Il fragore dei ricordi

di Cristi Marcì

A quel tempo abitavo nei pressi di una modesta pensione della Wagnerstrasse di Düsseldorf, una viuzza tranquilla e un po’ nascosta. Quando optai per quella dimora mi parve riflettesse a pieno la mia indole di insegnante solitario, da poco trasferitosi in Germania, dove un cielo grigio era pronto a trasformare in gocce di pioggia parole mai sentite prima. Dal suono greve e tuttavia musicale.

Ogni mattina, una volta recatomi alla scuola superiore di Berlitz, ero solito attendere l’arrivo dei miei alunni. Erano pressappoco una dozzina, abili oratori delle più svariate tematiche, ribelli e diligenti come mai mi era capitato di incontrare.

Insieme eravamo un tutt’uno, la loro compagnia era sempre pronta a innescare la miccia delle mie passioni. Tuttavia non erano le uniche persone che frequentavo, perché nel quartiere abitavano un signore anziano dal contegno severo e controllato, che tutti con estrema dovizia chiamavano “l’allegro Herr Amtaman”; poi c’era Gustav, l’avventuriero di origini francesi, dedito al vino e al vezzo dell’eloquio.

Infine c’era la meraviglia delle meraviglie, il cui nome figurava sugli elenchi del P.N.F. e che al solo pronunziarlo destava in me un desiderio di miracoli: Armando Evangelista.

Un po’ più anziano di me, la sua figura trasmetteva una sensazione di sicurezza. Era un uomo posato e tranquillo, iscritto al Partito non tanto per ragioni politiche, quanto a detta sua “per necessità familiari”.

Come me, anche Armando aveva iniziato a frequentare come insegnante di italiano la scuola di Berlitz, e lì aveva conosciuto una ragazza ebrea di venti anni, Elise Rosenberg.

La prima volta che descrisse il loro incontro adoperò parole dolci, cariche della stessa luminosità che avevo scorto nei suoi occhi.

Eravamo nel soggiorno della mia camera e lui, loquace, sembrava catapultato nei corpi e nei suoni dei nostri alunni: “Caro Ugo, dirimpetto ai miei occhi ho scorto una di quelle rare creature dall’apparenza fragile ma che hanno in sé una forza d’animo e una fierezza di cui ci si rende conto soltanto dopo averne approfondito la conoscenza”.

Trascorrevano tanto tempo insieme, tra nozioni di italiano e un fuggevole bacio. Spesso ci incontravamo tutti e tre, per discutere di politica ma soprattutto perché eravamo ghiotti delle pietanze che preparavano allo Schadowkeller. Ubicato nei pressi delle nostre abitazioni, ogni occasione era buona per ridare colore a quegli animi grigi che il partito nazionalsocialista aveva disseminato tra il popolo tedesco.

Una sera Elise era a casa perché forte raffreddore l’aveva colpita durante l’ultima gita che avevamo fatto tutti insieme nei dintorni di Duisburg, così proposi ad Armando di recarci al nostro ristorante preferito. Lui con fare meditabondo non declinò il mio invito; eppure aleggiava sul suo volto una certa malinconia, una nube che nell’ultimo periodo si era infittita.

Seduti al nostro solito tavolo, in un angolo del ristorante, intuivamo l’esistenza di un pericolo imminente e tuttavia invisibile, che il nostro cervello si rifiutava di tradurre in una subdola etichetta.

Il morale per tutto il resto della cena non fu dei migliori e la lingua tedesca, proveniente dagli altri commensali, non riusciva a distrarre la nostra attenzione da quanto il nostro cuore presentiva. Consumati i nostri pasti optammo per fare due passi, con l’augurio che almeno l’aria della sera potesse ritemprare i nostri animi. Così, mentre la passeggiata iniziava a sortire l’effetto desiderato, ci trovammo in compagnia della mezzanotte e il nostro udito venne catturato da un fragore di vetri.

Scossi e incuriositi, procedemmo spediti sulla Schadowstrasse fino a scorgere nella piazza deserta un drappello di uomini in uniforme, le SS, intenti a demolire con sconcertante destrezza le vetrine di tre negozi, tre librerie. I bastoni e le sbarre di ferro erano il prolungamento delle loro braccia, attorno alle quali una fascia rossa e bianca e con al centro un simbolo nero testimoniava la loro appartenenza.

In quel preciso istante, come quei cristalli, le nostre speranze andarono in frantumi e le schegge appuntite iniziarono a riflettere una cocente verità: che quello era solo l’inizio.

Scossi e impotenti, un barlume di lungimiranza ci spinse a fare dietrofront e a tornare nei pressi della Wagnerstrasse, al sicuro nella mia abitazione, più vicina della sua.

Dieci minuti dopo, al riparo e con la luce spenta, udimmo per una buona mezz’ora il frastuono dei vetri rotti, accompagnato da urla sconosciute. La città era teatro ora di scherno ora di pianto e io, assieme ad Armando, ero un semplice e impotente spettatore.

Tutt’a un tratto qualcosa sembrò ridestarci da quel lugubre incantesimo: un rumore di passi concitati sui sampietrini della strada, ben attenti a non farsi ghermire dal nemico.

Così, con gli occhi incollati alla finestra, scorgemmo la figura di Elise correre verso il portone, e senza che avessi il tempo di comprendere, Armando disse “Arrivo, amore mio”.

Con uno scatto fulmineo corse lungo la tromba delle scale per dirigersi al portone; una ragazza dal viso stanco e spaventato venne inghiottita dall’oscurità dell’androne.

Nel frattempo, mentre i rumori divenivano simili a tuoni, presi il mazzo di chiavi che la signora Seibert mi aveva consegnato al momento del mio ingresso; così, senza avere contezza di quanto stesse accadendo fuori per strada, raggiunsi quella strana coppia avvolta nel buio.

“Venite, qui c’è uno scantinato, seguitemi” dissi aprendo con mani tremanti la porta di quel rifugio.

Da lì udimmo il calpestio dei loro stivali, che dalla strada formavano un ritmo cadenzato in cui il rumore dei vetri rotti si alternava a un odio forsennato: Jude, Jude.

Fu uno strazio non poter soccorrere quelle persone; le grida e i pianti squarciarono la notte.

Era il nove novembre millenovecentotrentotto.

*

Cristi Marcì è uno psicologo e appassionato di lettura. Accusato ingiustamente di abitare tra le nuvole, i suoi sogni lo lo guidano alla ricerca costante di parole nuove da mettere per iscritto.

(Nell’immagine: Marc Chagall, Il bue scuoiato)

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