“La masseria delle allodole”: il genocidio degli Armeni raccontato da Antonia Arslan

di Maria Grazia Ferraris

“Nel 1915 tutti nel mondo sapevano cosa stava accadendo in Turchia. La stampa parlava esplicitamente di ‘sterminio di massa’. Dopo la fine della prima guerra mondiale, però, le potenze occidentali, Francia, Inghilterra e Italia, stremate dalle fatiche del conflitto, si disinteressarono alle cose turche. I Giovani Turchi avevano progettato di eliminare tutte le minoranze: gli armeni, ma anche i greci, gli assiri, i curdi. Era una teoria nazionalista contraria allo spirito cosmopolita che aveva caratterizzato da sempre l’impero ottomano. Gli uomini furono sterminati subito, le donne deportate. Gli uomini furono eliminati fisicamente nei modi peggiori: legati su barche poi fatte affondare; ammassati in chiese successivamente incendiate…”

È la saga degli Arslanian, di due fratelli- Yerwant e Sempad- che con le loro scelte differenti hanno forgiato per i loro figli due destini tragicamente opposti, di vita e di morte.

Il fratello maggiore, Yerwant, incapace di adattarsi al secondo matrimonio del padre, lascia l’Armenia da ragazzo, studiando a Venezia nel collegio degli Armeni, e diventando medico di successo a Padova, dove sposa una nobildonna e ne ha due figli. Il fratello Sempad, meno avventuroso e più legato alle tradizioni familiari, rimane nel villaggio natale in Anatolia, dove riveste uno status preminente, facendo della sua farmacia una finestra sulle novità occidentali. La sua numerosa famiglia- di ben 7 figli, con la saggia moglie Shushanig, incarna i valori e la cultura del popolo armeno, come l’ospitalità festosa, l’intraprendenza mercantile, la religiosità tollerante.

Dopo molti anni di lontananza, nel 1915 i due fratelli combinano una rimpatriata. Yerwant con la famiglia si accinge a tornare in Anatolia con due automobili, carico di doni e di nostalgia: le partite a tric-trac, i sogni delle sorelle Azniv e Veron, la confusione dei bambini, le feste tradizionali, la cerimonia dei Fiori alla Vergine… Sempad a sua volta arreda prestigiosamente la “masseria delle allodole”, la villa in campagna, preparando un’accoglienza memorabile.

Ma lo scoppio della guerra- la prima guerra mondiale- spezza all’improvviso ogni progetto e consegna l’intero popolo armeno allo sterminio: i turchi, alleati dei tedeschi, inseguendo il mito di una Grande Turchia in cui non c’è posto per le minoranze, attuano il mostruoso piano di eliminazione delle minoranze etniche. Massacrati tutti i maschi, compresi i bambini, le donne armene, fra cui la moglie e le figlie di Sempad -e il piccolo Nubar travestito da bambina- saranno a marce forzate, tra umiliazioni, fame e stupri, deportate e trasferite ad Aleppo in un esodo atroce e spietato, destinate nel deserto di Deir-es-Zor a un’inesorabile “soluzione finale”.

Grazie all’avventuroso intervento di amici fedeli, per le figlie di Sempad si apre in extremis una via di fuga e il romanzo, teso come un thriller ed emozionante come una storia d’amore, si conclude, in un salto temporale, con la voce della narratrice, la nipote Antonia, che intrecciando storia e poesia, colori, suoni e profumi, ha saputo incidere la sua vicenda familiare nella memoria collettiva.

“Ora deve agire, da sola. Suo padre David Zacharian, il leggendario mercante che aveva percorso tutte le strade, l’aveva avvertita, il giorno delle sue nozze: ‘C’è un momento, nella vita di ogni donna armena, in cui la responsabilità della famiglia cade sulle sue spalle. Noi moriremmo, per evitare questo peso alle nostre perle, alle nostre rose di maggio: e infatti moriamo’”.

Chi ha letto con passione I quaranta giorni del Mussa Dagh, l’epopea di Franz Werfel sul genocidio degli armeni da parte dei turchi durante la prima guerra mondiale, ritroverà nel bellissimo romanzo di Antonia Arslan La masseria delle allodole un frammento della stessa vicenda, ricostruita da una discendente italiana sul filo delle memorie familiari.

Antonia Arslan, già docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea e autrice di diversi saggi e articoli, ammette di avere “riscoperto” la propria identità armena traducendo l’opera del poeta Daniel Varujan, ucciso durante lo sterminio di Costantinopoli nel 1915.

“Queste storie erano sepolte in me -spiega l’autrice- lo sterminio degli armeni, minoranza cristiana della Turchia, precede di 20 anni la Shoah degli ebrei, ed è un evento ‘senza memoria’. Se questo libro contribuisce alla memoria mi sento pacificata. Io mi sento italiana, ma la traduzione delle poesie di Varujan ha fatto uscire la mia parte armena che era nascosta, sclerotizzata, nutrita solo da racconti infantili.”

Il libro non è diviso in capitoli, ma in due parti, che prendono nome dai personaggi fondamentali, e la stessa Antonia Arslan ammette di essersi “bloccata” al momento di dover descrivere la tragedia della deportazione. “Poi ho capito di dover puntare sulla forza delle donne armene -racconta- coloro alla quali era stato affidato il peso di portare con sé vecchi e bambini. Gli uomini sono stati sterminati prima, ma a loro era stato detto che erano solo ‘andati avanti’. E anche la salvezza, per coloro che si sono salvati, specialmente i bambini, è venuta dalle donne abbandonate nel deserto, e poste davanti a scelte drammatiche come sacrificare un figlio per assicurare la vita ad un altro, o cedere alle richieste dei gendarmi per poter avere un po’ di cibo in più per la famiglia”.

“Il libro è pervaso da un grande senso di pietà, da un sentimento religioso. Non c’è mai odio, nemmeno verso gli assassini. Dio è sempre presente, anche quando si dice che è ‘velato’, e non si capisce se sia perché non vuole vedere le atrocità commesse sugli armeni o perché non aiuta questo popolo”, ha scritto Cecilia Tenaglia.

“Ora tu, ragazza Azniv, tu lascerai le tue ossa danzare al vento dei morti per salvare i bambini, e Shushanig; tu ti offrirai al soldato e al cavaliere curdo, tu riderai follemente, drappeggiata nella pezza di seta rossa con le rose di velluto e fili d’oro zecchino, quella che ti mandò tuo fratello Zareh per la festa di Pasqua…tu eroica, generosa creatura che ti lascerai infine morire, contaminata, ad Aleppo, con la pesante treccia ancora viva giù per le spalle, avendo compiuto la tua missione….” (p. 119)

Antonia Arslan segue la vicenda di tre bambine e un bambino vestito da donna che, avviati alla deportazione verso il deserto siriano, attraverso una serie di rocambolesche peripezie riusciranno a salvarsi per raggiungere l’Italia.

La memoria familiare dell’autrice si intreccia con la storia – il genocidio del popolo armeno è stato un terribile crimine contro l’umanità, come ha affermato il Parlamento europeo nel 1987, che è costato la vita a più di un milione di persone, ma il governo di Ankara tuttora si rifiuta di riconoscerlo come tale.

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