasaki) si esercita da grande artista in questo sguardo d’amore non giudicante. Wenders ha del resto riconosciuto apertamente l’impronta zen del suo film2.

Il film narra la vita monacale3 di Hirayama, un uomo di imprecisata mezz’età (interpretato da Kôji Yakusho, Palma d’oro come miglior attore al Festival di Cannes 2023). Il racconto comincia prima dell’alba di un giorno feriale. Siamo a Tokyo. Hirayama ci è presentato attraverso i suoi sogni mattutini, che sono lo specchio della sua intensa spiritualità e anima distaccata. Non ci sono né persone né cose nei suoi sogni, solo un quieto intreccio di luci e ombre in bianco e nero, come luce crepuscolare che passi tra i rami oscillanti di un albero. Nei titoli di coda verrà spiegato che “Komorebi è la parola giapponese per la luce e le ombre create dalle foglie che ondeggiano al vento. Esiste solo una volta, in quel momento”. Quindi Hirayama si sveglia nel suo angusto monolocale, poco più di una camera: si sveglia non al trillo di una sveglia elettrica ma per il fruscio garbato della scopa di una vicina di quartiere che ramazza le foglie in strada. È ancora notte, comincia appena a schiarire. Hirayama si alza, arrotola il materassino su cui dormiva, lo piega e ripone, va in bagno, si lava i denti, si rade la barba, si spunta i baffi, indossa un abito da lavoro (con cucita sul petto la scritta The Tokyo Toilet), innaffia le piantine e gli alberelli che coltiva in vasetti in un angolo della piccola casa, prende da una mensola le chiavi, i soldi spiccioli, se li ficca in tasca, mette in tasca anche una vecchia macchina fotografica a pellicola (poi vedremo perché), esce di casa, scruta il cielo, sorride, compra del caffè in lattina da un distributore automatico di bevande, apre lo sportello del furgone da lavoro, mette su della musica rock4 (usa ancora i nastri), apre la lattina e beve il caffè, poi accende il motore e si avvia, nella musica. Sono – questi – i momenti marginali della vita di ognuno di noi, quelli che a volte chiamiamo momenti “morti”, le azioni ripetitive, quotidiane, uguali per tutti, quelle parti della giornata che possono affliggerci come un peso inutile, che vorremmo scavalcare veloci per arrivare al momento in cui la nostra giornata comincia davvero: al momento in cui la storia inizia. Questi momenti inutili, momenti che non fanno storia, che nessuno racconterebbe, sono al cuore del racconto di Wenders. Vedremo Hirayama al passare dei giorni ripetere più volte con poche varianti la routine di tutta la sua giornata.

Lasciato il quartiere periferico dove vive, Hirayama raggiunge Tokyo e si mette al lavoro. Pulisce i tanti gabinetti pubblici della città. Un lavoro per tutti sgradevole. Come lo fa? Forse di fretta e sciattamente? Forse di corsa per cavarsela presto e arrivare il prima possibile a fine giornata, per evadere da quel presente sgradevole? No. Lo fa con cura, con rispetto, con attenzione concentrata, con mente interamente assorta nel presente, in silenzio; a differenza di come lo farebbe chiunque altro, di come lo fa, per esempio, il suo giovane, garrulo e distratto assistente, che mentre lava la tazza di un gabinetto guarda altrove, chiacchiera, flirta con una coetanea, smanetta sul suo telefonino e fa progetti per la sera.

Hirayama è silenzioso, parla pochissimo in tutto il film, lo stretto indispensabile, quasi per niente; il silenzio esteriore riflette la sua quiete interiore protesa all’ascolto. Si concentra nelle operazioni di detersione di water e bidet, di rimpiazzo dei rotoli di carta igienica e rabbocco dei flaconi di sapone liquido come se fosse tutto quello che c’è da fare al mondo, come se non esistesse altro da guardare e da fare (con uno specchietto addirittura controlla che non ci sia sporcizia nei punti nascosti dei bagni); dedica ai gabinetti la cura amorevole che un pittore ha per il quadro che sta dipingendo, che una madre ha per il suo neonato.

Hirayama pulisce i gabinetti con la stessa aderenza meticolosa e mente attenta con cui Wenders a sua volta segue la sua vita con la telecamera. Ogni istante è tutta la vita. Hirayama accetta ogni istante con gratitudine: quelli belli e quelli brutti. Guarda con sguardo di devozione quel che i più non guardano. Tra i segni della sua mente recettiva c’è questo: tra i tanti rifiuti di uno dei tanti bagni che netta, trova un foglietto di carta con una partita di tris appena avviata. Per chiunque sarebbe solo una cartaccia da buttare, ma Hirayama intuisce che qualcuno, forse un bambino, ha giocato a lasciare il messaggio in bottiglia per gli sconosciuti. Risponde con la sua mossa e rimette il foglietto dove l’ha trovato; il giorno dopo troverà segnata una contromossa e il gioco va avanti fino all’ultima crocetta senza che il giocatore misterioso si palesi. L’episodio ci mostra per indizi che Hirayama non solo è attento e acuto ma ha l’anima di un bambino cui piace giocare (“se non diventerete come i bambini …”). Se si distoglie dal lavoro, è per osservare un senzatetto che in un parco vicino nell’indifferenza generale esegue una danza lenta o forse una ginnastica. Il senzatetto è per tutti un invisibile. E anche Hirayama è un invisibile: tante persone entrano ed escono dai gabinetti senza degnarlo di un’occhiata; lui rispettosamente s’apparta, in attesa che abbiano finito. Lui, che osserva tutto, fa parte di quella realtà invisibile che i più di noi – con la mente sempre slanciata verso il futuro, intenta in progetti e impegni – non notano.

Nella pausa pranzo consuma un tramezzino contemplando gli alberi del parco. Con la macchina fotografica che si porta sempre dietro, ritrae quel gioco mobile di luci e ombre (komorebi) che – abbiamo visto – è anche il contenuto dei suoi sogni rarefatti, un simbolo dell’impermanenza e dell’intima connessione di tutte le cose. Alla stessa ora nel parco c’è anche una ragazza dal volto triste, sprofondata nella sua malinconia, cieca alla natura che ha davanti. Per il resto, Hirayama consuma i pasti serali in una tavola calda dove lo trattano con amicizia, da cliente abituale. La sera legge romanzi (tra gli autori carpiamo William Faulkner, Patricia Highsmith). Nella sua piccola stanza ha scaffali colmi di libri, li compera di seconda mano. Quando può ascolta la grande musica rock degli anni ’70 e ‘80. E scatta le sue fotografie di alberi e luci tra i rami. Ne ha scatole piene, ordinate anno per anno. Come un monaco zen, Hirayama è silenziosissimo, pulitissimo, devoto amante della natura, sobrio ed essenziale.

Dunque Hirayama è sereno e gioioso? Non prova mai sentimenti negativi? Li prova. È un essere umano: lo vediamo innervosirsi (quando un giorno è lasciato solo al lavoro a coprire due turni) e anche piangere e soffrire. Ma insomma – insiste il senso comune – è felice Hirayama? È felice della sua vita di cui pare appagato? Non è questo il punto. Ad ogni modo, se proprio dobbiamo applicargli l’incerta categoria di felicità: no, Hirayama non è propriamente felice. Pulisce i gabinetti tutto il giorno, e di certo preferirebbe fare il giardiniere. Vive da solo. Non ha moglie, non ha famiglia. Deve contare i soldi (la volta che li regala al giovane collega, finisce che salta la cena).

Chi è allora Hirayama? Il racconto di Wenders segue la sua vita presente, quasi minuto per minuto, per appena una decina di giorni o giù di lì. Ma le poche cose che accadono ci permettono di intravedere, senza che nulla sia detto apertamente, nel passato e nel futuro del personaggio.

Quanto al passato, è stato doloroso. Un giorno compare alla sua porta la nipote, la figlia adolescente di sua sorella. Ha litigato con la madre, che non sopporta. È scappata di casa e cerca rifugio. Per passare il tempo legge uno dei libri di Hirayama: è una raccolta di racconti di Patricia Highsmith. Dice poi allo zio di riconoscersi in Victor. Nel film non si dice di più ma Victor è il protagonista del racconto The Terrapin (la tartarughina)5: dominato da una madre egocentrica e tiranna, spiritualmente sorda, che vorrebbe plasmarlo come cera e farne la persona che vuole lei, Victor subisce ma poi uccide sua madre per scappare dalla prigione. Quando la sorella di Hirayama viene a riprendersi la ragazzina, si apre uno scorcio sul passato del nostro personaggio. La donna è molto benestante. Arriva con un’auto di lusso guidata da un autista. Indossa abiti eleganti. Dal breve dialogo in strada tra Hirayama e sua sorella intuiamo che loro padre è un uomo molto ricco ma forse imperioso e dispotico, che Hirayama ha scelto liberamente di vivere come vive, contro la volontà del padre, e che dopo la rottura non si sono più visti. La sorella, come il padre, non capisce la scelta di Hirayama. Forse – ci domandiamo – anche Hirayama ha vissuto un’infanzia come la nipote, in una casa prigione? Forse ha dovuto vivere una vita che non era la sua, con un io diviso?

Dunque quando lo incontriamo Hirayama non è propriamente “felice”. Non è il momento migliore della sua vita, è un tempo di vacche magre. Ma non è questo il punto. Il punto è che la sua realtà è forse povera ma è l’unica realtà che ha. Il punto è che quel momento della sua vita è – finché dura – tutta la sua vita. Il fondo zen dell’anima di Hirayama lo svela lui stesso alla nipote. Lei ad un certo punto gli chiede quando andranno a vedere il mare. Lui risponde: un’altra volta. Lei insiste: un’altra volta quando? Lui ribadisce con paziente fermezza: un’altra volta. Poi spiega: adesso è adesso, un’altra volta è un’altra volta. Ecco, questo è il suo segreto zen, che non tutti possono capire perché, come spiega alla nipote, il mondo è apparentemente unico per tutti ma in realtà molteplice: in verità abitiamo in mondi diversi e a volte non comunicanti. “Adesso è adesso, un’altra volta è un’altra volta”: il tempo per i più ha tante “parti”, si divide in adesso, ieri, l’anno scorso, quand’ero giovane, domani, tra una settimana, tra un anno. Per Hirayama si divide soprattutto in “adesso” e “non adesso”. Adesso è reale. Non adesso è irreale. È solo nella mia mente. Se vivo nel non adesso, vivo nelle mie fantasie. Se vivo nell’adesso, vivo nella Realtà, nell’unico luogo in cui si può incontrare l’altro.

La realtà è tutto, ma la realtà cambia senza sosta. E può migliorare purché si sia pronti a cogliere l’attimo (il greco kairòs). Nelle scene finali del film Hirayama, forse scosso dalla visita di sua nipote, che gli ha fatto provare nostalgia del calore umano, si decide a fare il passo che chissà da quanto tempo medita: farsi avanti con una donna che gli ha inviato chiari segni di predilezione. La donna gestisce un ristorante di cucina tradizionale giapponese; divorziata, non più giovane ma ancora bella, è delicata d’animo e sa cantare bene come una geisha. Questo passo fatale, così intimo, non è raccontato direttamente. È raccontato, anche questo, per indizi. Apprendiamo del sì della donna con un espediente narrativo, dalla voce di un altro (l’ex marito di lei, che sta morendo di cancro).

Il film termina con una lunga inquadratura sul volto di Hirayama che torna a casa sul suo furgone. È felice. È l’alba. Il sole levante barbaglia all’orizzonte. È un altro giorno che nasce. Prezioso e meraviglioso. Il primo giorno della sua (nuova) vita, non più da uomo solo. È finito il tempo delle vacche magre. La musica l’avvolge: Perfect day di Lou Reed.

*

1 Citazioni da Thich Nhat Hanh, Il miracolo della presenza mentale (1987), trad. it. di L. Baglioni, Ubaldini editore, 1992, pagg. 29 e 31.

2 Per esempio nell’intervista pubblicata sul sito web della Schwäbische Zeitung (pagina https://www.schwaebische.de/kultur/interview-mit-wim-wenders-zu-perfect-days-2139410), dove Wenders dice che “Perfect days può essere visto come una meditazione zen sulla quotidianità”.

3 È Wenders stesso a paragonare Hirayama a un monaco: si veda la prima parte (Hirayama’s origins) della videointervista ascoltabile alla pagina web https://prod-origin.perfectdays-movie.jp/en/interview/.

4 Le canzoni di Hirayama (e colonna sonora del film) sono tra le altre Perfect Day di Lou Reed, Feeling Good di Nina Simone, House of the Rising Sun degli Animals, Sittin’ On The Dock of the Bay di Otis Redding, Sunny Afternoon dei Kinks, Brown Eyed Girl di Van Morrison, Pale Blue Eyes dei Velvet Underground, Redondo Beach di Patti Smith.

5 Pubblicato in italiano (da ultimo da La nave di Teseo) nella raccolta di racconti Urla d’amore.

1 Comment
  • Paola
    Posted at 21:58h, 12 Marzo Rispondi

    Grazie! Questa analisi attenta, insieme a un commento meditato e sapiente, invogliano a vedere il recente capolavoro del maestro Wenders

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