Divenire drago: esplorazioni nell’opera di Ortese. In dialogo con Elisa Attanasio

 

 

a cura di Gianna Cannì e Ivana Margarese

 

Divenire drago: esplorazioni nell’opera di Ortese (Pendragon, 2023) è un saggio di Elisa Attanasio, il cui titolo rimanda a un sogno in cui Anna Maria Ortese racconta di aver incontrato un drago e di averne così assorbito il divenire. Attanasio ricorda come in una lettera a Gianni Ferrauto del 16 aprile 1971 Ortese descriva la propria scrittura con queste parole:

Quando entro in una narrazione, non ne so nulla, e generalmente entro dalla porta sbagliata, e perciò faccio tante scale e corridoi e cortili, ed entro in tante stanze, inutili. Ma questa fatica, sentendosi, dal Lettore e da me, è poi la causa di quel po’ di gioia che si prova, credo, raggiungendo la stanza utile. È un modo di narrare non moderno, certo, non frenato e freddo: un modo semplicemente avventuroso, ma ancora, suppongo, può interessare, come l’eterno Labirinto. Io ne ho fatto, dall’Iguana, una specie di sistema.

 

Nell’introduzione al volume affermi che un approccio tradizionale e accademico all’opera di Ortese avrebbe finito per allontanarti dalla sua opera. Hai scelto di leggere Ortese adottando un metodo quasi da etnografa, seguendo fili che ti hanno portato lontano. Vuoi raccontare questa esperienza?

In effetti, come “confesso” nelle prime righe dell’introduzione, scrivere questo libro è stato molto difficile, sia per motivi pratici (confrontarsi con la ‘produzione’ accademica a fianco del precariato è faticoso e spesso demotivante), ma soprattutto per motivi metodologici. La pretesa di leggere l’opera di Ortese ricavandone temi e stili e il tentativo di setacciare la critica per coglierne le intuizioni, i punti forti e quelli deboli, mi allontanavano dai suoi testi. Per questo, ad un certo punto, ho deciso di prendere un’altra direzione: da una parte, ho cercato il più possibile di confrontarmi con altre studiose (non tanto di Ortese, quanto di temi che rintracciavo nella sua opera, in primis quello ecologico); dall’altra ho osato un’immersione nuova nella sua opera, fatta anche di parti saltate, capitoli ignorati, brani imparati a memoria. Ho seguito quei fili che Ortese indica, più o meno esplicitamente, nei suoi testi, ed è così che mi sono avvicinata ad altre forme di pensiero, altre discipline (principalmente filosofia e antropologia), lavorando in maniera a volte frammentaria, più per assemblaggi che per analisi vera e propria. In particolare, dopo una prima parte dedicata alle “case” abitate dalla scrittrice (fisiche e simboliche), ognuno dei tre capitoli è dedicato a un tema centrale (i mostri, il rapporto tra visibile e invisibile e il tempo), esplorato non solo nei testi di Ortese, ma anche in dialogo con altre pensatrici e pensatori appartenenti all’ambito letterario, filosofico, antropologico, quali Günther Anders, Maurice Merleau-Ponty, Eduardo Viveiros de Castro, Donna Haraway, Eduardo Kohn, Anna Tsing, Rosi Braidotti, Gilles Deleuze, Amitav Ghosh, Dipesh Chakrabarty, Tim Ingold.

Nell’introduzione scrivi che la forza degli scritti di Ortese si poggia “sul recupero di un particolare modo di tracciare le frontiere tra umano e non umano su principi ontologici in grado di eludere il dualismo su cui si configura il pensiero moderno occidentale (natura/cultura, uomo/donna, umani/animali, animato/inanimato, ragione/sentimento), grazie a una visione ‘allargata’ del reale”. Trovo che sia una riflessione preziosa e che bordi, soglie, interferenze siano tutte immagini che ricorrono nel tuo testo e che ben si adattano a restituirci l’immaginario di Ortese, potresti parlarcene?

Sì, leggendo Ortese e cercando di capire quali fossero le spinte alla base della sua scrittura, mi è sembrato che un punto centrale fosse la radicale critica all’antropocentrismo. O meglio, a un modo “moderno” di vedere il mondo che da Cartesio in poi si è cristallizzato sui dualismi che ben conosciamo. Ecco, i testi di Ortese (in modi diversi) è come se ‘allargassero’ la realtà, ‘annebbiando’ questi dualismi. Se pensiamo ad esempio al romanzo L’Iguana, o al Cardillo Addolorato, o ancora ad Alonso e i visionari, ci rendiamo immediatamente conto che la ferrea distinzione fra uomo e animale non ha alcun senso. Non solo e non tanto perché si tratta di esseri metamorfici, piuttosto perché è il rapporto fra essi e gli umani a essere instabile, in divenire, pieno di contaminazioni. A Ortese non interessa dire in cosa differisce l’umano dall’animale (la ragione? Il logos? La coscienza della morte?): descrive una realtà fatta di relazioni, dove non è possibile concepire un’essenza pura (né immutabile) dell’essere umano, essendo sempre preso in processi di ibridazione con gli animali che incontra. Nei suoi libri, sia l’uomo che l’animale (pensiamo al conte Daddo e all’iguanuccia) attraversano, nel corso della narrazione, un processo di dis-identificazione dove la frontiera fra l’uno e l’altra si decostruisce pian piano. Grazie a questo meccanismo, i due potranno costruire un’alleanza reale.
Le immagini di bordo e interferenza che evochi sono estremamente azzeccate: non c’è più una frontiera netta fra l’essere umano e l’animale, bensì una zona di soglie di intensità dove avvengono continuamente degli sconfinamenti.


Ritieni sia corretto dire che Anna Maria Ortese sia stata una scrittrice marginalizzata o confinata in generi e etichette che non rendono pienamente il suo valore di scrittura e di pensiero?

Sicuramente non è stata letta né studiata come altri autori italiani del Novecento (penso a Pasolini, Calvino e tanti altri). In questo senso sì, sicuramente è stata marginalizzata. Inoltre, come suggerisci, le sono state affibbiate etichette che a mio parere sono non soltanto limitanti, ma anche nocive. Infatti, come parte della critica ha messo in evidenza, l’utilizzo di categorie e generi letterari nel suo caso si mostra alquanto problematico.
In particolare, è sull’uso del ‘fantastico’ e del ‘realismo magico’ che ho espresso i maggiori dubbi. Se di realismo magico vogliamo parlare, allora dobbiamo prenderlo come strumento e non tanto come genere dentro al quale inquadrare una scrittura; lo stesso vale per il termine ‘fantastico’, da intendere non come contenitore, bensì come luogo – vasto e dai contorni instabili – da cui la pagina sorge. In altri termini, il ‘fantastico’ non è, in Ortese, una forma capace di creare un mondo alternativo, consolatorio o di evasione, bensì una radicale messa in discussione della realtà e dei confini stessi fra reale e irreale.

Nel capitolo 2 dedicato alle persone, presenti la prospettiva non antropocentrica di Ortese come la ricerca, utilizzando le parole di Deleuze,  della “zona di vicinanza” e spieghi che le creature ibride presenti nei suoi romanzi “allargano i confini dell’umano”. Un aspetto molto interessante della tua riflessione su questo tema riguarda il nesso tra la preferenza per le creature ibride e metamorfiche  e una modalità di conoscenza basata sulla “personificazione”, e quindi in un certo senso sciamanica. Vuoi ricostruire qui questo quadro?

Sì, in effetti una delle questioni che mi è sembrata centrale, e su cui insisto nel libro, è quella legata al concetto di persona: nel primo capitolo, dopo aver affrontato il tema del mostro e aver indagato i concetti di Realtà ed Espressività per Ortese, mi concentro su questo termine, facendo riferimento da una parte alla raccolta di saggi Le piccole persone, dall’altra ad alcune riflessioni provenienti dalla filosofia e dall’antropologia. Riprendendo l’esempio de L’iguana, potremmo dire che qui Ortese crea un codice e una realtà dove le coordinate narrative dentro le quali siamo solite muoverci saltano. È attraverso un essere metamorfizzato a metà come l’iguana che il romanzo ci spinge in un territorio immaginativo dove la presenza di Estrellita non è turbamento. La persona qui non è un punto di arrivo, ma lo slancio necessario per sondare altri territori. Non si tratta semplicemente di inglobare nella narrazione animali, esseri a metà tra animali e umani, ma di far funzionare il testo in una diversa direzione, dove è possibile un rovesciamento di certe categorie nelle quali siamo immerse culturalmente (ad esempio l’idea che non si possa vivere un amore, anche molto sensuale, con un lume o una pianta). Per portare avanti questo discorso, ho fatto interagire i testi di Ortese con alcune teorie, quali il prospettivismo di Eduardo Viveiros de Castro: per l’antropologo brasiliano il prospettivismo, definito un «manierismo corporeo», non consiste nel riconoscere che c’è una realtà e molti punti di vista che la colgono in maniere diverse; al contrario, c’è solo un punto di vista (quello ‘umano’), che può essere assunto da esseri diversi . All’interno di questa teoria, Viveiros de Castro spiega come nello sciamanesimo amerindiano conoscere significhi personificare, e quindi fare proprio il punto di vista dell’altro, partendo dall’assunto che ciascuna specie percepisce le altre a seconda delle proprie affezioni corporee (intese in senso deleuziano non come sentimenti personali bensì come attuazioni di potenze che fanno traballare l’Io): il punto di vista parte dal corpo. Secondo l’antropologo, il fardello dell’uomo consiste nell’essere/considerarsi l’animale universale, e su questo ho trovato importanti punti di contatto con la scrittura di Ortese, in primis la proposta di abbandonare l’idea che l’umanità sia un ordine a parte tra l’insieme degli esistenti, e d’altro canto la convinzione che i confini fra umani e animali, persone e cose, umani e non umani vadano aboliti: al contrario, queste frontiere vanno indefinite, piegate, diffrante.
La questione che mi è sembrata interessante, e che mi ha portata a vedere gli scritti di Ortese sotto una nuova luce, conferendo valore ‘ontologico’ a qualcosa che fino ad ora era considerato in termini ‘descrittivi’, è quella del punto di vista quale luogo da cui si attua una prospettiva, ma anche come suolo dove si intrecciano diverse prospettive. Si tratta allora non solo di un ‘salto di pensiero’, ma di un atto radicale: come afferma Timothy Morton, «vedere sé stessi da un altro punto di vista è l’inizio dell’etica e della politica».

Quando si parla di letteratura e di romanzo in particolare, il tempo è elemento imprescindibile. L’ecologia profonda di Ortese crea una sorta di cortocircuito tra il tempo della storia umana e il “Tempo Profondo”, come lo chiama Benedetti, del Pianeta; sposta anche il rapporto tra lo sfondo cosmico e il primo piano della vita quotidiana. Questi spostamenti, queste mescolanze nell’opera di Ortese non soltanto lasciano  tracce tematiche, ma anche strutturano la lingua e l’impianto narrativo stesso. Vuoi approfondire questo aspetto complesso della scrittura di Anna Maria Ortese?

L’epoca in cui viviamo mette in crisi le coordinate e i riferimenti che, con tutti i loro limiti, fino a poco tempo fa potevano funzionare. Fra questi spicca naturalmente il tempo, a cui ho consacrato il capitolo finale del mio saggio, mettendo in dialogo alcuni testi di Ortese con altri di Clarice Lispector – La passione secondo G. H (1964) e Agua Viva (1973) e soffermandomi in particolare sulla figure dell’iguana (Ortese) e della blatta (Lispector), quali vie d’accesso, per gli umani, ad altre temporalità, a punti di vista impensati e più vasti della dimensione umana. In questa direzione, mi sono sembrate particolarmente utili le riflessioni di Dipesh Chakrabarty, il quale spiega molto chiaramente che i cambiamenti climatici indotti dalle attività umane impattano le nostre coordinate di comprensione storica, facendo franare le mura di separazione tra storia naturale e storia umana.
Più in particolare, si tratta di tre storie che, tradizionalmente separate e indipendenti le une dalle altre, in questo momento si ritrovano a convergere: la storia del sistema terrestre, la storia della vita che include quella dell’evoluzione umana sul pianeta, e la più recente storia della civiltà industriale (che per molti è la storia del capitalismo). La crisi climatica, che è anzitutto una crisi di senso, ci obbliga a pensare contemporaneamente su differenti scale temporali; tuttavia, persiste una incommensurabilità di fondo tra il tempo geologico e il tempo storico umano, tale per cui ogni discorso sull’Antropocene – cause, descrizioni, rimedi – ricade sempre necessariamente in temporalità umane.
In Ortese, tutto questo discorso emerge in modo impressionante. L’autrice lo esprime sia ‘concretamente’ nella sua scrittura (attraverso la scelta di determinati temi, ma anche grazie a un lavoro ‘inventivo’ sulla lingua), sia ‘teoricamente’ nel corso di alcune riflessioni datate 1984, dal titolo “La libertà è un respiro”. Ortese capisce, in maniera molto chiara e acuta, che la cultura moderna occidentale ha operato un’esclusione del senso della vastità del vivere. La nostra coscienza è «decapitata» perché manca di memoria storica e memoria biologica. In questo senso, la scrittrice propone un pensiero ecologico radicale: invece di santificare il corpo (privato) e pensare che il presente sia tutto, si tratta di aprirsi ad altri tempi/momenti e ad altri corpi, compresi quelli che ‘escono’ dalla realtà umana, compreso il corpo della terra: questi non sono uno sfondo, bensì agenti, che si concatenano all’umano.

Se Anna Maria Ortese fosse studiata a scuola su quali temi sarebbe a parere tuo imprescindibile soffermarsi?

Poco dopo l’uscita del libro, un professore del liceo della piccola città in cui vivo mi ha chiesto di andare a scuola a parlare di Ortese. Pensando a cosa avrei raccontato, mi sono posta la tua stessa domanda, ed entrando in classe mi sono chiesta a voce alta: “Perché una ragazza / un ragazzo di 17/18 anni, nel 2023 dovrebbe andare in biblioteca o in libreria, prendere un libro di Ortese, scrittrice morta da 25 anni, e leggerlo?” La risposta che ho provato a dare alle/agli liceali, molto brevemente, era stata la seguente: potrei dire che Ortese va letta perché fa qualcosa di molto diverso da quello che fanno gli altri autori del Novecento (Pasolini, Calvino, Gadda…): Ortese ribalta – questa è l’aspetto più interessante e anche sbalorditivo – le regole del romanzo moderno.
In che senso? Nel romanzo moderno, abbiamo in primo piano un protagonista (solitamente maschile), che compie delle azioni esterne (ma anche azioni interne, nel senso che seguiamo i movimenti della sua psicologia, come ad esempio ne La coscienza di Zeno di Svevo); e poi c’è tutto uno sfondo (paesaggi, città, natura, animali…). Ortese rovescia questo rapporto, non narrando più le imprese (sia fisiche che mentali) di un/una protagonista, ma un sistema di relazioni e di realtà dove la gerarchia fra primo piano e sfondo è rimescolata. Quindi affiorano anche animali, piante e tutta quella realtà mostruosa, “inaudita”, che il romanzo moderno aveva spinto nello sfondo. Ortese compie un atto originale e radicale, scrivendo romanzi che non ruotano più attorno a un protagonista umano con tutti i suoi successi e le sue fatiche, ma a una rete di relazioni fra punti di vista (umani, animali, vegetali, atmosferici), che continuamente si avvicinano e si allontanano.

A chi hai dedicato e vorresti dedicare questo tuo libro? Hai futuri progetti su Ortese?

Ho dedicato il libro a Ettore e Ida, i miei figli che mi hanno accompagnata nella scrittura e soprattutto aiutata (inconsapevolmente) nell’ideazione del saggio.
Altre persone ringrazio molto: sono amiche, compagni di viaggio, gatti, scorpioni, ulivi in fiore e lucciole che, in modo disorganizzato e composito, con amore, amicizia e affetto, fanno parte della mia famiglia e della mia comunità. Sì, ho altri progetti su Ortese, che credo non lascerò più. Sto curando un volume di saggi su di lei, che uscirà alla fine dell’anno e si sviluppa intorno a tre nuclei: il primo dedicato ai luoghi, ovvero alle geografie reali e fantastiche dell’opera ortesiana; il secondo rivolto al rapporto con altre scritture; il terzo incentrato sulla relazione con altri sistemi di pensiero / filosofie.
Alcune questioni (tematiche, formali e teoriche) che attraversano tutte le tre sezioni sono il linguaggio/la lingua, il sacro / non visibile, il rapporto tra ecocritica e femminismi, lo straniamento, l’abitare. Inoltre, continuo a riflettere sulla sua opera nei contesti di convegni e giornate di studi, dove posso confrontarmi con studiose e colleghi.
Soprattutto però, l’ambito per me più stimolante rimane l’aula, dove leggo Ortese con le studentesse e gli studenti, che ogni volta gettano uno sguardo diverso sui testi, arricchendo e a volte ribaltando le mie riflessioni.

 

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