Il maestro del ghetto sull’acqua

di Renzo Favaron

Guardò l’orologio, un vecchio Lanco appoggiato sopra il comodino di mogano nero, l’unico mobile di un certo valore che abbelliva la sua casa: le tre del mattino. Starnutì, togliendosi gli occhiali. Aveva il naso intasato, che a tratti gocciava procurandogli un insopportabile fastidio.

Uscì da sotto le coperte imbronciato. Pesante come una bufala incinta, strascicò i piedi fin sull’entrata del salotto immerso nel buio: accese -la luce della lampada era fulminata da una settimana- il Bic da cui non si separava mai, muovendosi alla ricerca di alcuni fazzoletti di carta. Ne trovò quattro, che usò in rapida successione. Per il momento sarebbero bastati a rappacificarlo con la sua labile volontà di mettersi a dormire.

Aveva sforato di molti minuti l’orario che si era imposto come limite oltre il quale la luce della camera doveva essere spenta.

Il suo sguardo, nell’atto di coricarsi, si posò casualmente sulla dama veneziana del cinquecento raffigurata in una stampa antica appesa alla parete; l’immagine conteneva un granello di mistero, irreale e di un’esotica compostezza in contrasto con il senso di disordine emanato dalla sua casa. Il volto della dama era pieno e soddisfatto, riverberava freschezza e forza incisiva, quasi che in esso si rispecchiasse un tratto eterno di salute terrena. Indossava un abito di raso verde, con deliziosi sbalzi in giallo, lungo fino ai talloni, anzi scendendo con un po’ di strascico. Aveva un vitino di vespa, per cui si poteva supporre che non superasse i venti anni.

Una figura alquanto dissimile dalle dame incontrate nei dipinti di Pietro e Alessandro Longhi, dai cui volti traspariva un fondo di mestizia rattenuta, di dissimulata nostalgia e livore. Sui loro visi il ricordo pesava come un castigo. La maschera più dolorosa di rimpianto prendeva il posto della felicità. Già, proprio così: i fiorenti commerci della città dal leone alato, scossi dalla scoperta delle Americhe e incessantemente contrastati dai turchi, si erano più che contratti e a ciò si era accompagnato un lento e malinconico affievolirsi della luce che ne aveva esaltato la bellezza, lasciandole sgomente e con un pugno di orpelli.

In apparenza nessuna norma e maniera di essere legava la dama rinascimentale alle altre. Eppure persisteva immutata una certa familiarità, segretamente assunta dalla coscienza e in essa operante. L’inalterabile continuità della fisionomia veneziana affiorava ancora nei loro visi in un gioco intricato di somiglianze: qualcosa che congiungeva, qualcosa che permetteva la comunicazione interrotta, riuniva le dissomiglianti maschere femminili nell’ambito di una qualità comune.

«Da quanto» pensò il maestro «è in casa questa stampa?» Non se lo ricordava. Aprì gli occhi e gli sembrò di vedere un viso più vecchio, più rassegnato e più dolce.

La possibilità di prendere sonno era svanita; una folla di pensieri annichiliva ogni suo sforzo rivolto a questo scopo. La notte sarebbe stata ancora lunga, ancora buia e grigia. Ogni istante sembrava eterno. Non lontano una porta era stata aperta e richiusa. Guardò nell’oscurità filtrata dalle fessure della saracinesca abbassata. Solo il vento rompeva di tanto in tanto le trame di una notte troppo silenziosa. Stava con gli occhi aperti e fissava un punto qualunque del soffitto.

Sensibile al più intimo e lontano rodìo, stringeva i pugni quando improvvise scosse sembravano sul punto di fargli scoppiare le tempie. In certi momenti si prendeva in mano i capelli, li lisciava sforzandosi di non strapparne neppure uno.

Dei suoi veri capelli possedeva ormai soltanto il ricordo. Da circa dieci anni portava la parrucca, che cambiava due volte all’anno seguendo il ciclo delle stagioni. In primavera faceva sfoggio di una parrucca leggera e dal taglio corto, adatta al clima dei mesi più caldi e vissuti a contatto con l’aria. Allorché si avvicinava il periodo in cui doveva mettere quella invernale, era assalito da un panico incontrollabile. L’angosciava il pensiero di presentarsi in pubblico con un toupet dall’aspetto esageratamente oltre l’ordinario, più pesante e appariscente. Allora si rintanava in casa alcuni giorni, prima di uscire con il nuovo casco.

La camera lentamente si rischiarava, emergeva dal buio al pigro lucore dell’alba che montava come uno sbocciare rallentato, parsimoniosa nei suoi gesti, eseguiti con la stessa interminabile perizia di un attore del teatro kabuki.

Una lama di luce svelava in un sottilissimo rettangolo gli occhi della dama su cui il suo pensiero aveva temporeggiato tutta la notte. Gli sembrava una presenza viva, straordinariamente assorta in un silenzio espressivo, con la quale si aspettava che sarebbe iniziata una conversazione. Era desideroso di sapere a quale famiglia appartenesse, come se lui potesse vantarsi di essere il rampollo di un nobile casato veneziano. Un fascino prensile, tenace scaturiva dalla familiare e vischiosa stampa. Non se ne rese quasi conto che non era stato lui a intrattenerla, a volerla legare, ma questa ad agguantarlo col suo struggente appello.

Il sogno ad occhi aperti s’interruppe allo squillare metallico della sveglia chiusa in un cassetto del comò appoggiato ai piedi del letto. Si alzava regolarmente alle sei. La giornata iniziava fumando una sigaretta seduto sul bidè del bagno. Attraverso la tendina intravide i riflessi aranciati del sole. Gli doleva fissare il ventaglio di luce che penetrava tra il vetro dello sciorinato balcone e l’orlo raggrinzito della tenda a pois. L’acqua del canale dabbasso scintillava, e il maestro la vedeva distendersi a ridosso degli edifici velati da una sottile pellicola grigiastra.

Davanti allo specchio notò di avere gli occhi fuori dalle orbite. Aprì la bocca e sbuffò circonfuso da un’aria esasperatamente nevrotica. Ansava. Il viso di Cristo bizantino era scomparso; una maschera cerea s’incorniciava sullo specchio, come se un altro stesse a guardarlo immusonito.

Senza il minimo strappo, guidato da un’incredibile calma, si liberò della parrucca. La superficie del cranio era simile a una palla da bigliardo; qualche rada chiazza di capelli appariva un po’ al di sopra delle orecchie e ai lati della nuca. Intaccati da un precoce invecchiamento, i pochi peli rimastigli erano imbiancati, vicini all’ora di squagliarsi come sudicie macchie di neve. Di nuovo il cervello si mise a sgorgare. Fluiva in lui il ricordo di una battuta cinematografica che a tutta prima gli era sembrata gratuita: empaticamente in sintonia con il personaggio a cui era stata detta, lo martellava fin dentro le viscere il tono greve di una voce che ripeteva: «Hai più capelli bianchi, che capelli».

Gli venne il pensiero, mentre stava lì, che era solo al mondo; che tutti gli altri erano morti, lasciandolo, abbandonandolo alla curiosità di sapere perché mai il profondo senso di solitudine che provava dovesse – d’un tratto – illuminargli il volto.

Pettinò e spazzolò con cura la parrucca, quasi fosse la capigliatura di un bambino ancora troppo piccolo per acconciarsi i capelli. Aveva assunto un atteggiamento di contemplazione: ogni muscolo della faccia stava fermo e fissava come perso nel vuoto l’inerte oggetto su cui faceva scorrere dolcemente le nodose nocche della sua mano non occupata. L’artificiale cappelliera sembrava possedere qualcosa di sacro, d’inumanamente capace di esercitare su di lui un dominio superiore. La volontà non esisteva più. Un profondo senso di sottomissione brillava nei suoi occhi. Odiò se stesso per essersi scoperto ad adorare ciò che costituiva una fonte continua di sofferenza.

I capelli gli ciondolavano di nuovo intorno al capo. Con una punta di stizza, mista a mortificante furore, si era rimesso il toupet. Avvertiva una certa confusione, indistinguibile miscuglio di umori su cui la sua mente non sapeva esprimersi. Non gli sarebbe dispiaciuto scambiare una parola, ma una lontana sensazione di dover tacere dominava su tutto.

Sbadigliò, osservando in sé una figura svuotata e spossata. Il corpo riportò alla coscienza i sentimenti congiunti con le immagini passate in successione davanti ai suoi occhi durante le ore della notte trascorsa in bianco. La ressa dei pensieri s’era fermata. Si accese un’altra sigaretta. Meno di venti minuti alle 7.00: non aveva più tempo per rasarsi e poi fare colazione. Per una volta poteva andare in qualche pasticceria, dove era possibile prendere un capuccino e mangiare un cornetto di pasta sfoglia.

Da qualche parte risuonò una campana. Alle labbra salì una risata che si sollevò sopra di lui; gli fece sentire i propri lineamenti in ordine. Da anni non si sentiva a disagio nei minuti che precedevano il momento di mettere la testa fuori di casa. Era come chiamato a raccolta sotto un arco di felicità. Lui, una forma d’uomo, meno debole di quanto credesse, separava da sé la sensazione di una vita che lo sottraeva a se stesso, in cui egli semplicemente non avveniva.

Diciamo, che non si vedeva più come il maestro che insegnava la Teffilà e declamava il Berachot insieme ai bambini prima del pranzo. Ormai, del resto, il Gan era destinato a chiudere: la comunità costituiva l’uno per cento dei residenti lagunari e in futuro non sarebbe di certo aumentata. Anzi, era da considerarsi alla stregua degli animali e delle piante in via di estinzione, come i rinoceronti e le sequoie. Già, prima della deportazione, erano aperte cinque sinagoghe, mentre adesso non era attiva che la Scola Levantina e solo per i mesi invernali.

Dio, era arrivato a un punto nella vita, per quanto fosse ancora giovane, che tra le persone conosciute i morti erano più dei vivi. E così, su tutte le facce nuove che incontrava, imprimeva i vecchi calchi e per ognuna trovava la maschera che si adattava di più. In buona sostanza, gli orologi si erano fermati e lui non sentiva più il cuore pulsare in parallelo con il fluire del tempo.

Era tutto frantumato come un piatto, tutto maledettamente triste.

Basta. La pioggia lo sorprese all’uscita di casa. Nulla gli suggerì di andarsi a prendere un ombrello. Si sentiva dentro ogni goccia; anzi, era la pioggia stessa. Neppure cercò un riparo. Era riunito con tutto. La meta del lavoro non esisteva più: non sarebbe più esistita. «Angolino» disse una voce che echeggiava nella sua mente. Era la parola che lo accompagnava dal giorno in cui era nato. Cercò di sapere da dove venisse quella voce e quale ne fosse la fonte. Attorno a lui, non vedeva che la realtà oltraggiosa di tutti i giorni e di tutti gli istanti. Guardò verso la finestra della maestra Caterina, per vedere se ci fosse della luce. Ma no, non c’era niente. Poi si attardò a contemplare la casa rossa del fornaio. Nemmeno lì c’era il più piccolo segno di vita. Un silenzio impressionante, eterno, sembrava regnare dappertutto. Si prese il polso con una mano pesante, bisognoso di essere rassicurato. La strada, vecchia e zoppicante, era tutta deformata dall’età ed esprimeva l’angoscia di una comunità: non era un individuo orgoglioso che si racconti. No, alcune delle sue case erano già in rovina. Per un lungo istante, guardò ancora una volta verso la finestra della maestra Caterina, ma invano. Le persone erano morte o si nascondevano? Chissà. Sospirò e storse la bocca, spossato che non ci fosse nessuno a cui spiegare che fin dall’infanzia aveva trovato rifugio nella fantasia per sfuggire all’orrore di dover fronteggiare un mondo in cui chi era diverso veniva deriso e Giobbe veniva internato in un campo di prigionia perché aveva un nome giudeo. Oh Javhè dei poareti…

A testa bassa il maestro svoltò in Calle del Forno e, malgrado l’acqua cadesse a catinelle, sembrava che non lo riguardasse. No, penetrava nella strada con una dolcezza commovente, la stessa dolcezza che aveva avuto nei confronti della dama veneziana. Non pensava più alla parrucca. La strada lo aveva preso con sé e lui si lasciava trasportare. Girava con le mani in tasca e di quando in quando ne estraeva una per grattarsi la testa.

Alla fine, dopo un girovagare di ore sotto la pioggia, sedette sulla scalinata del Ponte Loredan e restò lì con la parrucca in mano, immobile, finché il sole non ebbe asciugato tutte le lacrime.

***

Renzo Favaron ama i cani, i gatti,  i canarini e i gelsi (non meno che ii salici e i pioppi). Ha una cotta per la poesia, dal giorno in cui ha letto Pianissimo di Camillo Sbarbaro. Beve un bicchiere di vino al giorno e ascolta Art Pepper quando c’è la luna piena. Attualmente non svolge alcuna attività lavorativa, ma fino a qualche mese fa si occupava di riabilitazione psico-sociale e mediazione socio-lavorativa. Ha pubblicato alcune raccolte di poesia, dei brevi romanzi e di recente una raccolta di racconti.

NOTE

1) Gan: giardino dell’infanzia.

2) Con Angolino venivano chiamati a Venezia gli ebrei prima durante e dopo le Leggi razziali emanate in Italia nel 1938

Immagine di copertina, Luigi Ghirri, Venezia, 1987

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